Negoziazione di successo: al di là dell’idea di allargare la torta, la rigenerazione
Qualche settimana fa, ho trascorso una giornata molto piacevole e interessante in compagnia di un gruppo di studenti di relazioni internazionali della John Hopkins University, guidandoli alla scoperta del tema della negoziazione. L'introduzione all'argomento è avvenuta attraverso un gioco basato sul famoso "dilemma del prigioniero": come spesso accade, molte persone lo conoscono da un punto di vista teorico, ad esempio perché lo hanno incontrato durante i loro studi di economia o di scienza delle finanze, ma nella pratica questa conoscenza razionale è come se fosse diventata inaccessibile, come vi racconterò nel blogpost.
Il dilemma del prigioniero è un problema classico della teoria dei giochi ed esplora il processo decisionale razionale quando, tra due o più individui o gruppi, esiste una possibile negoziazione aperta. Per chi non lo conoscesse, si inizia immaginando che ci siano due criminali arrestati e detenuti in due celle separate, senza possibilità di comunicare tra loro. Chi li interroga propone a ciascun detenuto separatamente un patteggiamento: se uno confessa e l'altro no, il primo ottiene una pena ridotta, il secondo una pena più severa; se entrambi confessano, ottengono una pena moderata, se negano entrambi il massimo della pena. Il dilemma sta nel fatto che le scelte sono collegate e che se uno dei due confessa, l'altro rischia una pena più severa.
Uno dei giochi creati per sperimentare in prima persona il dilemma del prigioniero prevede la formazione di due gruppi e un meccanismo di conteggio dei punti illustrato nel riquadro. Il gioco viene poi ripetuto un certo numero di volte, per dare ai giocatori l'opportunità di sperimentare le conseguenze della loro strategia ed eventualmente giocare in modo diverso. Giocare e poi confrontarsi con la teoria sottostante è divertente e genera un apprendimento profondo: la forte esperienza emotiva che il gioco consente aiuta a fissare gli elementi teorici. La prima volta che mi è capitato di giocarci ero ancora all'università e, pur avendo una buona conoscenza della teoria dei giochi, sono caduta proprio nella trappola del “fixed pie mindset", insieme alla mia squadra: un'esperienza che non ho mai dimenticato.
Il “Fixed Pie Mindset" si ripete ancora, piuttosto puntualmente, con gli studenti o nelle aule di formazione a cui propongo l'esercizio. Esso consiste nell'incapacità di "allargare la torta", esplorando tutti i possibili fattori e strategie negoziali, trattando la controparte come un nemico da battere.
Razionalmente, i giocatori sanno come dovrebbero comportarsi, spesso conoscono, da un punto di vista teorico, le diverse possibili strategie di gioco, ma quando sono coinvolti nell'esperienza concreta, qualcosa di molto viscerale sembra guidare le scelte. Nel gioco, esattamente come nella formulazione dei due prigionieri, c'è una situazione iniziale di isolamento e di impossibilità di scambio di informazioni tra le due o più parti coinvolte che lavorano in stanze separate. Ogni gruppo, all'inizio, ha dieci minuti per decidere la propria strategia di gioco.
È in questo momento che iniziano le fantasie sulle intenzioni dell'altro gruppo e spesso nel gruppo nasce la certezza che, poiché gli altri hanno cattive intenzioni, bisogna difendersi. Da questo momento in poi, la strategia win-win è completamente nascosta.
Alcune osservazioni durante questa fase in cui i gruppi affrontano l'incertezza e lo stress dovuti alla pressione del tempo e alla situazione sconosciuta:
- Spesso i gruppi discutono partendo da una rappresentazione del sistema che non tiene conto degli altri, di come si costruiscono i punteggi, del fatto che la possibilità di ottenere punti positivi per il proprio gruppo è legata a come giocherà l'altro gruppo: la difficoltà di affrontare la complessità nella descrizione del sistema, di includere l'altro nella propria strategia, crea un'illusione di semplicità e linearità del gioco. Questa percezione semplificata impedisce poi di vedere, nella pratica, che esiste una strategia collaborativa che permette di raggiungere un risultato non ottimale certo - il miglior risultato possibile per un gruppo è quando, sistematicamente, si riesce a far giocare l'altro gruppo in modo "autolesionista", ma questo, a parte i casi patologici, non è realistico - che è quella che permette a entrambi i gruppi di non terminare la partita con un punteggio negativo. Paradossalmente, questa strategia, lose-lose, non è razionalmente preferita, ma di fatto finisce per essere scelta.
- Quando i gruppi discutono sul significato di "vincere", viene evocato il "fare più punti degli altri": si tratta di un fenomeno percettivo su cui torneremo più avanti nell'articolo.
- È difficile percepire che, essendo ridotta la comunicazione orale, il sistema di comunicazione nelle prime fasi del gioco consiste nelle mosse di gioco e che, in particolare, la prima mossa di gioco comunicherà chiaramente le intenzioni dei giocatori: la riduzione della possibilità di comunicare genera sfiducia, questa genera prime mosse di gioco generalmente ostili, e la diffidenza iniziale diventa una spirale dalla quale è poi difficile uscire.
- A volte uno dei gruppi si rende conto della corsa alla rovina quando si gioca con la strategia solo competitiva e cerca di cambiare il gioco, ma spesso è troppo tardi e il clima di sfiducia reciproca è ormai consolidato.
Ci sono due condizioni importanti che fanno sì che la torta venga percepita come fissa: la prima riguarda le aspettative, e in particolare la semplificazione della realtà che consiste nel descrivere il sistema come "win-lose". Perché questo accade? Le spiegazioni possono risalire alla nostra storia evolutiva, in particolare alle abitudini legate alla sopravvivenza e alla lotta per l'appropriazione delle risorse. Abitudini che vengono poi rafforzate culturalmente, ad esempio nelle organizzazioni, dalle metafore utilizzate, sulla leadership o sulle dinamiche di gruppo. L'uso massiccio, ad esempio, di metafore sportive favorisce l'attivazione di rappresentazioni "win-lose".
La seconda condizione, legata alla prima, riguarda la trasparenza delle informazioni. Numerose ricerche mostrano infatti come, nonostante sia ormai noto che uno scambio chiaro e onesto di informazioni sulle preferenze e sui fattori negoziali tra le diverse parti possa aprire a risultati più efficienti nelle trattative, l'interpretazione del setting come esclusivamente competitivo porti all'opacità informativa, generando vere e proprie commedie degli errori con risultati insoddisfacenti per tutti.
Questo è ciò che è successo in classe con i miei studenti. Quando ha cominciato a circolare l'idea di "fare più punti degli altri", l'altro gruppo è passato ad essere considerato da un gruppo di simpatici compagni e amici, con i quali si rimarrà in relazione per almeno un altro anno, al "nemico da battere". Nei momenti in cui ai due gruppi è stato permesso di dialogare, gli ambasciatori inviati non hanno esitato a mentire. Le aspettative di competizione hanno generato comportamenti competitivi e sleali, the winner takes it all, la torta è una sola e si cerca di accaparrarsene la fetta più grande possibile.
Questo modo di percepire la negoziazione è detto "distributivo" (la ricchezza può essere distribuita solo più o meno equamente tra le due parti e l'obiettivo diventa quello di appropriarsene il più possibile). Il gioco si è concluso con l'insoddisfazione di entrambe le squadre che si sono rese conto dei punti negativi accumulati. Le emozioni verbalizzate sono state di frustrazione, rabbia, rammarico per le decisioni prese, risentimento per l’altra squadra.
Esiste un'alternativa al "Fixed Pie Mindset" ed alla negoziazione distributiva: si tratta del modello "integrativo", che parte da aspettative aperte alla possibilità di cooperazione anche in un contesto competitivo, portando a una maggiore trasparenza nello scambio di informazioni e quindi alla possibilità che emergano interessi diversi e/o comuni, ampliando l'area di possibile accordo delle parti. Ma questo tipo di negoziazione, che è quella promossa tra gli altri dal modello dei ricercatori di Harvard, Ficher e Ury, e divulgata nel famoso testo "Getting to Yes", si verifica solo nel 40% dei casi, secondo una meta-analisi condotta da un altro gruppo di ricercatori.
Questo 40% è particolarmente preoccupante se pensiamo a negoziati importanti, come quelli di pace - e ciò che sta accadendo proprio ora nei negoziati di pace in Ucraina dovrebbe farci riflettere - e a un altro tipo di negoziato cruciale per il nostro futuro, i negoziati sul clima.
