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Ownership sul nostro contributo: da un’economia basata sulla negazione ad un’economia rigenerativa – Parte 3

La negazione viene sfidata

Nel suo splendido articolo, la famosa studiosa di sistemi Donella Meadows (1999) spiega come, in un complesso residenziale negli Stati Uniti, dove le case erano più o meno identiche, il consumo di elettricità era inferiore del 30% in un particolare blocco, rispetto ai blocchi circostanti. Mentre isolazione, numero di elettrodomestici, costo dell'elettricità, ecc. erano tutti invariati, l'unica differenza era il posizionamento del contatore: nell'ingresso per le case che consumavano meno elettricità, nel seminterrato per le altre case. Passare davanti al contatore ed avere così accesso costante alle sue informazioni è ciò che faceva la differenza. Qualsiasi attività insolitamente elevata poteva essere notata rapidamente, trovandone la causa principale e intraprendendo un'azione correttiva. Così, il posizionamento del contatore porta "le informazioni in luoghi dove prima non arrivavano, inducendo le persone a comportarsi in modo diverso".

Oggi, anche l'umanità ha accesso ad informazioni che non aveva mai avuto prima. Oltre ai media tradizionali, abbiamo nuovi canali di informazione grezza e non filtrata: l'IPCC per il Cambiamento Climatico, ma anche Wikileaks, Edward Snowden, le fughe di notizie di Panama, ecc. Inoltre, oggi siamo immersi in una piattaforma che diffonde e collega tutte queste informazioni in un istante: il Web.

In questo contesto, siamo inondati di prove delle conseguenze delle nostre azioni e delle interconnessioni tra ciò che facciamo e l'impatto che ha nel mondo e, a circolarmente, su di noi.

Questo flusso di informazioni potrebbe esacerbare il nostro rifiuto e disconoscimento individuale e sociale, oppure, come fa il contatore elettrico per le famiglie citate da Donella Meadows, potrebbe darci l'impulso per un'azione trasformativa.

 

Dal business basato sulla negazione a una economia rigenerativa

Questa azione trasformativa ci richiederebbe, per citare Lawrence ancora una volta, di passare alla posizione depressiva, in cui "spostiamo la preoccupazione primaria dalla sopravvivenza del sé alla preoccupazione per l'oggetto da cui l'individuo dipende". Sebbene Lawrence si riferisca qui a una dinamica intrapsichica, potremmo estendere la sua argomentazione ai livelli organizzativo e sociale: spostare la nostra preoccupazione primaria dalla sopravvivenza della nostra azienda a una preoccupazione per gli oggetti da cui la nostra azienda, e di fatto noi stessi, dipendiamo: gli ecosistemi naturali e i sistemi sociali che ospitano.

Ciò significa liberarsi dei punti ciechi che ci tengono nel "falso mondo" e abitare mentalmente e con tutto il cuore il "vero mondo", dove gli outcomes (e non più solo gli outputs) diventano i nostri principi orientativi, dove gli impatti diretti e indiretti delle nostre attività non sono più definiti come esternalità, ma tornano al centro del nostro processo decisionale strategico.

Questo è l'obiettivo dell'economia rigenerativa: assumere ruoli nelle organizzazioni in grado di generare prosperità personale, prosperità del sistema e, infine, prosperità dell'ecosistema, tutti allo stesso tempo, senza che uno venga ignorato a scapito degli altri due. La Figura 2 illustra come potrebbe apparire.

Leadership attraverso purpose

Tornando al diagramma che abbiamo presentato in precedenza in questo articolo , questo significa entrare nello spazio della "leadership attraverso il purpose": uno spazio in cui si mobilita il Sistema in cui si lavora per produrre un impatto nel mondo che sia congruente con il mondo in cui si desidera vivere (e in cui si desidera che i propri nipoti possano vivere).

Per molti, questo può assumere la forma, come per Michael, dell'abbandono del "vecchio" per promuovere il "nuovo", ad esempio, lasciando un'organizzazione del ventesimo secolo per creare un'azienda più piccola, organizzata fin dall'inizio con il chiaro scopo di avere un impatto positivo nel mondo. Non possiamo ancora sapere quanto questa tendenza si diffonderà, ma dato il livello di imprevedibilità che caratterizza la nostra epoca attuale, potremmo immaginare un futuro in cui le grandi aziende dinosauro si sgretolano e scompaiono, mentre accanto a loro nascono e crescono nuove organizzazioni guidate da uno scopo, che sostituiscono questo ecosistema aziendale obsoleto.

Tuttavia, per molti questa potrebbe non essere un'opzione, e la domanda può essere "Come posso essere leader attraverso il purpose, all'interno della mia organizzazione?".

In molte organizzazioni, questo è possibile portando più informazioni dal campo e coinvolgendo i decisori chiave intorno a queste informazioni. Tuttavia, per far sì che ci arrivino, il senso di colpa e la vergogna (che molto probabilmente si proveranno nel rendersi conto del ruolo svolto) dovranno essere contenuti, in modo da non sommergere le persone e indurre una regressione.

La nostra esperienza di lavoro con le aziende ci dice che questo richiede un approccio diverso da quello utilizzato, ad esempio, nelle conferenze di relazioni di gruppo o nella psicoterapia: per esempio, poiché nominare direttamente questi sentimenti probabilmente spingerebbe altri meccanismi di difesa intorno ad essi, sarebbe più produttivo entrare nello spazio di transizione del gioco organizzando un incontro fuori sede per esplorare insieme i possibili futuri.

Una volta raggiunto collettivamente il 'sensing' (vedi Scharmer, 2013) del Contesto e del Sistema, si può passare a evidenziare insieme i limiti del modello attuale, sottolineando ciò che non può continuare nel futuro se vogliamo mantenere la salute finanziaria dell'azienda e, allo stesso tempo, contribuire a un mondo che soddisfi i nostri bisogni, le nostre aspettative e le nostre esigenze e quelle delle generazioni a venire.

Sarà quindi il momento di coinvolgere il collettivo nell'immaginare futuri desiderabili, accedendo alla loro giocosità, immaginazione e creatività per risolvere l'equazione di base dell'economia rigenerativa: come sarebbe per la nostra azienda riuscire a incrementare la propria prosperità, quella dei suoi dipendenti e allo stesso tempo contribuire alla prosperità dei nostri ecosistemi? Cosa smetteremmo di fare, cosa inizieremmo a fare e cosa faremmo in modo diverso?

Fondamentalmente, anziché limitarsi a sottolineare ciò che è stato sbagliato in passato (che non farà altro che esacerbare il senso di colpa e di vergogna, e i meccanismi di difesa associati), bisogna portare i responsabili delle decisioni a creare storie di futuri possibili e desiderabili, che stimolino il loro desiderio di impegnarsi nella trasformazione necessaria. Questo è il fondamento filosofico del documentario di successo Demain del 2015: non coinvolgere le persone attraverso il senso di colpa, la vergogna e la paura per lo stato della Terra, ma piuttosto con ottimismo, speranza, immaginazione e creatività.

Le azioni, quindi, non saranno guidate da una preoccupazione di riparazione, cioè di riparare i danni per i quali ci sentiamo così colpevoli e ci vergogniamo. Piuttosto, si svilupperanno in uno spirito di rigenerazione, ad esempio, consentendo alla vita di avanzare e di sviluppare le condizioni per una maggiore vita.

