Emma è dirigente di un’azienda multinazionale. Ha 40 anni e il suo percorso di carriera è costruito su una serie continua di successi, di risultati brillanti, una progressione molto veloce, fino alla promozione nel suo ultimo posto, come responsabile marketing di una Business Unit dell’azienda, avvenuta qualche mese fa, a coronare un obiettivo che aveva fin da giovane. Molto in fretta il nuovo ruolo comincia a pesarle, sia per il lavoro in sé, ma anche per l’équipe che è chiamata a guidare, per colleghi e colleghe, per l’ambito decisionale che si rivela essere inferiore rispetto alle sue aspettative. Iniziamo il coaching dopo alcune settimane nelle quali si è sentita vittima di una pressione, che giudica immotivata e non utile rispetto ai risultati che le vengono richiesti. È piena di dubbi sull’azienda stessa, che le sembra tradire il sistema di valori dichiarati, ma anche sulla continuazione della sua carriera nel settore privato. Si dice che forse dovrebbe sperimentare qualcosa di più allineato ai suoi valori con un impatto sociale più importante. Dopo qualche seduta, chiarito che non vuole restare nel suo ruolo attuale, incominciamo ad esplorare altre possibilità di ruoli anche molto lontani da quello che sta facendo, perché dice di avere voglia di un cambiamento radicale. Ed Emma comincia ad avere un comportamento particolare a questo proposito. Ogni volta che un’idea emerge e sembra piacerle comincia a trovare argomenti contro “No ma poi mi dovrei formare per anni per fare questo”, “Non ho le competenze” “Tutte le persone con cui ho studiato fanno lavori prestigiosi”, “Non riuscirò e dovrò ritornare in azienda occupando un posto meno importante”, “Mi piacerebbe ma non sono capace”…
Il bias di avversione al rischio è stato individuato da Tversky e Kahneman già nel 1973. Si tratta del processo di pensiero che collega il rischio alla possibilità di perdere e che produce decisioni distorte perché la possibilità di vincere viene sottovalutata, a fronte delle perdite possibili. Dal punto di vista del funzionamento neurologico, l’amigdala ci segnala una minaccia. Lo striatum, addetto a valutare perdite e guadagni possibili sbilancia la percezione sulle perdite, l’insula, insieme all’amigdala responsabile del disgusto, ci allontana dal comportamento ritenuto rischioso. L’avversione al rischio è collegata alle nostre decisioni di investimento, comprese, ad esempio, quelle relative alle assicurazioni. Ma oggi parleremo di questo bias in connessione con un fenomeno psicologico che si origina da esso, il cosiddetto “Critico Interno o interiore”. Il Critico Interno è quella voce continua ed insistente che ci ricorda quanto siamo incapaci, incompetenti, non adatte e adatti; che ci fa vergognare anche solo di aver pensato di fare una determinata cosa, di parlare in pubblico, di intervenire ad una riunione, di desiderare quel ruolo, di fare qualcosa che non abbiamo mai fatto. Sempre quella voce che ci fa adottare un “fixed mindset” piuttosto che un “growth mindset”, spingendoci a vedere, in modo inconsapevole, ogni apprendimento come un rischio, mettendo in luce le perdite che saranno causate dalle novità, attivando quel circuito ancestrale di pensiero difensivo, che abbiamo ricordato più sopra, che ci era tanto utile agli albori della nostra specie, che ora rischia solo di inchiodarci a situazioni dolorose e non desiderate per paura del rischio di percorrere strade nuove.
In sostanza possiamo immaginare il critico interno come una specie di piccolo personaggio cattivello seduto sulla nostra spalla in permanenza. Sull’altra spalla c’è seduto un personaggio molto più benevolo, quello che Doena Giardella in un articolo apparso sulla rivista del MIT Sloan chiama “inner champion” o in altra letteratura “inner mentor o coach” (Tara Mohr) e che ci suggerisce nuove idee, creatività e ci dice che tutto andrà bene. Ma la tendenza spontanea è piuttosto quella di non ascoltare questa voce e di lasciar dirigere la conversazione interna che abbiamo con noi stesse e noi stessi piuttosto dal personaggio che ci ama meno e di fargli guidare le nostre azioni.
Le voci che lo animano possono essere diverse e vengono dal nostro passato: chi ci ha educato, genitori, adulti di riferimento, educatori scolastici, sorelle e fratelli, ma anche degli ambienti non contenitivi, percepiti come minaccianti, nei quali non abbiamo potuto sviluppare relazioni in sicurezza, come succede, secondo la teoria dell’attaccamento, quando abbiamo vissuto relazioni dette “di evitamento” durante l’infanzia.