A questi, John Bazerman dell'Università di Harvard e Don Moore dell'Università di Berkeley hanno dedicato un interessante articolo in cui analizzano le cause del fallimento di molti processi negoziali legati al clima. Il “Fixed Pie Mindset”, con risultati perdenti per tutti, è dovuto, come descritto nell'articolo "The Human Mind as a Bareer to Wiser Environmental Agreements", a una serie di fattori, alcuni generalizzabili a tutti i negoziati, come il modello competitivo semplificatore della complessità, applicato indiscriminatamente, come abbiamo illustrato in precedenza e, ancora, altri bias cognitivi, in particolare il bias dell'incompatibilità degli interessi, il bias della disponibilità di informazioni, il bias dell'ancoraggio, l'effetto memoria e, ancora, “l'effetto dotazione” - che spinge ad attribuire un valore maggiore a ciò che si possiede, e quindi a fare meno concessioni.
Infine, gli autori parlano di "pseudo-sacralità", ovvero del fatto che il valore formatosi sul mercato non viene riconosciuto come rientrante nell'area di possibile accordo, perché il valore emotivo attribuito all'oggetto è molto diverso. Gli autori citano un esempio di questo fenomeno, verificatosi durante una negoziazione tra un'organizzazione che promuove l'ecoturismo, che evidenziava l’incapacità degli indigeni di prendersi cura della loro terra (secondo il loro punto di vista), e il gruppo messicano Lacandon Maya.
Il valore attribuito alla terra e agli alberi dagli indigeni era molto alto: essi ritenevano che, per ogni albero abbattuto, ci sarebbe stata una stella sottratta al cielo e quindi che la foresta dovesse essere assolutamente preservata. Un valore non misurabile e trascendente. Eppure questo gruppo ha raggiunto un accordo negoziato che ha permesso una parziale deforestazione a favore dello sviluppo di un turismo eco-responsabile. "Quando è stato chiesto loro (agli indigeni) come potessero accettare di far tagliare gli alberi, la risposta è stata che l'accordo era l'alternativa migliore per mantenere il maggior numero possibile di stelle nel cielo".
Certamente, l'esempio è adatto a illustrare il passaggio dalla contrattazione distributiva a quella integrativa e, di conseguenza, il superamento del “Fixed Pie Mindset”. Andando oltre, però, potremmo fare alcune ipotesi sul modello profondo e sistemico che guida questo accordo. Pur con tutte le buone intenzioni (ecoturismo, rispetto della terra, rigenerazione della foresta, ecc.) in questo esempio c'è l'idea di un sistema capitalistico paternalistico che "salva" dalla possibile autodistruzione – le popolazioni indigene sono accusate di non gestire la terra secondo criteri "eco-responsabili" decisi dagli acquirenti, in particolare per quanto riguarda la pesca e la caccia.
Ma in un'interessante analisi del caso, a cura dell'antropologa Valentine Lousseau, (seguite il link per maggiori informazioni https://journals.openedition.org/elohi/455?lang=en#tocto1n1) si precisa che "l'uso che viene fatto dell'area di Lacandon ha sempre suscitato l'interesse, se non la meraviglia, degli osservatori stranieri. Etnologi, biologi ed ecologisti hanno lodato l'efficienza di un sistema di produzione e di estrazione delle risorse che risulta perfettamente adattato all'ecosistema della foresta tropicale".
In questo esempio, come in molti negoziati sul clima e sullo sfruttamento, l'esproprio e la spoliazione della terra, c'è un sistema di riferimento, un “assunto di base”, il mercato, che non viene mai messo in discussione e che guida l'analisi (anche dei ricercatori di Harvard) e la decisione finale, compreso l'allargamento della torta. Abbiamo visto, però, come questo modello contenga in sé una grande ombra, una distorsione interpretativa che costringe gli attori dentro un sistema competitivo, che nei negoziati sul clima porta ai risultati che stiamo vivendo, uno dei quali è il mancato accordo sui limiti delle emissioni di CO2 che portano al disastroso effetto serra, che renderà questo pianeta inabitabile molto prima di quanto fosse prevedibile. La metafora della torta porta in sé qualcosa di profondamente legato ad un paradigma di mercato e consumeristico. La torta, sia essa fissa o variabile, fa comunque riferimento al consumo, al momento nel quale essa sarà mangiata e non esisterà più.
Una alternativa è forse in un pensiero diverso, che non è più quello di come allargare la torta all'interno dello stesso sistema di regole e modi di leggere e operare, che ci riportano agli stessi errori e routine di comportamento. Potremmo chiederci se il "fixed pie mindset" invece come ripensare, ad un livello più profondo, gli assunti di base dai quali si parte. Una torta che non è più, quindi, "dentro" il sistema, ma il sistema stesso e la sua indiscutibilità. Il paradigma della rigenerazione (del quale potete leggere i principi sul blog), legato al funzionamento ecosistemico e naturalmente complesso, ci porterebbe ad esempio a chiederci: piuttosto che ingrandire una torta che sarà comunque mangiata, quali sono le scelte portano a rigenerare la vita piuttosto che consumarla, in un sistema in cui noi, le altre parti, l’ambiente siamo costantemente in relazione?
E voi, cari lettori del nostro blog, cosa ne pensate?
"Perché?" La transizione ecologica alla ricerca di un senso
"Dio è morto, Marx è morto e neanche io mi sento molto bene", diceva Woody Allen. Oggi, è quello che comunemente chiamiamo 'il pianeta' a non stare molto bene: alterazione del clima, aumento delle temperature e dei livelli delle acque, crollo della biodiversità, aumento delle malattie zoonotiche, di cui il Covid-19 è l'incarnazione devastante.
Entro il 2050, il pianeta Terra potrebbe essere invivibile per gran parte della popolazione mondiale, che sarebbe costretta a migrare verso Paesi le cui economie, se continuassero la loro traiettoria attuale, avrebbero poche possibilità di assorbire un tale shock migratorio.
Tanto più che la capacità stessa della Terra di continuare a nutrirci viene messa in discussione, non solo da illuminati catastrofisti con visioni apocalittiche, ma anche da scienziati rinomati, tra cui Dennis Meadows, autore del famoso 'Rapporto del Club di Roma' che, all'inizio degli anni '70, aveva già modellizzato lo sconvolgimento della biosfera che stiamo vivendo oggi.
Questo futuro non è scritto. Si verificherà solo se non agiamo, se continuiamo a fare 'business as usual'. Le soluzioni per realizzare un futuro diverso sono note: si possono riassumere in quella che la maggior parte delle persone chiama 'transizione ecologica', o in ciò che alcuni pionieri hanno già avviato: l'economia rigenerativa, ossia attività economiche che producono valore rigenerando gli ecosistemi da cui dipende la vita sulla Terra - la nostra vita.
Eppure, siamo costretti ad ammettere che non siamo in grado, collettivamente, di compiere questo passo, che è comunque benefico. Perché succede?
Il primo livello di spiegazione risiede nel nostro stesso modello economico. Sarebbe troppo difficile trasformarlo, o addirittura uscirne, perché siamo diventati così 'dipendenti' dalla crescita che una transizione ecologica rischierebbe di farci precipitare in una grande depressione economica. Queste argomentazioni sono ormai superate, non solo grazie agli studi scientifici e alla modellizzazione finanziaria degli ultimi dieci anni, ma soprattutto grazie alla rivoluzione del dogma che la crisi del Covid ha innescato: se la posta in gioco ne valesse davvero la pena, potremmo farlo, "costi quel che costi".
Da qui l'importanza di esplorare un secondo livello di spiegazione: il nostro rapporto con la Natura, o più precisamente la nostra disconnessione, la nostra disunificazione con essa. Nel corso dei secoli, l'uomo si è estraniato dalla Natura, ha rimosso i legami inalienabili che lo iscrivono in questa 'rete della Vita'. L'ha trasformata in un oggetto, esterno a lui; un oggetto da controllare, dominare e sfruttare per il proprio sviluppo. Che senso ha 'salvare il pianeta' se è una merce come un'altra?
Oggi, la maggior parte del discorso politico rimane ancorato a questa visione utilitaristica della Natura. All'estremo, ci sono i discorsi bellicosi, che vedono il cambiamento climatico e le sue conseguenze come fenomeni estranei a noi; come nemici della nostra bella vita che dovremmo combattere facendo la 'guerra al clima'.
Ma anche nei discorsi più misurati e altrettanto volontaristici, è la visione utilitaristica a predominare: siamo invitati a impegnarci in questa transizione ecologica per preservare le condizioni di vitalità della specie umana sul pianeta per i secoli a venire; per lasciare ai nostri figli un mondo vitale, vivibile e sostenibile; per rilanciare l'economia grazie a una crescita verde che rispetti gli ecosistemi da cui dipendiamo.