In alcune organizzazioni, è possibile un approccio diverso, soprattutto perché hanno raggiunto un nuovo livello di maturità, diventando ciò che Frédéric Laloux (2014), nel suo libro innovativo Reinventare le organizzazioni, chiama organizzazioni Teal. Secondo Laloux, le organizzazioni Teal mettono in atto un paradigma emergente per il XXI secolo e prosperano in termini di business, grazie a tre pilastri attorno ai quali funzionano: self-management, wholeness e evolutionary purpose.

In questo particolare quadro concettuale, "wholeness" significa la capacità (e la libertà) di portare interamente se stessi al lavoro, cosa che Michael non poteva fare nella sua azienda farmaceutica. Questo, a sua volta, si collega al concetto di evolutionary purpose, ossia l'impatto che un'organizzazione è chiamata a generare nel suo ecosistema. Secondo Laloux, le aziende prosperano quando le persone, che possono essere pienamente se stesse al lavoro, si autogestiscono, per percepire e rispondere alle opportunità e alle minacce nel loro contesto, in base allo scopo evolutivo dell'organizzazione per cui sono impiegate. Così facendo, osserva Laloux, le persone sviluppano naturalmente una consapevolezza dell'impatto delle loro attività sul mondo circostante e una motivazione a ridurre l'impatto negativo e a promuovere quello positivo.

Questi nuovi modelli di organizzazioni, insieme all'intero movimento della "leadership liberatrice" (Carney & Getz, 2009), stanno guadagnando molta attenzione nel mondo aziendale. Un modo per coinvolgere la propria organizzazione nella trasformazione potrebbe quindi essere quello di avviare un processo di trasformazione verso un'organizzazione Teal/liberata.

 

Conclusione

Riconoscere la nostra parte può essere scoraggiante, in quanto richiede di affrontare il senso di colpa e la vergogna di aver contribuito a co-creare un mondo in cui non è così salutare vivere. Per quelli di noi che sono abituati a creare spazi per dare un nome a questi sentimenti e per elaborarli, potrebbe essere necessario un nuovo approccio, per aiutare le persone a superare la paura di trasformarsi e trasformare. In questo nuovo approccio, l'immaginazione e la creatività, insieme all'impegno a lavorare con le informazioni provenienti dal campo, possono aiutare a creare prima un contenitore sicuro chiamato "futuro desiderabile", che serve poi ad aiutarci ad accedere al nostro io competente e a navigare in questo spazio di transizione. Solo allora, e al proprio ritmo, questi sentimenti troveranno una voce per essere espressi, e il nostro riconoscerli alimenterà la spinta alla rigenerazione.


Il purpose come modo per superare la scissione

Ownership sul nostro contributo: da un'economia basata sulla negazione ad un'economia rigenerativa - Parte 2

Il purpose come modo per superare la scissione

La figura 1, adattata dal lavoro del Grubb Institute, può aiutarci a capire cosa sta operando nell'esperienza di Michael.

In questo quadro, Michael (una persona) lavora in un'organizzazione farmaceutica (un sistema) che ha un impatto sul mondo (il contesto). Attraverso le sue azioni, Michael contribuisce a co-creare un'organizzazione che, a sua volta, contribuisce a co-creare il mondo. Come persona, Michael vive in questo mondo e sogna un mondo in cui vorrebbe vivere, un mondo che vorrebbe migliorare, in cui si potrebbe trovare più salute, più benessere, più felicità. Dodici anni fa, infatti, era entrato in questa organizzazione per contribuire a realizzarne il purpose esplicitato (migliorare la salute del mondo), perché esso era in linea con la sua visione del mondo e del suo purpose personale.

Per tutti gli anni nei quali ha lavorato dentro l'organizzazione, tuttavia, il mondo da lui desiderato era all'opposto di quello che la sua azienda stava contribuendo a co-creare. A livello cosciente, Michael non ne era consapevole. I meccanismi di difesa personali e sociali (come il filtraggio dei dati, il blocco di certe domande, il rifiuto di avventurarsi in certe conversazioni, ecc.) lo aiutavano a rimanere scollegato da questo "vero mondo", consentendogli di operare in un "falso mondo" in cui il mondo in cui viveva non era il risultato degli impatti della sua azienda. In altre parole, per vivere in quella realtà e rimanere sano di mente, Michael ha dovuto operare inconsciamente una netta scissione, dentro di sé, di questi due mondi. Impegnandosi con ONG, gruppi ecclesiali e altre iniziative di solidarietà nella vita privata; e applicando il suo talento al branding di nuove molecole per la sua azienda nella vita professionale.

Se nella vita privata trovava un vero purpose, questo era invece assente dalla sua vita professionale. Peggio ancora, il purpose formale, rivendicato dalla sua azienda come "mission statement" (risolvere le più grandi sfide sanitarie del mondo), si rivelava fortemente scollegato da quello attuato (trovare mercati lucrativi per le molecole sviluppate).

Nella Figura 1, il punto in cui i tre cerchi si incontrano è il luogo da cui si può esercitare leadership "on purpose", ad esempio mobilitando il sistema per attuare avere un impatto sul mondo congruente con il tipo di mondo che si desidera costruire. Dalla sua posizione, Michael ha ritenuto impossibile accedere a tale spazio di leadership e ha scelto di smettere di contribuire alla co-creazione di un sistema il cui scopo era in contrasto con il suo. Così ha deciso di licenziarsi, per lanciare un'attività (un nuovo Sistema) in cui i suoi scopi personali e professionali potessero integrarsi. Così come Dubouloy descrive il passaggio dal "falso sé" al "vero sé", noi ipotizziamo qui l'idea che la decisione di Michael sia stata un'attuazione della sua intenzione di uscire da un "falso mondo" per entrare in un "vero mondo".

Dalla negazione individuale a quella collettiva: il ruolo dei meccanismi di difesa organizzativi

Le dinamiche di negazione, difesa e scissione esplorate in dettaglio sopra sono dannose per se stessi e, si potrebbe sostenere, anche per il mondo. Per molti, sia che lavorino nel mondo degli affari o che si limitino a commentarlo, c'è la percezione che, per quanto deplorevole, questo tipo di considerazione sull'impatto delle nostre attività sul mondo non trovi spazio nel mondo del business, dove, dopo tutto, tutto ciò che dovrebbe importare è "ciò che è buono per il business" - il resto sono solo esternalità. Finché il business cresce, tutto va bene, o almeno così vorrebbero farci credere, gettando così le basi per la negazione e il disconoscimento collettivo.

Parte della tragedia, al di là dell'impatto degradante di queste attività sui nostri ecosistemi viventi, è che, anche dal punto di vista delle imprese, non ci potrebbe essere un'idea più sbagliata. Qualsiasi azienda (sistema), per prosperare, deve monitorare continuamente il mondo in cui si evolve (contesto) e anticipare la direzione in cui si sta dirigendo per modulare le proprie risposte a quel mondo emergente, anziché cercare di filtrare la realtà esterna per continuare a produrre il tipo di risposte che ha sempre avuto.

Per dirla con un linguaggio psicodinamico, la costruzione di difese contro l'ansia può essere funzionale fino a un certo punto, ma non risolve mai l'ansia stessa, né la sua fonte. La maturazione psicologica è ciò che aiuta a superare l'ansia, affrontando i problemi che la generano in primo luogo. Ma portandoci a credere che "tutto ciò che dovrebbe importare è ciò che è buono per il business", la negazione della società può essere sostenuta da una narrazione collettiva che rende molto difficile arrivare alla realtà del mondo che stiamo creando (il "vero mondo"), "vendendoci" costantemente un "falso mondo" che, anche se analizzato all'interno di un paradigma di business, fallirebbe il suo stesso test.