La voce del critico interno non ci parla gentilmente, come normalmente si parla a qualcuno che ci ama, ma ci etichetta “non sei quella o quello che fa questo tipo di cose”, può essere all’origine della famosa “sindrome dell’impostore”, ci ricorda tutte le nostre debolezze, ci paragona ad altri ed altre sempre più performanti di noi, ci fa immaginare risultati disastrosi nei quali proviamo un grande senso di colpa e vergogna per quello che abbiamo fatto. È la voce della (finta) saggezza che ci dice “non lasciare la strada vecchia per la nuova” “chi si loda s’imbroda” e che, al momento di agire per trasformare e rigenerare la nostra vita, il nostro ruolo, la nostra azienda, la nostra famiglia, ci paralizza e ci spinge a preferire lo status quo piuttosto che rischiare di perdere qualcosa, come in tutti i cambiamenti.
E’ questa voce che la manager Emma del nostro caso, ha sentito, forte e chiara,nel momento in cui ha iniziato a pensare di uscire dalla strada tracciata per trasformare la sua vita verso qualcosa di più coerente con la vocazione che sente in questo momento. Quando abbiamo esplorato, durante il coaching, la voce del critico interno, alcuni episodi della sua infanzia che Emma ha ricordato, hanno permesso di dare una forma alla voce: in particolare Emma ha risentito le voci della sua famiglia, le critiche e i consigli, che le raccomandavano di andare verso un ciclo di studi adatto all’ambiente e posizione sociale e poi le scelte professionali e di carriera, l’approccio al lavoro caratterizzato da devozione e perfezionismo estremi. Voci che ha fatto sue, e che più volte l’hanno messa a rischio di burn out, non facendola mai sentire abbastanza competente, brava, brillante, performante, sia rispetto a sé che rispetto alle altre persone in azienda.
Il critico interiore rischia di minare profondamente la fiducia in se stessi e la fiducia negli altri quando produce proiezioni sugli altri generando una dinamica di attribuzione di cattive intenzioni nei nostri confronti “è colpa loro, mi fanno sentire male”, “non piaccio a colleghi e colleghe” etc.
Cosa possiamo fare, concretamente, a riguardo del critico interno?
- Tara Mohr, nel capitolo di “Playing Big” dedicato al tema suggerisce soprattutto di non respingerlo in toto. In fondo, se risaliamo all’utilità evolutiva del bias “avversione al rischio” che ne è all’origine ci possiamo ricollegare al fatto che uno degli obiettivi di questa voce critica è proprio quello di proteggerci dall’ostilità dell’ambiente. Il suggerimento, quindi, come avviene nella teoria Junghiana dell’ombra è quello di accoglierlo, di esserne consapevoli. Un buon modo è far uscire da sé la confabulazione e scrivere ciò che il critico interno ci dice per poterlo trasformare. Tara Mohr suggerisce di dividere un foglio in due colonne con, a sinistra per esempio, il critico interno, ed a destra il “pensatore razionale”. In quest’ultima colonna potremo cogliere la saggezza del messaggio che ci stiamo mandando, che ci permette di, ad esempio, calcolare rischi e profitti della scelta in modo razionale;
- Quando il critico interno è attivo parliamo a noi stesse e di noi stessi in modo cattivo, duro, senza empatia. Doena Giardella del MIT suggerisce di inserire proprio questa dimensione nella nostra conversazione interna. Essere gentili. In questo momento nel quale si parla molto di “kind leadership” diventa essenziale partire da sé, usando compassione e comprensione nella nostra conversazione interna, per non auto ferirci o auto sabotarci nei processi di trasformazione. L’idea è quella di usare “l’inner champion” o “inner mentor” (il personaggio buono che ci parla dalla nostra spalla) per aiutarci a riformulare le critiche.
- Nel momento in cui stiamo agendo, ad esempio in relazione con gli altri, e sentiamo che nella nostra conversazione interna ci stiamo criticando, decentrarsi da sé, ritornare in connessione relazionale con gli altri e chiederci di cosa hanno bisogno. Il critico interno ci toglie non solo dall’empatia verso di noi ma anche dall’empatia nella relazione, facendoci centrare solo sul nostro bisogno inconscio di preservare lo status quo.
- Nell’analisi ex post (di una riunione, di un cambiamento, ma anche di un fallimento) cercare il lato positivo, la lezione appresa, il germoglio di qualcosa di nuovo che è nato. Permettere la rigenerazione, diremmo in Nexus.
- In posizione di management potremmo inconsapevolmente riprodurre il copione familiare, creando ad esempio un ambiente di lavoro definibile come “di evitamento” secondo la teoria dell’Attaccamento. In questo tipo di ambiente il critico interno potrebbe corrispondere a una domanda, più o meno implicita, di perfezione non solo verso di noi ma anche verso gli altri membri del team. Nel caso, ad esempio, di un cambiamento che vogliamo promuovere o di un errore fatto sarà utile usare l’umiltà per approfondire le cause e le responsabilità, da quella che in inglese si chiama una posizione “inquiry”, di indagine benevolente e veramente aperta, invece di ricorrere all’advocacy, all’accusa, al sollecitare il sentimento di colpa e la vergogna nei membri del team.