Anche se tutto questo è indubbiamente vero e lodevole, notiamo una grande assenza in questi discorsi: il significato della nostra vita sulla Terra e il nostro posto nella grande narrazione della creazione. Beh, non completamente assente, perché l'8 novembre 2020, per il suo discorso inaugurale, il nuovo Vicepresidente della Bolivia, David Choquehuanca, non ha fatto le cose a metà.
Il suo discorso, passato in gran parte inosservato dai media occidentali, ha delineato un progetto politico che trae esplicitamente la sua fonte e la sua legittimità dalle storie indigene della Bolivia sulla creazione della vita sulla Terra e sui legami indissolubili che ci legano alla Natura.
Dopo un lungo incipit in cui ha ancorato la sua autorità chiedendo il permesso agli 'Dei, agli anziani, alla Pachamama (Madre Terra), agli Achachilas (spiriti protettori)', Choquehuanca presenta la sua visione di una Bolivia che recupera la sua unità e la sua vitalità ricollegandosi ai principi della vita e, così facendo, si assicura che tutti i boliviani siano inclusi in questa prosperità e che nessuno sia lasciato indietro.
Questo è un discorso di un Capo di Stato diverso da quelli che sentiamo di solito, pieni di cifre, indicatori e acronimi complicati. Un discorso che ci sfida ad un altro livello della nostra umanità: quello del significato della vita, della sua dimensione sacra e della nostra appartenenza al cuore di questa rete della vita.
Ci ricorda perché l'uomo, sulla Terra, è invitato a lasciarla in uno stato migliore di quello in cui l'ha trovata - non per sottomettersi a un imperativo morale, ma, al contrario, per vivere pienamente la sua natura ontologica di Essere umano.
David Choquehuanca non è il primo capo di Stato a fare una dichiarazione del genere. Papa Francesco (sì, il Vaticano è uno Stato!) lo ha fatto prima di lui, nella sua enciclica Laudato Si' del 2015. Anche in quell'occasione abbiamo sentito proposte economiche e sociali molto forti, ancorate a uno spirito di giustizia, solidarietà e, naturalmente, rispetto per la Terra; e tutte derivavano da una grande narrazione della creazione e del posto dell'uomo in questa narrazione. Sebbene ci siano ovviamente delle differenze nelle prospettive teologiche tra questi due statisti, le loro convergenze sono molto più grandi di queste differenze.
È questo che manca alle nostre società occidentali secolarizzate per compiere il passaggio all'ecologia con anima e corpo? È tornato il tempo delle grandi narrazioni? Senza dubbio. E storie che ci uniscano più di quanto ci separino, l'altra grande mancanza che le nostre società stanno vivendo in questo momento.
Modelli mentali, razzismo sottile e cioccolato: una rivelazione
Il contesto è una riunione internazionale e multietnica con una ventina di partecipanti di una organizzazione, con l’obiettivo di riconnettersi al suo purpose, per poter poi impostare le attività dei prossimi mesi e di nominare la leadership adatta ad accompagnare il futuro che emerge.
La lingua ufficiale dell’incontro è il francese: si è stimato che tutti i membri del gruppo lo parlino sufficientemente bene da poter seguire senza problemi. Viene offerta una traduzione sporadica e spontanea “a bisogno” dal portoghese al francese ma non viceversa, organizzata tra i partecipanti.
La modalità d’animazione prevede che al termine delle giornate di lavoro collettivo, vengano organizzate delle sessioni serali di debriefing di un’ora, un piccolo gruppo parte del grande, chiamato “Comitato di coordinamento”. Il gruppo ha l’obiettivo di rivedere i contenuti ed i temi emersi, ma soprattutto di essere luogo di analisi delle dinamiche di grande gruppo accadute durante la giornata per collegarle con le dinamiche del più ampio sistema, ed elaborare, per i giorni successivi, delle proposte di lavoro coerenti.
Il “Comitato di coordinamento” è composto di 4 membri fissi e due variabili, membri del grande gruppo che si offrono di partecipare, su base volontaria, all’inizio di ogni giornata. Un componente “fisso” del Comitato, scherzando sul fatto che la sera prima durante il Comitato di coordinamento” si era consumanto molto cioccolato, e con l’intenzione di incoraggiare la venuta dei due volontari dal grande gruppo scherza “E poi ci sarà un fattore di compensazione, consumeremo molto cioccolato”.
Uno dei membri del grande gruppo, una giovane ragazza proveniente da un paese africano, Louisa, dopo questa battuta appare evidentemente perturbata e resta in silenzio. Si trovano infine i due volontari e la giornata prosegue esplorando il tema “Quale leadership è necessaria per guidare i prossimi anni?”. Improvvisamente Louisa sbotta, in portoghese “non mi sono offerta di far parte del Comitato, stamattina perché ho capito che i membri volontari sarebbero stati trattati come il cioccolato e mangiati dai membri del gruppo come ricompensa”.
Parecchi anni fa, durante un lavoro allora pioniere, sull’emergere di modelli di leadership alternativi (allora era chiamato “Emergenza della leadership femminile” un titolo che oggi non userei più) che realizzavamo in una grande banca, avevamo utilizzato il termine “alterfagia” per descrivere una delle resistenze collettive al cambiamento, manifestate durante il progetto.
L’Alterfagia descrive il tentativo di trasformare l’altro manipolandolo, trasformandolo in un oggetto, assimilandolo a sé attraverso il fatto di “mangiarlo”, negandone in questo modo la differenza. Per la banca per la quale lavoravamo l’alterfagia si manifestava in diversi tentativi di assimilare le donne dentro il modello di leadership basato su stereotipi maschili che era al tempo dominante.
Nel caso del “cioccolato” un membro dello staff fa una battuta, non avente nessuna intenzione di esculdere o di insultare. Questa battuta pero’ viene fraintesa in un modo particolare, tra i tanti fraintendimenti possibili, che tocca una dinamica organizzativa presente da anni nell’organizzazione, che riguarda la leadership ed il sentimento, da parte delle persone in Africa in particolare, che ci sia una testa pensante europea (e bianca) ed un braccio operativo nel sud del mondo (nero) che subisce un processo di colonizzazione. Questa dinamica fa si’ che le persone in Africa non siano mai prese in considerazione nella rosa dei candidati a guidare il gruppo.
Il “fraintendimento del cioccolato” ha permesso al gruppo di esplicitare qualcosa di molto difficile da dire, in particolare il sentimento di inferiorità provato da una parte dei suoi membri, la percezione di esclusione da certi ruoli, e questo non in base a competenze più o meno possedute ma in base a caratteristiche personali, quali il colore della pelle ed la provenienza geografica.
Ha permesso anche alla parte europea, identificata come “colonizzatrice” del gruppo, di riflettere su quanto (inconsciamente) agito, riflessione che, a causa di un sentimento strisciante di vergogna che è emerso durante gli scambi generati dall’analisi della metafora, che non era ancora stata fatta fino in fondo.
Lo spazio che si è aperto quando abbiamo offerto la possibilità di fermarsi ad esplorare meglio quanto successo ha permesso un dialogo profondo, autentico, commovente su quanto sperimentato per anni da una parte del gruppo.
Dopo una prima reazione quasi violenta, minimizzatrice il gruppo si è aperto infatti alla possibilità di arricchire la metafora del “cioccolato”, di fare altre associazioni oltre quelle che erano state offerte dallo staff per andare più lontano.
Si è aperto un momento di profonda esplorazione dei modelli mentali, della loro funzione, dei loro limiti e delle conseguenze che questi possono avere sulle persone e sulle performance, che ha permesso una sana rigenerazione, in vista delle nomine del nuovo gruppo di leadership.
Ownership sul nostro contributo: da un economia basata sulla negazione a un'economia rigenerativa
Articolo pubblicato su "Organizational and Social Dynamics”
Sunto
In questo articolo esploriamo un nucleo di dinamiche organizzative e sociali all'opera nel mondo degli affari: la negazione e il disconoscimento del ruolo che svolgiamo nella co-creazione del mondo in cui viviamo e la scissione necessaria per proteggerci dal senso di colpa e dalla vergogna che il riconoscimento della nostra parte scatenerebbe.
Cominciamo con l'esplorare la scissione winnicottiana tra il "falso sé" e il "vero sé". Poi ci avventuriamo in nuovi territori, esplorando la negazione, il disconoscimento e la scissione che sono necessari nell'economia del "business as usual" per mantenere il business ed evitare di riconoscere il suo impatto degradante sulla società e sugli ecosistemi, creando, parafrasando Winnicott, una scissione tra un "mondo falso" e un "mondo vero".