Un esempio di ciò è stata l'era della presidenza Trump negli Stati Uniti con gli enormi muri che Trump ha cercato di erigere. Se il più pubblicizzato è stata la fantasmagorica costruzione di un muro tra gli Stati Uniti e il Messico, un altro, più sottile, è stato per anni all'opera: il muro psichico tra ciò che la scienza basata sull'evidenza dice sul cambiamento climatico e le politiche portate avanti al Congresso.

Se da un lato queste potevano (o meno) produrre un successo temporaneo per le imprese, dall'altro hanno contribuito all'innalzamento del livello del mare lungo le coste (Miami sta già affrontando sfide enormi), alla siccità e agli incendi in California, all'impoverimento e alla tossicità del suolo in tutto il territorio, solo per citarne alcuni. Di questo passo, continuando in queste politiche tra quindici o vent'anni gli US non potranno più prosperare perché non ci saranno più clienti, tanto saranno impegnati a cercare di sopravvivere alle condizioni avverse che si saranno create.

La volontà di negare il cambiamento climatico ha un costo elevato anche per quelle stesse imprese che si pensava potessero trarre il massimo vantaggio da questa negazione: quelle dei combustibili fossili. In tutto il mondo, le prime ad essere colpite sembrano essere le compagnie del carbone, per le quali molti dei principali operatori rischiano la bancarotta. Mentre il movimento di disinvestimento ha guadagnato terreno e l'accordo COP 21 di Parigi ha spinto sempre più Paesi e istituzioni finanziarie a smettere di finanziare il carbone (si stima che finora siano stati disinvestiti sei trilioni di dollari), l'industria non è stata in grado di reagire abbastanza rapidamente.

Il suo modello di business si basa sul fatto che il mondo utilizzi il carbone, e che lo faccia a un ritmo crescente. Con l'aumentare delle prove dell'impatto della CO2 sull'aumento delle temperature, senza dubbio molti dei lavoratori dell'industria del carbone hanno vissuto (inconsciamente) una scissione interiore tra il garantire un reddito alla propria famiglia oggi e il creare un futuro pericoloso in cui vivere per quegli stessi bambini che oggi sono felici di poter sfamare. Questa scissione richiede difese psichiche per durare nel tempo, il che significa che a livello individuale, per sostenere questa disconnessione da una realtà altrimenti insopportabile, si ricorre alla razionalizzazione, all'omissione di dati, all'esclusione di sentimenti, ecc.

Ma al di là di questi processi di scissione individuale - anzi, forse proprio guidati da essi - si tratta di un vero e proprio sistema di difesa organizzativa, creato per mantenere in vita l'azienda. Alla base c'è la creazione di una cultura che esclude i dati che mettono in discussione lo status quo, promuove coloro che rafforzano la storia dominante ed esclude (attraverso l'intimidazione e/o il licenziamento) coloro che si fanno portavoce di alternative. Vediamo qui dinamiche simili a quelle analizzate da Amy Fraher (2005) nella cabina di pilotaggio degli aerei coinvolti in incidenti che portano, in questo caso, al collasso dell'organizzazione stessa.

Le prossime sulla lista, a meno che non reagiscano rapidamente, sono le compagnie petrolifere. Mentre il carbone è stato utilizzato principalmente per la produzione di energia elettrica, e quindi può essere sempre più sostituito dal nucleare o dalle energie rinnovabili, la benzina ha ottenuto una tregua, poiché è ancora molto richiesta per i trasporti, l'alimentazione e l'edilizia, solo per citarne alcuni.

Tuttavia, le istituzioni finanziarie stanno già valutando il rischio di "stranded assets", cioè di ritrovarsi con attività investite in aziende petrolifere che hanno perso molto del loro valore e che rischiano di provocare una svolta del mercato simile a quella che ha portato alla caduta dell'industria del carbone. Cresce quindi il rischio di un disinvestimento massiccio delle istituzioni finanziarie dalle compagnie petrolifere. Che cosa tiene dunque le compagnie petrolifere ancorate a questo scenario mortale?

Attività vs purpose: confondere il "cosa e come" con il "perché"

La negazione e la scissione nell'industria dei combustibili fossili sono meccanismi di difesa, probabilmente creati per proteggersi da almeno due fonti di emozioni opprimenti: il senso di colpa e la vergogna da un lato (che analizzeremo più avanti in questo articolo), e l'ansia per la prospettiva di una morte imminente dall'altro, costruita sulla fantasia che in uno scenario a +2° queste compagnie siano destinate a morire. Per difendersi dalla schiacciante ansia generata dalla prospettiva di morire, si impiegano un sacco di lavoro ed energie per cercare di continuare a esistere nella stessa forma (business as usual), anche a costo di far naufragare l'intera nave.

Questo, a mio avviso, è dovuto al fatto che queste aziende si sono identificate eccessivamente con il loro "cosa e come" (i loro output), piuttosto che collegarsi al loro "perché" profondo (i loro outcome) per reinventarsi continuamente. Come suggerisce Simon Sinek (2009) nella sua teoria dei cerchi d'oro, la vera leadership deriva dall'organizzazione basata sul "perché", non sul "come" e sul "cosa". Eppure le compagnie petrolifere soffrono oggi per aver definito la loro esistenza intorno al loro prodotto (il petrolio), suggerendo di esistere per portare il petrolio alle persone e alla società, piuttosto che chiarire quale scopo questo petrolio debba avere nella società.

Immaginiamo però che le compagnie petrolifere abbiano dichiarato che la loro visione è quella di un mondo in cui l'uomo possa viaggiare, lavorare, produrre cibo e costruire città con modalità e velocità mai raggiunte prima, e che il loro scopo sia quello di fornire alle persone e alla società energia a basso costo per contribuire a realizzare questa visione. Per oltre un secolo, hanno usato il petrolio a basso costo per farlo.

Ma poiché è sempre più evidente che le loro azioni contribuiscono alle malattie e alla morte causate dall'inquinamento e al riscaldamento globale (cioè danneggiano il Contesto), possono ora rivalutare le loro attività (cioè le operazioni all'interno del Sistema, non il Sistema stesso) per trovare un'altra energia a basso costo per realizzare la loro visione. Passare alle energie rinnovabili diventa un cambiamento radicale di strategia, per esempio, un cambiamento spettacolare di prodotto ma anche un ritorno alle radici dello scopo dell'organizzazione (l'etimologia di "radicale" è il latino per "radice").

Purtroppo, senza questa visione, ogni tentativo di passare dal petrolio alle rinnovabili viene vissuto come un tradimento, come un tentativo di uccidere l'attività originaria. Questa fantasia paranoica serve a rafforzare le difese e, paradossalmente, porta l'organizzazione a una morte più rapida: mentre ci dà un falso senso di tregua nel breve termine, la negazione finisce, nel lungo periodo, per non salvarci dalla morte che il vero problema (se non affrontato) inevitabilmente porterà. Rifiutare di esplorare il "perché" e rimanere concentrati sul "cosa e come" ha un prezzo elevato.

Un altro caso emblematico è quello dell'industria elettrica francese. Pur avendo iniziato con una definizione lasca del suo prodotto (l'elettricità), si è gradualmente evoluta verso un'azienda monoprodotto, con l'energia nucleare che rappresenta circa i tre quarti della sua produzione. All'epoca, questo ha permesso alla Francia di sviluppare un certo livello di indipendenza in termini di approvvigionamento energetico, in particolare al momento della crisi del petrolio negli anni '70 (un buon esempio di adattamento di un sistema alle minacce provenienti dal suo contesto).