Le organizzazioni tradizionali hanno tendenzialmente strutturato questa scissione in modo formale attraverso difese organizzative, ma ora rischiano di essere sommerse dalle loro parti scisse. Ci chiediamo quindi cosa si possa fare per iniziare ad affrontare il nostro impatto in modo veritiero e contribuire al passaggio da un'economia del degrado a un'economia rigenerativa. Viene esplorata l'importanza di contenere ed elaborare il senso di colpa e la vergogna che ciò potrebbe generare, nonché le nozioni di purpose e purposeful leadership.
Parole chiave: psicodinamica dei sistemi, sistemi sociali, cambiamento organizzativo, leadership, difese.
In un recente programma radiofonico, un importante ambientalista francese ha riassunto il problema: "Penso che sia meglio guidare la propria vecchia auto diesel per andare al lavoro se si lavora in un'azienda agricola biologica che sentirsi orgogliosi di andare al lavoro in bicicletta quando in realtà si lavora per Monsanto". Dicendo questo, ha messo in luce uno dei nostri angoli ciechi collettivi di vecchia data: noi co-creiamo il mondo in cui viviamo, non solo con le nostre azioni di cittadini e consumatori, ma anche (e forse soprattutto) con il nostro contributo all'impatto che l'organizzazione per cui lavoriamo ha, direttamente o indirettamente, sul mondo.
In altre parole, forse abbiamo trascorso troppi decenni a concentrarci sulle competenze professionali e sulle traiettorie di carriera (output), quando forse una domanda più fondamentale è stata lasciata fuori dal radar: quale mondo stiamo aiutando a co-creare, attraverso la nostra organizzazione (outcomes) e grazie alle competenze professionali e alla carriera che investiamo in essa?
In questo articolo esploreremo le dinamiche consapevoli e inconsapevoli in atto quando, attraverso i ruoli che assumiamo nelle organizzazioni, contribuiamo a plasmare il mondo in cui viviamo, e quali leve abbiamo per allineare queste azioni con le nostre intenzioni.
Far scoppiare la bolla
Michael è un uomo di quarant'anni, che ha studiato in una delle migliori scuole di economia francesi e si avviava a una promettente carriera. Per tutta l'infanzia gli è stato detto, come alla maggior parte di noi, quanto fossero importanti studi prestigiosi: una chiave per ottenere una carriera soddisfacente, per realizzare il proprio potenziale.
Dopo essersi diplomato in una prestigiosa scuola di business, Michael ha ricevuto diverse offerte di lavoro allettanti. Ha optato per una delle tre principali aziende farmaceutiche, e lo ha fatto per diversi motivi: prima di tutto, la missione generale dell'azienda ha catturato il suo spirito altruista; contribuire alla salute della popolazione mondiale e risolvere alcune delle più grandi sfide sanitarie era una sfida che valeva la pena intraprendere.
Le enormi risorse dell'azienda significavano inoltre che molto sarebbe stato possibile e che l'audacia e la creatività sarebbero state non solo incoraggiate, ma anche accolte con i mezzi appropriati per l'azione. Infine, entrare a far parte di un'azienda così grande e internazionale significava entrare in un campo in cui la sua carriera sarebbe potuta crescere e sbocciare.
Con il passare degli anni, Michael è stato naturalmente identificato come un "alto potenziale" dal dipartimento di gestione dei talenti dell'azienda e gli sono state offerte diverse opportunità di carriera, tra cui incarichi di leadership all'estero, dove ha potuto ogni volta confermare il suo potenziale per diventare, un giorno, uno dei primi cinquanta dirigenti dell'azienda.
Dodici anni dopo il suo ingresso in azienda, però, Michael decide di licenziarsi. Non per un concorrente, con uno stipendio più alto e prospettive di carriera ancora maggiori. Non perché ne avesse abbastanza del settore sanitario e volesse esplorare un altro settore. No, Michael si è dimesso e ha deciso di lanciare un'attività che, pur essendo nello stesso settore del suo precedente lavoro, era l'antitesi di ciò che faceva: ha lasciato una delle tre maggiori multinazionali farmaceutiche per lanciare un'attività di prodotti naturali per la salute.
La storia di Michael ne illustra molte altre simili all'inizio di questo ventunesimo secolo. Al centro di essa troviamo uno schema ricorrente, in cui brillanti laureati, carichi di potenziale, scelgono di abbandonare una carriera promettente non per un lavoro meglio retribuito o con maggiori prospettive, ma per qualcosa di completamente diverso. In altre parole, abbandonano non solo il loro lavoro, ma anche il paradigma stesso in cui la carriera è stata "venduta" loro, per trovare qualcosa che non può essere trovato in questo paradigma attuale e che può esistere solo in uno nuovo.
Sviluppo di carriera e scissione
Alla maggior parte di noi - e sicuramente a Michael - è stata posta per tutta l'infanzia l'eterna domanda: "Cosa vuoi fare da grande?". Indubbiamente, questa domanda doveva essere utile, per consentirci di elaborare una visione di come poteva essere la nostra vita da adulti, aiutandoci così a individuare il tipo di studi che avremmo dovuto intraprendere per realizzare questa visione.
Naturalmente, questa domanda di prospettiva fungeva anche da contenitore per l'ansia dei nostri genitori, rassicurandoli sul fatto che i loro figli avrebbero effettivamente "fatto qualcosa nella loro vita", ma dando loro anche l'opportunità di riformulare la visione per aiutare i loro figli a "puntare più in alto".
In questo contesto, negli ultimi decenni i bambini hanno pensato in termini di professioni e industrie: essere un medico, un'infermiera, un'insegnante, lavorare in banca, nella finanza, essere un consulente ..... Nel loro inconscio e in quello dei loro genitori (e della società in generale), quelle professioni e quei settori portavano con sé determinati valori e servivano come indicatori di successo, sia agli occhi di chi li circondava (fonti esterne di gratificazione) sia in termini di risultati economici.
Nel suo articolo "Les 'hauts potentiels’ et le 'faux-self'", Maryse Dubouloy (2006) spiega l'impatto che tale costruzione del proprio possibile futuro ha sull'individuo una volta che si confronta con la realtà dell'ambiente di lavoro. Ancorandosi al lavoro di Winnicott, l'autrice suggerisce che molto presto, per assicurarsi l'amore e la stima positiva dei genitori, i bambini sviluppano in modo eccessivo le capacità, gli atteggiamenti e i comportamenti che ritengono più apprezzati dai genitori, rischiando di lasciare sopite, o comunque poco sviluppate, altre parti di sé. In questo modo, sviluppano un "falso sé" che presentano al mondo e nascondono nel proprio inconscio (attraverso un processo di scissione) chi sono veramente, cioè il loro "vero sé".
Avendo lavorato con decine di manager ad alto potenziale, Dubouloy ha iniziato a identificare uno schema per cui, dopo studi brillanti ed eccellenti inizi di carriera, questi alti potenziali spesso attraversano una profonda crisi interiore quando si trovano di fronte a un evento fino ad allora insolito per loro: un grosso fallimento, come la perdita di un contratto, una mancata promozione o il licenziamento.
Per la prima volta, il loro io iperadattato non può più "salvarli", non può più fornire la gratificazione che hanno sempre cercato, lasciandoli con un enorme senso di vuoto e di inutilità. Inconsapevoli, inciampano nell'abisso tra il loro falso e vero sé, tra le false promesse di sicurezza narcisistica da un lato e le possibilità illimitate di essere chi sono veramente, che in questo preciso momento non si sentono affatto liberatorie, ma piuttosto oppressive e persecutorie.
La storia di Michael trova molti echi nell'opera di Dubouloy, ma offre una nuova dimensione e una nuova prospettiva di questo abisso. Le false promesse e lo sviluppo di un falso sé sono infatti presenti anche qui. Indubbiamente, Michael è stato bravo a scuola, ha lottato duramente per entrare in una delle migliori e più prestigiose scuole di business francesi e ha scelto una grande multinazionale di fama internazionale per lavorare, perché corrispondeva alle aspettative che la sua famiglia aveva su di lui e incarnava l'aspetto del successo nella società.
A livello inconscio, Michael ha probabilmente operato una scissione del suo sé in un vero e un falso sé, assicurandosi inconsciamente che il suo personaggio pubblico corrispondesse alle aspettative esterne (fornendogli così una gratificazione esterna) e sopprimendo il suo vero sé dall'esperienza cosciente. Le dimissioni di Michael, quindi, potrebbero essere legate al desiderio di far emergere il suo vero sé, anche se i dati non corrispondono del tutto a quelli che Dubouloy ha indicato come i consueti fattori scatenanti di una tale scossa interna: la decisione di Michael non è stata presa in seguito a una crisi indotta da un fallimento; non ha perso una promozione, né un contratto, né niente del genere. Potrebbe esserci qualcos'altro all'opera?