La sua organizzazione interna, tuttavia, la sua cultura, le sue convinzioni, si sono impregnate del dogma dell'energia nucleare. E quello che una volta era un punto di forza, ora si sta trasformando in un'enorme passività, sia finanziaria che ambientale. Con la rivalutazione dei costi di manutenzione e smantellamento, sta diventando chiaro che l'azienda ha sottovalutato di molto i costi delle proprie attività.

Ma, prigioniera del suo stesso modello, sta ancora cercando, ad esempio, di sviluppare un impianto nucleare nel Regno Unito, nonostante l'evidenza che questo peggiorerà la sua situazione finanziaria. Un recente studio sponsorizzato dal governo suggerisce addirittura che la Francia dovrebbe continuare a costruire reattori nucleari al ritmo di sei per decennio6 se vuole conservare le proprie conoscenze e competenze in materia di tecnologia nucleare, anche se un numero crescente di analisti aziendali conferma che "il nucleare è morto".

E come se non bastasse, dopo il disastro nucleare di Fukushima, la sicurezza delle centrali nucleari europee è sottoposta a un maggiore controllo, che dimostra come gli impianti più vecchi siano più a rischio di rottura; secondo le parole di un esponente di spicco del settore, "l'Europa è ora più a rischio di un disastro nucleare".

Ma cosa si sta facendo per mitigare questi rischi finanziari e ambientali? Non molto. Poiché l'industria si è identificata eccessivamente con il nucleare come sua ragion d'essere (scambiando quindi i risultati con gli esiti) e ha organizzato un sistema rigido per cristallizzarlo, ora è intrappolata in una storia super-egoistica che non riesce a includere le prove del principio di realtà.

Nel suo articolo "Turning a blind eye" (Chiudere un occhio), lo psicoanalista John Steiner (1985) spiega come, nella tragedia Edipo di Sofocle, il coro, fin dall'inizio, dica la verità ai protagonisti e agli spettatori, ma è come se tutti scegliessero di chiudere un occhio, di fingere di non sapere. Lo stesso accecamento di Edipo alla fine della tragedia è un'interpretazione di questo processo di continuare a non voler affrontare la realtà che sappiamo di aver contribuito a co-creare.

Allora perché continuiamo a chiudere gli occhi? Qual è la funzione di questo comportamento disfunzionale? Indubbiamente deve aiutarci a proteggerci dall'ansia opprimente di aver creato una situazione che sappiamo ci porterà alla catastrofe, ma dalla quale non siamo sicuri di saper uscire. Ma forse, cosa ancora più importante, guardare a ciò che abbiamo contribuito a co-creare e riconoscere la nostra parte scatenerebbe in noi un grande senso di colpa e di vergogna, così forte da farci temere di non essere in grado di sopravvivere.

Tuttavia, come afferma Gordon Lawrence (2005) nel suo articolo "Stati mentali totalitari nelle istituzioni", "il paradosso è che questo tipo di difesa sociale contro l'ansia psicotica e, naturalmente, il pensiero, incoraggia le condizioni per lo scoppio della psicosi stessa che si teme".

La negazione, la scissione e la difesa hanno avuto un utile ruolo di sviluppo, ma ora sono una minaccia per la nostra stessa sopravvivenza, in quanto ci tengono bloccati nella creazione di un mondo che sappiamo, inconsciamente ma anche consciamente, non essere favorevole ad una maggiore vita.


Ownership sul nostro contributo: da un economia basata sulla negazione a un'economia rigenerativa

Ownership sul nostro contributo: da un economia basata sulla negazione a un'economia rigenerativa

Articolo pubblicato su "Organizational and Social Dynamics”

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In questo articolo esploriamo un nucleo di dinamiche organizzative e sociali all'opera nel mondo degli affari: la negazione e il disconoscimento del ruolo che svolgiamo nella co-creazione del mondo in cui viviamo e la scissione necessaria per proteggerci dal senso di colpa e dalla vergogna che il riconoscimento della nostra parte scatenerebbe.

Cominciamo con l'esplorare la scissione winnicottiana tra il "falso sé" e il "vero sé". Poi ci avventuriamo in nuovi territori, esplorando la negazione, il disconoscimento e la scissione che sono necessari nell'economia del "business as usual" per mantenere il business ed evitare di riconoscere il suo impatto degradante sulla società e sugli ecosistemi, creando, parafrasando Winnicott, una scissione tra un "mondo falso" e un "mondo vero".

Le organizzazioni tradizionali hanno tendenzialmente strutturato questa scissione in modo formale attraverso difese organizzative, ma ora rischiano di essere sommerse dalle loro parti scisse. Ci chiediamo quindi cosa si possa fare per iniziare ad affrontare il nostro impatto in modo veritiero e contribuire al passaggio da un'economia del degrado a un'economia rigenerativa. Viene esplorata l'importanza di contenere ed elaborare il senso di colpa e la vergogna che ciò potrebbe generare, nonché le nozioni di purpose e purposeful leadership.

 

Parole chiave: psicodinamica dei sistemi, sistemi sociali, cambiamento organizzativo, leadership, difese.

In un recente programma radiofonico, un importante ambientalista francese ha riassunto il problema: "Penso che sia meglio guidare la propria vecchia auto diesel per andare al lavoro se si lavora in un'azienda agricola biologica che sentirsi orgogliosi di andare al lavoro in bicicletta quando in realtà si lavora per Monsanto". Dicendo questo, ha messo in luce uno dei nostri angoli ciechi collettivi di vecchia data: noi co-creiamo il mondo in cui viviamo, non solo con le nostre azioni di cittadini e consumatori, ma anche (e forse soprattutto) con il nostro contributo all'impatto che l'organizzazione per cui lavoriamo ha, direttamente o indirettamente, sul mondo.

In altre parole, forse abbiamo trascorso troppi decenni a concentrarci sulle competenze professionali e sulle traiettorie di carriera (output), quando forse una domanda più fondamentale è stata lasciata fuori dal radar: quale mondo stiamo aiutando a co-creare, attraverso la nostra organizzazione (outcomes) e grazie alle competenze professionali e alla carriera che investiamo in essa?

In questo articolo esploreremo le dinamiche consapevoli e inconsapevoli in atto quando, attraverso i ruoli che assumiamo nelle organizzazioni, contribuiamo a plasmare il mondo in cui viviamo, e quali leve abbiamo per allineare queste azioni con le nostre intenzioni.

 

Far scoppiare la bolla

Michael è un uomo di quarant'anni, che ha studiato in una delle migliori scuole di economia francesi e si avviava a una promettente carriera. Per tutta l'infanzia gli è stato detto, come alla maggior parte di noi, quanto fossero importanti studi prestigiosi: una chiave per ottenere una carriera soddisfacente, per realizzare il proprio potenziale.

Dopo essersi diplomato in una prestigiosa scuola di business, Michael ha ricevuto diverse offerte di lavoro allettanti. Ha optato per una delle tre principali aziende farmaceutiche, e lo ha fatto per diversi motivi: prima di tutto, la missione generale dell'azienda ha catturato il suo spirito altruista; contribuire alla salute della popolazione mondiale e risolvere alcune delle più grandi sfide sanitarie era una sfida che valeva la pena intraprendere.

Le enormi risorse dell'azienda significavano inoltre che molto sarebbe stato possibile e che l'audacia e la creatività sarebbero state non solo incoraggiate, ma anche accolte con i mezzi appropriati per l'azione. Infine, entrare a far parte di un'azienda così grande e internazionale significava entrare in un campo in cui la sua carriera sarebbe potuta crescere e sbocciare.

Con il passare degli anni, Michael è stato naturalmente identificato come un "alto potenziale" dal dipartimento di gestione dei talenti dell'azienda e gli sono state offerte diverse opportunità di carriera, tra cui incarichi di leadership all'estero, dove ha potuto ogni volta confermare il suo potenziale per diventare, un giorno, uno dei primi cinquanta dirigenti dell'azienda.

Dodici anni dopo il suo ingresso in azienda, però, Michael decide di licenziarsi. Non per un concorrente, con uno stipendio più alto e prospettive di carriera ancora maggiori. Non perché ne avesse abbastanza del settore sanitario e volesse esplorare un altro settore. No, Michael si è dimesso e ha deciso di lanciare un'attività che, pur essendo nello stesso settore del suo precedente lavoro, era l'antitesi di ciò che faceva: ha lasciato una delle tre maggiori multinazionali farmaceutiche per lanciare un'attività di prodotti naturali per la salute.

La storia di Michael ne illustra molte altre simili all'inizio di questo ventunesimo secolo. Al centro di essa troviamo uno schema ricorrente, in cui brillanti laureati, carichi di potenziale, scelgono di abbandonare una carriera promettente non per un lavoro meglio retribuito o con maggiori prospettive, ma per qualcosa di completamente diverso. In altre parole, abbandonano non solo il loro lavoro, ma anche il paradigma stesso in cui la carriera è stata "venduta" loro, per trovare qualcosa che non può essere trovato in questo paradigma attuale e che può esistere solo in uno nuovo.

 

Sviluppo di carriera e scissione

Alla maggior parte di noi - e sicuramente a Michael - è stata posta per tutta l'infanzia l'eterna domanda: "Cosa vuoi fare da grande?". Indubbiamente, questa domanda doveva essere utile, per consentirci di elaborare una visione di come poteva essere la nostra vita da adulti, aiutandoci così a individuare il tipo di studi che avremmo dovuto intraprendere per realizzare questa visione.

Naturalmente, questa domanda di prospettiva fungeva anche da contenitore per l'ansia dei nostri genitori, rassicurandoli sul fatto che i loro figli avrebbero effettivamente "fatto qualcosa nella loro vita", ma dando loro anche l'opportunità di riformulare la visione per aiutare i loro figli a "puntare più in alto".

In questo contesto, negli ultimi decenni i bambini hanno pensato in termini di professioni e industrie: essere un medico, un'infermiera, un'insegnante, lavorare in banca, nella finanza, essere un consulente ..... Nel loro inconscio e in quello dei loro genitori (e della società in generale), quelle professioni e quei settori portavano con sé determinati valori e servivano come indicatori di successo, sia agli occhi di chi li circondava (fonti esterne di gratificazione) sia in termini di risultati economici.

Nel suo articolo "Les 'hauts potentiels’ et le 'faux-self'", Maryse Dubouloy (2006) spiega l'impatto che tale costruzione del proprio possibile futuro ha sull'individuo una volta che si confronta con la realtà dell'ambiente di lavoro. Ancorandosi al lavoro di Winnicott, l'autrice suggerisce che molto presto, per assicurarsi l'amore e la stima positiva dei genitori, i bambini sviluppano in modo eccessivo le capacità, gli atteggiamenti e i comportamenti che ritengono più apprezzati dai genitori, rischiando di lasciare sopite, o comunque poco sviluppate, altre parti di sé. In questo modo, sviluppano un "falso sé" che presentano al mondo e nascondono nel proprio inconscio (attraverso un processo di scissione) chi sono veramente, cioè il loro "vero sé".

Avendo lavorato con decine di manager ad alto potenziale, Dubouloy ha iniziato a identificare uno schema per cui, dopo studi brillanti ed eccellenti inizi di carriera, questi alti potenziali spesso attraversano una profonda crisi interiore quando si trovano di fronte a un evento fino ad allora insolito per loro: un grosso fallimento, come la perdita di un contratto, una mancata promozione o il licenziamento.

Per la prima volta, il loro io iperadattato non può più "salvarli", non può più fornire la gratificazione che hanno sempre cercato, lasciandoli con un enorme senso di vuoto e di inutilità. Inconsapevoli, inciampano nell'abisso tra il loro falso e vero sé, tra le false promesse di sicurezza narcisistica da un lato e le possibilità illimitate di essere chi sono veramente, che in questo preciso momento non si sentono affatto liberatorie, ma piuttosto oppressive e persecutorie.

La storia di Michael trova molti echi nell'opera di Dubouloy, ma offre una nuova dimensione e una nuova prospettiva di questo abisso. Le false promesse e lo sviluppo di un falso sé sono infatti presenti anche qui. Indubbiamente, Michael è stato bravo a scuola, ha lottato duramente per entrare in una delle migliori e più prestigiose scuole di business francesi e ha scelto una grande multinazionale di fama internazionale per lavorare, perché corrispondeva alle aspettative che la sua famiglia aveva su di lui e incarnava l'aspetto del successo nella società.

A livello inconscio, Michael ha probabilmente operato una scissione del suo sé in un vero e un falso sé, assicurandosi inconsciamente che il suo personaggio pubblico corrispondesse alle aspettative esterne (fornendogli così una gratificazione esterna) e sopprimendo il suo vero sé dall'esperienza cosciente. Le dimissioni di Michael, quindi, potrebbero essere legate al desiderio di far emergere il suo vero sé, anche se i dati non corrispondono del tutto a quelli che Dubouloy ha indicato come i consueti fattori scatenanti di una tale scossa interna: la decisione di Michael non è stata presa in seguito a una crisi indotta da un fallimento; non ha perso una promozione, né un contratto, né niente del genere. Potrebbe esserci qualcos'altro all'opera?

Esaminando nuovamente i dati, possiamo notare che la decisione di Michael è maturata quando ha iniziato a rendersi conto dell'impatto che l'industria farmaceutica aveva sul mondo, e quindi del proprio contributo a tale impatto. In qualità di direttore marketing, il suo compito era quello di garantire che un numero sempre maggiore di clienti acquistasse i farmaci dell'azienda. L'aumento delle vendite era quindi un indicatore chiave del successo.

Allo stesso tempo, però, la ricerca ha iniziato a dimostrare che l'uso crescente di antibiotici era in realtà una delle cause principali della resistenza dei microbi agli antibiotici. In un certo senso, più antibiotici si aiutavano a vendere, più microbi resistenti agli antibiotici si contribuiva a sviluppare. Un'altra intuizione arrivò quando, durante una conferenza per l'industria farmaceutica, scoprì che di tutti i farmaci prodotti da tutte le aziende farmaceutiche, probabilmente circa il 15% era più efficace dei placebo, mentre il restante 85%, ovviamente, produceva molti più effetti collaterali dei placebo.

Lentamente ma inesorabilmente, Michael si rese conto che il modello di business dell'industria farmaceutica richiede che le persone siano malate per poter funzionare; la dichiarazione di missione che lo aveva originariamente attratto nell'azienda (contribuire alla salute della popolazione mondiale) in realtà si basava sul suo lato ombra: richiedere che le persone fossero malate.

La promozione della salute non era quindi prevista, perché rischiava di far fallire l'azienda. Tanto che, in qualità di direttore marketing, una volta gli fu chiesto di contribuire a trovare un modo per vendere una molecola che il dipartimento di ricerca e sviluppo aveva scoperto, ma per la quale non era nota alcuna malattia. Finirono per trovare comportamenti non patologici ampiamente collegati che potevano essere confezionati come sindrome, per poterli poi inquadrare come malattia. Come dice lui stesso, "siamo entrati all'incontro con una molecola e ne siamo usciti con una malattia".