Esaminando nuovamente i dati, possiamo notare che la decisione di Michael è maturata quando ha iniziato a rendersi conto dell'impatto che l'industria farmaceutica aveva sul mondo, e quindi del proprio contributo a tale impatto. In qualità di direttore marketing, il suo compito era quello di garantire che un numero sempre maggiore di clienti acquistasse i farmaci dell'azienda. L'aumento delle vendite era quindi un indicatore chiave del successo.
Allo stesso tempo, però, la ricerca ha iniziato a dimostrare che l'uso crescente di antibiotici era in realtà una delle cause principali della resistenza dei microbi agli antibiotici. In un certo senso, più antibiotici si aiutavano a vendere, più microbi resistenti agli antibiotici si contribuiva a sviluppare. Un'altra intuizione arrivò quando, durante una conferenza per l'industria farmaceutica, scoprì che di tutti i farmaci prodotti da tutte le aziende farmaceutiche, probabilmente circa il 15% era più efficace dei placebo, mentre il restante 85%, ovviamente, produceva molti più effetti collaterali dei placebo.
Lentamente ma inesorabilmente, Michael si rese conto che il modello di business dell'industria farmaceutica richiede che le persone siano malate per poter funzionare; la dichiarazione di missione che lo aveva originariamente attratto nell'azienda (contribuire alla salute della popolazione mondiale) in realtà si basava sul suo lato ombra: richiedere che le persone fossero malate.
La promozione della salute non era quindi prevista, perché rischiava di far fallire l'azienda. Tanto che, in qualità di direttore marketing, una volta gli fu chiesto di contribuire a trovare un modo per vendere una molecola che il dipartimento di ricerca e sviluppo aveva scoperto, ma per la quale non era nota alcuna malattia. Finirono per trovare comportamenti non patologici ampiamente collegati che potevano essere confezionati come sindrome, per poterli poi inquadrare come malattia. Come dice lui stesso, "siamo entrati all'incontro con una molecola e ne siamo usciti con una malattia".
In altre parole, ciò che è emerso davvero per Michael dopo dodici anni di lavoro non è stata solo la scissione che ha dovuto operare per "avere successo" agli occhi degli altri e del suo falso sé, ma, forse ancora più in profondità, la scissione che ha dovuto fare dell'impatto che lui stesso aveva sul mondo attraverso la mobilitazione delle sue capacità e competenze al servizio della sua azienda.
Uso l'espressione "ancora più profondo" perché, per molti versi, la scissione dell'impatto che le nostre azioni professionali hanno sul mondo non è solo una dinamica intrapsichica; è anche, e forse prima di tutto, una dinamica sociale. È indotta dal paradigma stesso in cui la maggior parte di noi è invitata a immaginarsi professionalmente, quando ci viene chiesto "cosa vuoi fare/essere da grande?", piuttosto che "a cosa vuoi contribuire da grande?". Un paradigma che attribuisce un valore intrinseco alla progressione di carriera senza indagare (e tanto meno valutare) l'impatto che le crescenti responsabilità professionali finiscono per avere sul mondo. Forse spostare la cornice in questo modo potrebbe produrre grandi trasformazioni.
Di Overview Effect, dei livelli di Bateson e di apprendimenti per il futuro
Da piccola uno dei miei sogni era di andare nello spazio. Mi immaginavo dentro una capsula spaziale a guardare la Terra allontanarsi piano attraverso l’obló e la Luna e i pianeti via via diventare più visibili. La lettura di “Lucky Star e le Lune di Giove” contribuiva a rendere questo sogno ancora più dettagliato. Il mio sogno ormai è diventato sempre più realizzabile, i primi viaggi “turistici” nello spazio stanno incominciando (sull’opportunità e la diffusione di questi viaggi rispetto alla produzione di CO2 si potrebbe discutere) e da qualche tempo mi capitano sotto gli occhi sempre più spesso articoli sull’”Overview Effect”. Cosa vuole dire Overview Effect? Il nome è stato ideato da Frank White che lo ha usato per la prima volta nel 1987, nel suo libro che si intitola proprio “The Overview Effect”.
Si tratta di una raccolta di esperienze descritte dagli astronauti che sono andati nello spazio, e che si sono raccontati, non tanto sulla parte ingegneristica del loro viaggio ma sulle emozioni dalle quali sono stati attraversati. Gli astronauti partiti dopo l’uscita del libro hanno potuto cosí beneficiare di un concetto per descrivere le emozioni forti e confuse provate durante il viaggio, in particolare guardando il pianeta Terra da una prospettiva unica.
Un punto di vista molto particolare, che provoca un’esperienza che possiamo definire trascendente (un “salire al di là” molto tangibile), un movimento interiore profondo e duraturo cosí come descritto dagli astronauti che lo hanno sperimentato: un misto di compassione, tenerezza, vulnerabilità, consapevolezza di appartenere ad un tutto.
Un amore incondizionato ed universale che si prova per la Terra, vedendola cosí lontana e fragile, che fa sí che dopo questo tipo di esperienze la chiave di lettura di sé e del mondo passi attraverso questa lente. Dentro l’Overview Effect c’è il sentimento profondo di appartenenza, la fine della separazione dalla Terra, la consapevolezza di essere produttori dei contesti nei quali viviamo di cui parla Bateson in “Verso un’ecologia della mente”.
Se ne parlo in questo post è perché le fotografie che accompagnano la descrizione dell’Overview Effect sono una prima “madeleine” che mi rimanda ai miei sogni di bambina; la seconda “madeleine” è per me la connessione che ho fatto tra “Overview Effect” e la mia tesi di laurea sulla creatività e l’apprendimento ed è di questo che vorrei parlare nel blogpost dopo questa premessa un po’ lunghetta.
Una parte importante della mia tesi era infatti dedicata a definire cosa significa “apprendere” un tema che mi affascinava allora come ora, al punto di averne fatto il centro del mio lavoro. Una delle pietre miliari sul tema è senza dubbio la teoria dei “livelli di apprendimento” di Gregory Bateson. In sostanza Bateson, partendo dalle teorie dei Tipi Logici di Whitehead e Russel e da modelli cibernetici, ha formulato una teoria dell’apprendimento che permette di definirlo su 4 livelli logici (molto interessante in relazione all’apprendimento in Bateson, tutto il tema dei paradossi ma non è oggetto del nostro blogpost).
Di seguito i livelli di apprendimento di Bateson descritti in estrema sintesi, con un’esempio che ci servirà per chiarire il legame tra la teoria di Bateson e l’Overview Effect.
- Livello 0 – prevede solo una semplice risposta ad uno stimolo (apprendimento automatico, nessuna riflessività). E’, ad esempio, il caso di quando agiscono stereotipi molto forti che generano routines di pensiero rigide che permettono solo risposte obbligatorie agli stimoli, senza possibilità di alternative. Ad esempio prendiamo il caso di un’azienda che ha prodotto rifiuti e che li getta sempre nello stesso punto nel mare. Non abbiamo nessun altro tipo di risposta a disposizione, gettare in quel punto è automatico, la routine di pensiero (o lo schema mentale della priorità assoluta del profitto) non permette di vedere alcuna alternativa.
- Livello 1 – prevede che possiamo scegliere la nostra risposta allo stimolo tra diverse alternative, presenti in uno stesso insieme. In questo tipo di apprendimento è quindi possibile il cambiamento, nella specificità della risposta, mediante correzione degli errori di scelta, all'interno di un insieme di alternative date: la risposta appresa resta adeguata solo in quel particolare contesto, che deve perciò ripresentarsi uguale. Il condizionamento pavloviano classico è un esempio di questo tipo di apprendimento. Nel nostro esempio dei rifiuti, posso decidere di gettarli in un punto del mare ma anche gettarli in un altro punto, perché ci rendiamo conto, ad esempio, che è più economico del primo. I diversi sbocchi sul mare costituscono le diverse alternative nell’insieme delle scelte.
- Livello 2 – Nell’apprendimento di questo livello abbiamo la consapevolezza che le alternative possono trovarsi anche in altri insiemi: l’apprendimento è quindi sul cambiamento del processo di apprendimento 1, una correzione dell'insieme di alternative entro il quale si effettua la scelta. Si è quindi consapevoli che le scelte avvengono in un sistema di alternative dato e si è capaci di vedere e cambiare insiemi di alternative. Quindi, per ritornare alla nostra produzione di rifiuti, possiamo decidere di gettarli in mare, ma sappiamo che ci sono altri insiemi di alternative, tipo quello di bruciarli, di sotterrarli etc. Ancora è solo il principio del profitto a guidarci.