In altre parole, ciò che è emerso davvero per Michael dopo dodici anni di lavoro non è stata solo la scissione che ha dovuto operare per "avere successo" agli occhi degli altri e del suo falso sé, ma, forse ancora più in profondità, la scissione che ha dovuto fare dell'impatto che lui stesso aveva sul mondo attraverso la mobilitazione delle sue capacità e competenze al servizio della sua azienda.

Uso l'espressione "ancora più profondo" perché, per molti versi, la scissione dell'impatto che le nostre azioni professionali hanno sul mondo non è solo una dinamica intrapsichica; è anche, e forse prima di tutto, una dinamica sociale. È indotta dal paradigma stesso in cui la maggior parte di noi è invitata a immaginarsi professionalmente, quando ci viene chiesto "cosa vuoi fare/essere da grande?", piuttosto che "a cosa vuoi contribuire da grande?". Un paradigma che attribuisce un valore intrinseco alla progressione di carriera senza indagare (e tanto meno valutare) l'impatto che le crescenti responsabilità professionali finiscono per avere sul mondo. Forse spostare la cornice in questo modo potrebbe produrre grandi trasformazioni.


Pensare ed agire per sottrazione

E se sottrarre ci aiutasse ad essere in contatto con il purpose? Pensare ed agire per sottrazione - Seconda parte

La soluzione non è eliminare completamente l’aggiunta, non è nel pensiero binario e polarizzato…quello che possiamo fare è, ogni volta che riflettiamo ad un problema, ricordarci che c’è la possibilità anche di togliere. Non si tratta quindi di smettere di aggiungere, abbiamo visto come questo modo di pensare, di risolvere i problemi, di interpretare il mondo sia essenziale. Si tratta piuttosto, quando stiamo riflettendo, ad esempio, ad una soluzione possibile, di avere le due alternative ugualmente presenti, di darsi la possibilità di utilizzare anche la sottrazione. Quanto più siamo connessi al purpose quanto più questa alternativa prenderà tutto il suo senso.

Questa conferenza è un modo per aiutarvi ad essere più consapevoli, speriamo che a partire da ora qualcosa vi aiuti, quando state pensando in termini additivi, a togliere.

Vedremo nella prossima sessione i collegamenti tra la connessione profonda al purpose e la possibilità di togliere.

Sul purpose state lavorando da tanto tempo e ormai vi è noto che è la “ragione di esistere”dell’azienda, il suo perché,  lo scopo collettivo che vi tiene insieme, ma anche il collegamento tra il ruolo di ciascuna e ciascuno di voi ed il sistema. Provate ora a pensare al vostro ruolo non in termini di una serie di cose da fare ma di “perché esiste?” e “quale contributo dà al purpose aziendale”. È interessante pensare al proprio ruolo in questi termini, prima di tutto centrandosi sul “perché” e poi sul “come” ed il “cosa”, seguendo il modello del Golden Circle di Simon Sinek e una volta chiarito questo, legandoci alla “sottrazione” chiederci se il come ed il cosa rispondono solo ad una logica aggiuntiva, che rischia di allontanarci invece che aiutarci a focalizzare l’essenziale. So che molte persona magari ora stanno pensando “ok bene, facile a dirsi ma come si fa a farlo?”…vi propongo quindi di aprire alcune piste su come mettere tutto ciò in pratica nella vita aziendale ma anche nella vita privata, partendo da alcuni assi di riflessione.

  1. I meeting. Ci sono alcune trappole che possono spingerci a moltiplicare i meeting. Tra queste: pensare che le riunioni operative servano come leve motivazionali, quando le équipes sono in una fase di perdita di senso (il meeting che serve, in questi casi, è proprio sul “perché”, eventualmente, sicuramente non sul “cosa” né sul “come”) o ancora peggio, per testare il commitment del gruppo. Oppure i meeting usati in modo autoreferenziale, per colmare la solitudine…penso a quante volte ultimamente mi è capitato di sentire “il personale deve ritornare in ufficio” senza una ragione particolare ma solo perché le gerarchie non si sentano troppo sole 😉e a questo proposito sono molto nell’”air du temps” i meeting convocati per ovviare alla cosiddetta “amnesia da video call” che ci colpisce quando ci illudiamo delle nostre capacità multitasking per poi renderci conto che se durante la video call abbiamo fatto altro poi non sappiamo bene cosa è stato deciso e perché…C’è un acronimo che rende bene un’altra dinamica contemporanea che è FOMO, Fear Of Missing Out, la paura di essere dimenticati e dimenticate se non partecipiamo e presenziamo a tutto quello che succede, che ci puo’ spingere ad addizionare meeting, eventi, colazioni di lavoro etc. Infine, ancora un bias, quello del conformismo sociale che ci può spingere a partecipare solo perché gli altri ci vanno…Sulla decisione di sottrarre o addizionare meeting, oltre a mettere in evidenza il valore aggiunto sul purpose, c’è un semplice strumento che ci può aiutare a restare ancorati ed ancorate alla realtà, lo strumento che vi invito a scoprire “Quanto costa il mio meeting?” andando a questo link https://hbr.org/2016/01/estimate-the-cost-of-a-meeting-with-this-calculator e che ci può aiutare a decidere
  2. Sulle decisioni di sottrazione o addizione nelle “to do list”, l’idea, che non è nuova, è quella di gestire meglio il proprio tempo. Per coloro che hanno bisogno di idee e strumenti sofisticati consiglio la lettura del famoso “Getting the Things Done”, altrimenti c’è questa semplice matrice che ci puo’ aiutare ad eliminare qualcosa…non è nuovissima, è un po’ vintage anzi, ma usata bene puo’ essere l’inizio per liberare spazi:

Attenzione! Una volta liberato il 20/30% delle vostre giornate a non riempirlo di nuovo!!

  1. Un ruolo nuovo nei gruppi di progetto, il/la responsabile della sottrazione. Perché non esplicitare la sottrazione, renderla incarnata, per aiutarsi reciprocamente a ricordarsene, uscendo dalla routine additiva? Nei gruppi di progetto si puo’ quindi Identificare il ruolo di “subtractor in chef” che avrà, tra i suoi obiettivi, quello di ricordare l’importanza di sottrarre ai membri del gruppo, chiedersi cosa sottrarre per raggiungere meglio gli obiettivi, un ruolo creativo e sfidante che potrà evitare al gruppo di progetto di impantanarsi in una marea di attività che non servono il purpose.
  2. Altri ambiti di sottrazione lavorativa: sottrarre priorità (no, non è tutto prioritario!), sottrarre le persone in copia di una mail, sottrarre le mail inviate, sottrarre i punti chiave e le slides da una presentazione, sottrarre il numero degli obiettivi, lasciare solo quello che genera veramente valore sul purpose, la metodologia OKR offre spunti interessanti…
  3. Qualche idea di sottrazione anche al di fuori del lavoro… Sottrarre cose portate in viaggio (con la crisi degli aeroporti in questo modo si porterà solo il bagaglio a mano e leggero!!), sottrarre viaggi come siamo stati obbligati ad imparare a fare in questi due anni, svuotare i nostri social dalle relazioni che fanno “rumore”, sottrarre le cose che abbiamo in casa…Marie Kondo insegna come svuotare gli armadi, sottrare spazio dai nostri luoghi di abitazione: più la casa è grande più tenderemo a riempirla, sottrarre i consumi inutili e mai come in questo momento l’attenzione alla sottrazione dei consumi energetici è allineata con le condizioni di contesto…oltre a liberarci individualmente, potremo dare un contributo collettivo alla rigenerazione del pianeta.