- Livello 3 – Questo apprendimento è molto raro. E’ l’apprendimento che si realizza attraverso la percezione del sistema di sottoinsiemi di alternative e nel quale si percepisce la possibilità di cambiarlo. Avviene quindi riuscendo a vedere insiemi di contesti diversi nei quali le alternative esistono. In questo tipo di apprendimento “l’io diventa quasi irrilevante e non è più essenziale alla descrizione dell’esperienza”. L’insight avviene quando facciamo un’esperienza che ci mette in contatto profondo con la nostra interconnessione con il contesto, con il Cosmo, con la Natura, con la consapevolezza che non ne siamo separati ma integrati e che le nostre scelte cambiano le nostre possibilità future.
L’apprendimento 3 è raro perché si realizza quando il sistema cognitivo è profondamente scosso (ad esempio in una situazione terapeutica o in un’esperienza mistica) e, Bateson dice, al confine con la patologia. Una strada possibile, patologica, dell’apprendimento 3 è proprio la psicosi. In questo tipo di apprendimento la logica del profitto (e dell’ego) non è più prioritaria.
Nel nostro caso dei rifiuti, l’apprendimento di tipo 3 potrebbe avvenire in un momento di consapevolezza profonda del fatto che producendo rifiuti e scaricandoli nella Natura in realtà stiamo intervenendo sul nostro contesto e modificandolo, minacciando in questo modo le nostre possibilità di sopravvivenza future. Questo tipo di apprendimento parte da una premessa importante, che è quella di riuscire a percepirci non più come distaccati ma in connessione e comunione con la Natura. Possiamo scegliere di smettere di produrre rifiuti, ripensando il nostro processo di produzione ad esempio in forma circolare, perché i rifiuti diventino input di un altro processo di produzione.
Due scienziati, James Lovelock e Lynn Margulis sono gli autori di una teoria affascinante (ma anche controversa), la famosa “ipotesi Gaia” secondo la quale la Terra è un unico essere vivente, che respira e vive, composto da diversi esseri viventi. Secondo questa ipotesi l’interconnessione non è solo un modo di percepire, di apprendere i nostri contesti ma qualcosa di più. Ridurre la complessità e sentirci separati da essa ci rende impermeabili all’empatia ed alla sofferenza per come trattiamo Gaia, il nostro pianeta-essere vivente.
L’Overview Effect è una prospettiva interessante per chiederci: come possiamo rigenerare il nostro sguardo sul mondo? Come generare lo stesso movimento personale che permette agli astronauti di non essere più gli stessi, una volta provato questo effetto? Come accedere all’apprendimento 3 sulla nostra condizione umana in questo pianeta? Come, collettivamente, ottenere un insight che ci porti a ripensare radicalmente i nostri sistemi di produzione e la nostra relazione con la Terra?
L’apprendimento 3 ha una componente spirituale molto forte. Gli astronauti che sono stati intervistati da Frank White hanno parlato di allineamento spirituale, di trascendenza dell’esperienza. Forse una strada da percorrere, per sentire questa ondata di amore e tenerezza verso la nostra casa comune, è proprio quella di aprirsi collettivamente e davvero a questa dimensione.
Che la tua intenzione sia semplice
In questi giorni ho il grande privilegio di co-facilitare un gruppo insieme ad un formidabile prete Gesuita. Scherzando ci diciamo che io sono addetta alla parte psicosociale e lui si occupa di spiritualità, ma in realtà formiamo un binomio integrato!
La parola intenzione viene dal latino in tendere, tendere verso, volgere verso un determinato termine. Tra i diversi significati della parola “intenzione”che potete trovare in qualunque vocabolario, ce n’è uno che è particolarmente interessante: in medicina l’intenzione è infatti l’atto di avvicinare i lembi di una ferita per permettere la cicatrizzazione. Questo significato rimanda alla rigenerazione della pelle, alla possibilità di guarire riunendo quello che era separato perché era stato ferito.
Durante il nostro lavoro insieme al padre gesuita, ad un certo punto per il gruppo si è posta la necessità, di avere conversazioni difficili tra alcuni dei membri per poter veramente agire come un collettivo intorno ad un purpose comune. Ed è su questo che siamo arrivati al tema dell’intenzione ed al suo chiarimento.
Quando decido, ad esempio, di incominciare una conversazione difficile, di che tipo è la mia intenzione? E’ una intenzione che vuole davvero rigenerare? Ed è questo punto che il contributo del padre gesuita (e di Ignazio di Loyola) è stato illuminante. Prima di affrontare queste conversazioni difficili infatti una domanda che ci puó aiutare ad esplorare l’intenzione profondamente è “La mia intenzione nell’avere questa conversazione è diritta?” e diritta significa semplice, non mescolata ad altre. Una bella metafora è quella del biliardo, nel quale si colpisce una palla mentre in realtà se ne vuole colpire un’altra e la palla che si colpisce serve solo a mandare l’altra in buca.
A volte le intenzioni possono invece essere confuse, ripiegate (proprio il contrario di semplici, simplex, sem-plectere, piegato una sola volta). Se davvero la nostra intenzione è guarire, riparare una ferita è importante quindi togliere quello che si mescola ad essa (desideri narcisistici, manipolatori, non benevoli nei confronti dell’altro...) e restare con l’intenzione “diritta”, sana, pura, alla quale non si mescolano altre intenzioni che la rendono, machiavellica e che alimentano la sfiducia ed il sospetto, facendoci ottenere, invece del risultato di guarigione, ricucire la ferita, esattamente il risultato opposto: delle ferite che non si rigenerano più.
Incarnare sia l'oggetto buono che quello cattivo nella Rigenerazione
Il cambiamento sociale e organizzativo che ci viene richiesto è senza precedenti; non può più riguardare il miglioramento dell'attuale paradigma capitalistico basato su una crescita economica senza fine (anche se dovessimo chiamarla crescita verde, o crescita sostenibile), e deve derivare da un'innovazione del paradigma stesso attraverso il quale possiamo pensare, e poi incarnare, questo cambiamento radicale. Per molti aspetti, la Rigenerazione (I 6 PRINCIPI) ci sembra il più adatto come nuovo paradigma per il XXI secolo.
Radicata nella saggezza dei principi ecosistemici che possiamo osservare in natura, la Rigenerazione, come paradigma, suggerisce che per prosperare un sistema deve regolare il ciclo della "morte" e il ciclo della "vita". Per quanto riguarda il ciclo della "morte", ciò significa:
- Disinvestire le nostre energie da quei modelli organizzativi o sociali che non possono più continuare nel futuro (ad esempio, i trasporti a benzina).
- Accompagnare la morte di ciò che collettivamente dobbiamo abbandonare (ad esempio, il turismo transcontinentale).
- Proteggere invece le iniziative minacciate da una morte precoce a causa delle dinamiche attuali (proprio come i rovi proteggono la piantina di quercia dai cervi affamati fino a quando la quercia non è abbastanza forte da resistere al loro sgranocchiamento) (ciò significa, ad esempio, proteggere i produttori e i rivenditori biologici locali dalle logiche dell'agroalimentare su larga scala).
E per quanto riguarda il ciclo di "vita", suggerisce di:
- Incoraggiare la vita dove sta cercando di prosperare (ad esempio, abbassare le tasse e/o creare quadri legislativi specifici per i prodotti rigenerativi).
- Aumentare le interazioni che aumentano la vita (ad esempio, innovazioni civiche come le assemblee dei cittadini).
- Sviluppare collaborazioni e partnership (ad esempio, Danone e la banca Gramheen si uniscono per promuovere la salute e la rigenerazione sociale nelle zone rurali del Bangladesh).
Un concetto chiave è quello di regolazione: il morire deve essere presente quanto il nascere (proprio come nel ciclo vitale delle cellule viventi, dove una "mancata morte" può portare a una crescita cancerosa). Probabilmente tutti abbiamo sperimentato quanto sia più facile iniziare qualcosa di nuovo che lasciare andare qualcosa che abbiamo fatto per tanto tempo, ma se non lasciamo andare veramente, è improbabile che avvenga una vera trasformazione.
Con i nostri clienti in qualunque settore essi siano, tutto ciò è parte integrante del nostro lavoro: consentire loro, se ci basiamo ad esempio sulla terminologia del processo U di Otto Scharmer, di dare un nome a ciò che hanno bisogno di lasciare andare prima di pre-sentire, cristallizzare e prototipare il nuovo. In un workshop, questo può assumere la forma di un impegno, che il gruppo elabora e poi accetta di sottoscrivere - anche se il duro lavoro di lasciar andare effettivamente verrà dopo, nelle settimane o nei mesi successivi, quando dovranno tradurre quell'impegno operativamente e affrontare "per davvero" la spinta dirompente di qualsiasi processo di trasformazione.
Si potrebbe essere tentati di pensare che, quando si tratta di accettare di lasciar andare per lasciar venire, le organizzazioni religiose possano trovare più facilità; in effetti, nel cuore della loro fede, il Mistero Pasquale (la morte e la resurrezione di Gesù) fornisce un quadro meraviglioso per trovare un senso a ciò che viene richiesto: accettare di lasciar andare, di lasciar morire, prima di lasciar venire e lasciar vivere, e farlo nella fiducia - anzi nella fede, perché non sappiamo cosa sarà il "nuovo". E’proprio nel lasciar andare ciò che non può più continuare nel futuro che creiamo lo spazio per far nascere il "nuovo".
Nella nostra esperienza di lavoro con le congregazioni religiose, è vero che il Mistero Pasquale è, innegabilmente, di grande aiuto per loro nell'entrare nel territorio del "dare un nome" a ciò che deve morire e nel prendere l'impegno necessario a lasciarlo andare. Tuttavia, abbiamo anche notato che la traduzione di tale impegno in una realtà operativa è spesso piuttosto difficile - proprio come per la maggior parte di noi, come già detto.
Come mai? Forse analizzare meglio la psicodinamica del mistero pasquale può aiutarci a capirlo.
L'aspetto centrale del mistero pasquale è piuttosto semplice: fidandosi della volontà di Dio, Gesù accetta di morire sulla croce e risorge il terzo giorno, testimoniando così che dopo la morte arriva una nuova vita. Per tutti i cristiani del mondo, questa dinamica è il cuore della loro fede. Detto altrimenti: questa dinamica doveva accadere, perché è nel suo svolgersi che si rivela il mistero di Dio.
Eppure, come esseri umani nel corso dei secoli, siamo stati spesso tentati di considerare alcuni dei personaggi di questa dinamica come "il nemico", come "il male" - come se senza la loro interferenza, Gesù avrebbe potuto continuare a vivere e a compiere i suoi miracoli sulla Terra.
Ma la stessa fede cristiana indica il contrario: è morendo quando e nel modo in cui è morto, che Gesù ha rivelato il mistero di Dio all'umanità. In altre parole, era necessario che fosse tradito, giudicato, condannato a morte e crocifisso, perché senza tutto ciò il Mistero della Risurrezione (della vita dopo la morte) non avrebbe potuto essere rivelato.
Ciò implica che tutti i personaggi del dramma sono essenziali e hanno un ruolo da svolgere affinché il mistero pasquale possa svolgersi. Giuda, il traditore; i sommi sacerdoti che vogliono sbarazzarsi di un rivale; Ponzio Pilato, il governatore romano che "se ne lava le mani", condannando di fatto Gesù; Gesù stesso, naturalmente, che incarna il bene, che tuttavia morirà; e anche i testimoni, a cominciare da Maria Maddalena e poi gli apostoli, che possono dubitare ma alla fine si riconoscono nell'evidenza della vita che ha superato la morte. Il mistero pasquale è quindi una storia dinamica, il risultato dell'interazione di tutti questi personaggi, non la storia di una sola persona.
Che cosa ha a che fare tutto questo con la rigenerazione organizzativa e sociale, potreste (giustamente!) chiedervi? Ebbene, a prescindere dalla vostra fede, e anche se siete atei, questa rimane una storia fondamentale per molte civiltà, e può aiutare a fare luce su ciò che a volte ci impedisce di impegnarci in una rigenerazione organizzativa o sociale di successo, in primo luogo mettendo in evidenza i vari ruoli che devono essere assunti, interpretati, recitati in quello che deve essere essenzialmente un insieme di interazioni dinamiche tra questi ruoli.
Prendiamo ad esempio il trasporto che impiega la benzina come carburante. Non finirà con la nostra promessa di farla finita, sia che si tratti di utenti che attualmente ne usufruiscono, sia che si tratti di produttori di auto che vogliono allinearsi agli obiettivi climatici, sia che si tratti di compagnie petrolifere che si offrono di passare alle energie rinnovabili, sia che si tratti di governi che percepiscono un cambiamento di opinione.
Sarà necessario che le persone assumano il ruolo di cattivo oggetto, di coloro che sono visti come i sommi sacerdoti che cospirano per uccidere il “buon” trasporto a benzina (il presidente francese Macron ha definito Amish queste persone); sarà necessario un traditore, un Giuda - forse un'azienda automobilistica o una compagnia petrolifera che rompa i ranghi rispetto al comportamento previsto; un governo che accetti di condannare a morte il trasporto a benzina così come lo conosciamo; e anche testimoni della nuova vita che è possibile al di là del trasporto a benzina.
Da un punto di vista psicodinamico, ciò significa che, affinché la rigenerazione abbia successo, diversi ruoli di “cattivo oggetto” devono essere assunti, quindi diverse persone devono accettare di proporsi per assumerli - anche se ciò significa essere denigrati e insultati per settimane, mesi o anni. Detto altrimenti: ciò che il Mistero Pasquale suggerisce è che la rigenerazione non avviene "bene", con tutti d'accordo sulla buona idea.
La rigenerazione richiede che alcune persone assumano il ruolo di "cattivi" e siano viste come coloro che condannano a una morte ingiusta - questo è il prezzo da pagare per il necessario dispiegarsi di una nuova vita.
Naturalmente l'intenzione non è quella di condonare un comportamento violento o abusivo, con il pretesto che sarebbe al servizio della rigenerazione. L'attuale comportamento sconsiderato e forse sociopatico di Elon Musk nel gestire il suo nuovo giocattolo "Twitter" non ha nulla a che fare con la rigenerazione, e sembra piuttosto il risultato di una pulsione megalomane indomita.
L'intenzione, piuttosto, è quella di incoraggiare coloro che hanno il compito di prendere le decisioni, di seguire le indicazioni del discernimento collettivo e di agire concretamente con decisioni seguite da un'accurata attuazione. La rigenerazione lo richiede - e non possiamo essere tutti nel ruolo di Gesù il buono!
La curva U in un processo che usa poco tempo
Il processo U di Otto Scharmer festeggerà presto il suo 20° compleanno e non c'è bisogno di dire quale incredibile impatto trasformativo abbia avuto su tante persone e organizzazioni.
In Nexus lo abbiamo usato come sfondo del nostro lavoro negli ultimi 15 anni; spesso per progettare workshop di un giorno o di tre giorni, ma anche un intero intervento con un cliente, esteso per diversi mesi, in cui ad esempio posizioniamo prima di tutto la fase di Presencing e, su questa base, costruiamo la fase di Sensing come processo per arrivarci.
Ciò che credo sia meno noto è che il processo U è uno strumento "frattale", che si può applicare a eventi o interventi di qualsiasi dimensione: da un progetto di 18 mesi a una riunione di un'ora, o anche a una telefonata di 5 minuti. Il processo è sempre lo stesso e segue la stessa sequenza:
- Sensing
- Lasciare andare
- Presencing
- Lasciar venire
- Realizzare
Quindi, la prossima volta che qualcuno vi chiama, in preda al panico, per dirvi che un elemento chiave del vostro sistema di fornitura si è rotto, invece di insistere per mantenere il vostro piano iniziale ("Non mi interessa, questo è ciò che avevamo concordato, risolvetelo! "), iniziate ad adeguare la vostra valutazione della realtà per includere la situazione aggiornata (Sensing), lasciate andare il vostro piano precedente, ma anche la vostra fantasia o il desiderio che tutto possa essere sotto controllo, ascoltate ciò che la situazione sta spingendo in avanti come il modo più evidente per attuare ancora il vostro Scopo (Presencing), lasciate che arrivino soluzioni pratiche per iniziare ad andare avanti e iniziate ad attuarle in un approccio di prova-apprendimento-regolazione (Realising).
Una delle mie storie preferite su come il Processo U possa essere applicato per risolvere situazioni complesse in un breve lasso di tempo, si è svolta nell'assolato sud della Francia, dove stavo guidando un team di 10 consulenti nella facilitazione di un evento di team building di una giornata, al quale partecipavano un centinaio di alti dirigenti di una società di investimenti europea.