Ci avviamo verso la conclusione di questo momento insieme…riassumendo in pochi punti:

  1. Non si tratta non usare più l’addizione ma di avere presente anche la possibilità di sottrarre
  2. Essere connessi e connesse al purpose profondamente ci aiuta a fare delle scelte in un verso o nell’altro
  3. Ma il nostro cervello non ci aiuta…è cablato per aggiungere; quindi, occorre avere dei trucchi che ci aiutano a sottrarre
  4. Vi viene in mente qualcosa che avete voglia di sottrarre? Cosa potete fare come piccolo passo in questo senso ?

Grazie della vostra attenzione!!


Purpose

E se sottrarre ci aiutasse ad essere in contatto con il "purpose"? - Prima parte

Il post che segue è l’estratto di un intervento che Nexus ha realizzato durante una delle due conferenze, tenute presso una grande multinazionale, nella giornata che annualmente viene dedicata ad una riflessione collettiva sul purpose. Verrà pubblicato in due parti, una parte introduttiva e una parte dedicata alla riflessione pratica.  

Qualche tempo fa in Nexus ci è capitato di leggere il libro Subtract, scritto da un ricercatore americano, Leidy Klotz e frutto di una serie di osservazioni e ricerche; il libro ha generato in noi molte riflessioni, è come se ci fosse stato un prima e un dopo, e queste riflessioni sono diventate trasformazioni sia nel nostro lavoro che nelle nostre vite personali.

Ve ne parliamo legandole al tema del purpose perché, come vedremo, abbiamo trovato l’idea di sottrarre particolarmente adatta a celebrare questa giornata ed a proseguire nelle riflessioni che avevamo iniziato l’anno scorso intorno a “purpose e rigenerazione” e “purpose e felicità”.

Per riscaldarci vi propongo un piccolo esercizio…provate a pensare al miglioramento di un viaggio, visto che siamo in periodo pre-vacanze pensate al vostro prossimo viaggio e a come potreste migliorarlo…se non dovete viaggiare pensate a come migliorereste la vostra casa e scriveteci i risultati in chat…alcuni hanno detto che vorrebbero una casa più grande, una piscina, un viaggio con più tempo, più tappe…altri invece, e sono più o meno la metà hanno ragionato diversamente, hanno detto “vorrei una casa con meno cose” o “vorrei liberarmi di tanti oggetti”…forse il titolo della conferenza vi ha un po’ influenzati, ma questo è un bene perché, come vedremo, visto che l’idea di sottrarre non è intuitiva, è bene che ci sia qualcosa, come un titolo, che quando prendiamo una decisione ci aiuta a ricordarcene.

Vi faccio ora vedere questa figura e vi chiedo come, con il numero minimo di mosse, renderla simmetrica:

Anche qui vedo che ormai siete attenti e nel risolvere molti e molte si sono dati la possibilità di pensare di sottrarre il quadratino in alto, piuttosto che aggiungere quadratini. Forse vi sorprenderà sapere che degli adulti che sono stati coinvolti nello stesso gioco, solo una piccola parte, il 12% ha invece trovato la soluzione “per sottrazione”. Gli altri hanno pensato soluzioni additive quali ad esempio questa:

Questo gioco fa parte di una serie di attività che sono state utilizzate per sperimentare l’intuizione iniziale cioè la preferenza sistematica per l’addizione, l’automatismo che ci spinge a pensare che la soluzione di un problema stia nell’aggiunta.

In questa conferenza esploreremo insieme tre punti:

  1. Perché continuiamo ad aggiungere?
  2. Cosa c’entra il purpose con la sottrazione?
  3. Come fare concretamente a sottrarre?

Racconta Leidy Klotz, il ricercatore e professore della Virginia University che ha divulgato l’importanza del concetto di “sottrazione” attraverso il suo libro “Subtract”, che un giorno stava giocando con i mattoncini Lego insieme a suo figlio Ezra e che, posto di fronte al problema di “come migliorare una costruzione” il bimbo ha cominciato spontaneamente a togliere mattoncini, mentre per lui, il padre, la risposta naturale era piuttosto di aggiungere pezzetti di Lego. Dalla sorpresa, provata dal ricercatore in questa situazione,  è nata l’intuizione che poi ha dato vita a numerose ricerche, ripetizioni dell’esperimento, consolidamento della teoria.

Ma da dove viene, perché questa coazione ad aggiungere? Perché per dimostrare di essere competenti aggiungiamo? Perché continuiamo a produrre delle check list infinite per il gusto di spuntarle e produrne delle nuove ? Perché continuiamo ad aggiungere amici sui social network? Perché la sottrazione non viene presa in considerazione?

Ci sono diverse spiegazioni che i ricercatori hanno ipotizzato, in parte biologiche ed in parte culturali, ne vediamo insieme alcune. Una ipotesi è che la coazione ad aggiungere sia collegata ad altri bias, routine di ragionamento fisse e spesso inconsapevoli, del nostro cervello. Ad esempio, i sunk cost, cioè il bias che fa sì che una volta che abbiamo investito è difficile disinvestire perché si percepiscono le perdite e non i possibili guadagni (quel bias per il quale una volta pagato il biglietto del cinema restiamo anche se il film non ci piace, per dirla in termini semplici).

Più in generale l’avversione per le perdite potrebbe essere un’altra spiegazione, insieme al privilegiare lo status quo piuttosto che l’incertezza dovuta al cambiamento. Un’altra spiegazione, molto affascinante, potrebbe venire da lontano, dall’evoluzione della specie umana da nomade a stanziale e, con la conquista della stanzialità e dell’agricoltura, dalla possibilità acquisita/bisogno di cominciare ad accumulare oggetti, cibo etc. nelle abitazioni diventate fisse e nelle agglomerazioni urbane. Ed in questa evoluzione la ricerca e l’accumulazione di cibo diventa cruciale per la sopravvivenza e continua a guidarci malgrado le condizioni moderne di relativa abbondanza.

Non va dimenticato però che l’evoluzione è un bilanciamento tra aggiungere e sottrarre, pensate ad esempio alla capacità di lavorare il legno; ma anche ad fenomeno molto interessante che avviene nel nostro cervello, che potremmo familiarmente chiamare “potatura delle sinapsi” che ci permette di rigenerare il nostro cervello durante il riposo notturno, eliminando ciò che non viene utilizzato per non sprecare energia nel suo mantenimento. E la natura ci insegna la stessa cosa. In un ecosistema sano la natura seleziona e favorisce la vita da un lato (quindi aggiunge) e nello stesso tempo favorisce la morte, aiutando a morire ciò che non serve più. È il processo che si chiama rigenerazione del quale abbiamo parlato lo scorso anno in relazione al purpose aziendale.

Quindi forse possiamo riconnetterci con la sottrazione, ma dobbiamo fare un piccolo sforzo.

La coazione ad aggiungere può infatti costarci molto cara: aggiungere lavoro in continuazione, aggiungere riunioni su riunioni ad un progetto, aggiungere attività alla “to do list”, aggiungere oggetti in casa, cibo, sigarette, impegni sociali, amici sui social network…I costi che genera l’abitudine ad aggiungere sono altissimi.

A livello individuale lo stress, la sensazione di non avere mai finito, di essere fuori controllo, il “carico mentale” che ci fa svegliare di notte perché ci ricordiamo di qualcosa che non abbiamo fatto, l’ingombro delle nostre case da parte di oggetti inutili…e a livello collettivo i consumi eccessivi che stanno rendendo il nostro pianeta inabitabile.


Cosa significa veramente essere "Purpose-led"

Negli ultimi anni - e dovremmo esserne tutti grati! - c'è stata un'enfasi sempre più forte sul diventare un'organizzazione Purpose-led (guidata dal purpose/dallo scopo) e sul fatto che i leader di queste organizzazioni guidino a partire dal purpose.

 

Purpose: la nuova chiave per sbloccare la performance organizzativa?

 

La logica è semplice: se il purpose organizzativo è chiaro, il processo decisionale diventerà più facile (non necessariamente facile, ma almeno più facile!), perché non ci saranno equivoci su ciò che dovrebbe orientare le persone; non appena avranno integrato il purpose, lo staff saprà cosa fare senza che voi dobbiate dirglielo, portando a cicli virtuosi che aumenteranno il significato sul lavoro, a maggiore autonomia, benessere, meno burocrazia, più efficienza, ecc. I vostri clienti saranno più propensi a scegliervi, e più fedeli nel rimanere con voi; e i vostri azionisti potrebbero anche ricollocare le loro decisioni in un paradigma di "creazione di valore condiviso" (vedi il lavoro di Michael Porter), piuttosto che nella visione ristretta del solo paradigma del "valore per gli azionisti".

In altre parole, guidare con Purpose non può che essere vantaggioso per tutti...o no?

 

Beh, non è così semplice... Come sempre, la coerenza tra la teoria e la pratica è la sfida fondamentale, tanto più che non sempre siamo consapevoli di quanto cio' che facciamo si discosti da cio' che diciamo. Vi proponiamo un modo per rifletterci.

 

Più di 70 anni fa (sì, questo tema del Purpose non è nuovo!), il Tavistock Institute stava già esplorando questi temi, chiamando il purpose, all'epoca "Compito primario". Un po' più tardi, il Grubb Institute, che ha lavorato a stretto contatto con il Tavistock, ha introdotto il concetto di Purpose, visto come "l'impatto che un'organizzazione intende avere sul suo Contesto; la ragione primaria per cui un'organizzazione esiste".

 

Tre livelli di Purpose

 

Gordon Lawrence, che ha lavorato per entrambi gli istituti ed era una figura di spicco in quel campo all'epoca, suggerì, a metà degli anni 70, che c'erano in effetti 3 livelli di Scopo. Poiché le sue parole erano un po' "gergali", nella figura che segue trovate un adattamento:

Il Purpose Formale è quello che veniva chiamato, fino a 5 anni fa, il "Mission Statement" dell'organizzazione, e che ora è stato spesso ribattezzato come "dichiarazione di Purpose". Come indica il suo nome, è l'espressione formale di ciò che l'organizzazione vede come la sua principale finalità - la descrizione formale dell'impatto che vuole creare nel mondo.

 

Prendiamo ad esempio Renault, una delle principali case automobilistiche francesi; il loro sito web descrive il loro scopo in questo modo: "Facciamo battere il cuore dell'innovazione in modo che la mobilità ci porti più vicini". Oltre a "cuore" e "più vicini" - probabilmente qui per accedere al nostro campo emotivo - le parole chiave in questa dichiarazione sono "innovazione" e "mobilità". In poche parole, lo scopo di Renault è di innovare nel campo della mobilità.

 

Se chiedete al loro personale, o ai loro clienti, probabilmente vi racconteranno una storia diversa. Per loro, Renault è un produttore di automobili. Dal punto di vista del personale, il Purpose Informale di Renault (la storia che ci raccontiamo nei corridoi, o nelle riunioni a porte chiuse) è quello di fare molte auto che molti clienti compreranno, in molti paesi diversi. La prospettiva di un cliente su questo Purpose Informale è probabilmente una variazione su questa descrizione, qualcosa come: Renault fa auto innovative / affidabili / belle con un buon rapporto qualità/costo.

 

C'è ancora un altro livello di scopo; è meno visibile, ma comunque molto al centro dell'attività di qualsiasi organizzazione. Lo chiamiamo Purpose Attuato, e con questo intendiamo l'impatto che l'organizzazione sta effettivamente avendo sul suo contesto, che ne sia consapevole o meno. È dedotto dalla valutazione di quegli impatti - compresi quelli che non sono sempre inclusi nella valutazione d'impatto tradizionale, e che tendono ad essere chiamati "esternalità", o "impatti collaterali".

 

Una visione delle attività di Renault potrebbe portarci a suggerire che il suo scopo dichiarato potrebbe essere quello di contribuire al cambiamento climatico, creando macchine che rilasciano CO² nell'atmosfera. Naturalmente non è la finalità prevista, ma il loro impatto sul mondo è tale che un occhio esterno potrebbe identificarlo come il Purpose Attuato.

Guidare con Purpose

Renault è chiara sul posto che occupa il suo Purpose nella strategia e nelle operazioni dell'azienda: "Il nostro Purpose è il fondamento di tutto: i nostri valori, il nostro piano strategico, i nostri orientamenti in termini di responsabilità sociale e ambientale" (sito Renault.com del 22/02/2022).

 

Tuttavia, in un'organizzazione guidata dal Purpose, la sfida per la leadership è di assicurarsi che tutti e tre i livelli del Purpose siano allineati il più possibile, o almeno che tutte le azioni siano mirate ad allinearli - come illustra la figura qui sotto:

Per fare questo, i leader dovranno intraprendere una valutazione onesta di dove si posiziona la loro organizzazione su questi tre livelli, e intraprendere le azioni correttive per ridurre il divario tra loro.

Potrebbero anche aver bisogno di rivedere la stessa dichiarazione di Purpose che hanno formalmente adottato. Per Renault, potrebbe essere qualcosa come "Facciamo battere il cuore dell'innovazione in modo che la mobilità ecologica ci avvicini gli uni agli altri".

 

È curioso come 2 parole possano fare una tale differenza! Inserendo una connessione con il proprio impatto sugli ecosistemi mondiali, Renault farebbe molta strada nel creare le condizioni per trasformare il suo Purpose Dichiarato, stabilendo di far leva sull'innovazione non solo al servizio dalla mobilità in sé, ma di una mobilità rispettosa dell'ambiente. Questo aprirebbe enormi vie di trasformazione, non solo in termini di prodotti (passando alle auto elettriche per esempio), ma anche di modelli di business (vedi l'azienda di tappeti Interface passata dalla vendita al leasing per esempio, dove la proprietà del prodotto rimane al produttore, che è molto più incline a garantire una vita molto più lunga ai suoi prodotti).

 

Leadership con Purpose 21° secolo

 

Come abbiamo appena visto, guidare con Purpose è un'arma a doppio taglio: mentre può essere allettante attirare la lealtà dei collaboratori e dei clienti con uno scopo formale che ispira, a lungo termine funzionerà solo se i leader assicurano di sforzarsi di allineare il Purpose Formale, Informale, Attuato.

Questo potrebbe essere un ostacolo per le organizzazioni che si domandano se vogliono diventare organizzazioni orientate al Purpose? Speriamo di no; perché nel 21° secolo, non abbiamo altra scelta che trasformare le nostre organizzazioni in modo che il loro impatto passi dall'essere degenerativo all'essere rigenerativo. E impegnare la propria organizzazione a definire il suo Purpose potrebbe essere un modo talmente energizzante e fruttuoso di farlo!