Il nostro cliente ci aveva affidato il consueto compito di garantire che questi alti dirigenti "producessero" alcuni risultati tangibili e utili ("è bello giocare, ma siamo qui anche per lavorare!") e allo stesso tempo si divertissero ("è pensato per essere un team building, le persone sono qui per rilassarsi e divertirsi!"). Nessuna contraddizione particolare che non avessimo già sperimentato prima...
Così ci siamo messi a progettare un processo divertente, anche se con obiettivi e risultati chiari. All'ora di pranzo, mentre il World Café del mattino era andato molto bene e l'energia nella stanza era quanto di più positivo si potesse sperare, era diventato chiaro che il programma che avevamo progettato per il pomeriggio doveva essere rielaborato, perché il gruppo era in uno spazio diverso e si sarebbe rifiutato di impegnarsi. Avevamo un'ora per pranzare e reinventare il programma del pomeriggio.
Considerando importante che tutto il mio team si sentisse incluso, ho suggerito che avevamo tre opzioni e ho chiesto loro quale preferissero:
- Lavorare alla riprogettazione durante il pranzo
- Lavorare alla riprogettazione e poi pranzare
- Pranzare prima e poi riprogettare
Sorpresa, sorpresa, c'è stato un voto unanime per la terza opzione... così, quando abbiamo finito di pranzare, il nostro tempo di lavoro si era ridotto a ½ ora!
Consapevole della sfida che stavamo affrontando (far sì che 10 facilitatori molto competenti, ma diversi tra loro, si mettessero d'accordo su come riprogettare un programma in 30 minuti, in modo da poter tornare ad affrontare una folla di 100 dirigenti senior nel loro tuffo post-pranzo), ho comunque deciso di giocare con la "U" e ho invitato il mio team a condividere come ritenevano fosse andata la mattinata e quale pensavano fosse lo stato del gruppo (sentimenti, dinamiche, aspettative, ecc.) - in altre parole li ho invitati a iniziare con una fase di Sensing. Dopotutto, il nostro team era molto esperto nel processo U e ho dato per scontato che, proprio come me, avrebbero trovato questo il modo migliore di procedere.
Beh, questo non teneva conto dei loro alti livelli di ansia... In pochi minuti, 2 o 3 di loro hanno iniziato a condividere le loro brillanti idee su ciò che avremmo dovuto fare - brillanti, appunto, ma molto diverse tra loro e non sempre compatibili.
Sono intervenuto per ricordare a tutti che dovevamo impegnarci in una fase di sensing, non "saltare la U". Così ho ripetuto la mia richiesta di dipingere un quadro del gruppo come lo avevamo lasciato alla fine della mattinata.
Questo non ha fatto altro che aumentare le ansie di tutti: "Matthieu, non essere sciocco, non abbiamo tempo, dobbiamo trovare una soluzione!".
"Certo che ce l'abbiamo, ho risposto, ed è per questo che vi chiedo di rimanere disciplinati e di seguire il processo che tutti sappiamo essere utile. Ora abbiamo sprecato 10 dei nostri preziosi 30 minuti, quindi voglio che smettiate di "saltare la U" e vi dedichiate al "Sensing"! Per favore!".
Il silenzio che seguì fu probabilmente un misto di ansia, rabbia, incredulità, ma anche il riconoscimento che avevamo un processo che poteva aiutare e un leader che non si faceva sopraffare dall'ansia del gruppo. Così le persone si sono finalmente impegnate a condividere il loro punto di vista sulla situazione del gruppo e, dopo 10 minuti di Sensing, è emersa un'immagine chiara, condivisa e collettiva della realtà.
È diventato evidente ciò che dovevamo lasciare andare, e il senso di ciò che la situazione richiedeva era palpabile nella stanza, anche se non era ancora stato verbalizzato. Questo è il tipico territorio in cui si svolge il Presencing, nel mio ruolo di facilitatore di quel gruppo dovevo solo capire come favorirne l’emergenza.
Come se il tempo si fosse fermato in quel territorio, abbiamo trascorso mezzo minuto di silenzio profondo, riflessivo e privo di ansia, in cui tutti erano consapevoli che stavamo trovando qualcosa, ma che cercare di coglierla troppo in fretta avrebbe potuto solo farla svanire.
La svolta è arrivata forse dalla più inaspettata tra i membri del team: una giovane donna scandinava, che si era unita al team solo di recente ed era piuttosto introversa. In quel silenzio fitto, ha fornito al gruppo l’idea risolutiva: "E se li invitassimo a creare soluzioni per i problemi che hanno identificato questa mattina in piccoli gruppi tematici e chiedessimo loro di presentarle sotto forma di ricette di cucina, poesie, canzoni o spettacoli teatrali?".
Tutti noi l'abbiamo guardata, poi ci siamo guardati l'un l'altro e abbiamo sorriso: "Sì, è fantastico, facciamolo!". Mancavano 8 minuti alla ripresa del laboratorio.
"Ok, di cosa abbiamo bisogno per realizzare questa idea, e chi fa cosa? Io, scriverò le istruzioni sulla lavagna a fogli mobili! E io, preparo il materiale per i gruppi! Ok, e noi 3 andiamo a riordinare le sedie!".
Tornammo nella stanza, tutto era pronto, riordinato, l’équipe allineata per animare, a un minuto e mezzo dall'inizio. Thank U !
Feedback? No grazie!
Antonio, direttore marketing di una multinazionale, è un convinto sostenitore della prassi di “feedback continuo” che è stata recentemente introdotta nel ciclo del performance management. Antonio pensa che, proprio attraverso il feedback, sia possibile far crescere le soft skills delle sue collaboratrici e collaboratori, non solo le loro capacità tecniche. Per questo non perde occasione di avere colloqui individuali per restituire il suo sguardo sulla loro assertività, sull’empatia dimostrata nelle relazioni, sulle loro capacità di leggere i bisogni di clienti interni ed esterni. Questi colloqui, settimanali, cominciano con una serie di feedback detti “di miglioramento”, dati sulle parti di prestazione che non hanno soddisfatto Antonio, finendo con una serie di feedback di rinforzo, sulle parti di prestazione che si sono rivelate efficaci. Antonio è sicuramente un manager capace ed esemplare, e la pratica del feedback va sicuramente incoraggiata - penso a quante persone mi è capitato di incontrare, nelle organizzazioni, che non hanno alcuna idea di ciò che le e i loro manager vedono della loro prestazione. Alla luce di un interessante articolo, apparso nel 2019 su HBR, firmato dai ricercatori Marcus Buckingham e Ashley Goodall di ADP possiamo chiederci se questa pratica continua è davvero benefica per l’apprendimento delle persone.
Questo blogpost esplorerà alcune domande, a partire dalle pratiche osservate e dalla letteratura sul tema ed in particolare: il feedback continuo aumenta sempre la nostra consapevolezza? Ci fa sempre crescere? E’ sempre generatore di apprendimento? Fornendo, nella parte finale, alcuni spunti pratici di gestione.
Queste domande richiamano alcune convinzioni ed abitudini di pensiero rispetto al feedback, derivanti in gran parte da modelli ereditati da un passato nel quale il livello di conoscenze scientifiche non aveva ancora permesso la comprensione interdisciplinare dei suoi effetti che incominciamo ad avere oggi, anche grazie alla IRM. Penso, ad esempio, ad un modello che amo molto, la famosa Finestra di Jo-Hari, creata da Joseph Luft e Harrison Ingham, che prende il nome proprio dalle iniziali dei suoi creatori. E a quanto mi è sempre piaciuto condividere con allievi e partecipanti di corsi di formazione una storia quasi magica sul fatto “johari” in sanscrito vuole dire “colui che possiede tesori e gioielli” (credo letto in una nota del saggio “Soggettività” di Enzo Spaltro). Questo significato nascosto e misterioso mi è sempre sembrato una magica metafora di quanto sia preziosa l’attività di dare e ricevere feedback per aggiungere pezzi preziosi alla nostra identità, che altrimenti non avremmo modo di integrare.
Ma alcune recenti scoperte, in particolare sul feedback negativo, ci mostrano come pensare di raggiungere sempre un obiettivo di crescita personale e professionale attraverso il feedback possa rivelarsi ingannevole. È la “feedback fallacy” esplorata attraverso diverse ricerche da Buckingam e Goodall. Ad esempio, secondo una ricerca del loro istituto ADP sui bisogni della generazione Millenial, si confonde la richiesta di più attenzione, con quella di “più feedback”. In realtà il bisogno sottostante sarebbe piuttosto quello di un pubblico che sia attento a loro, come succede quando nei social network quando si ricevono stelline, cuoricini, like. Quindi, quando si adottano processi di “trasparenza radicale” o “feedback duro” che consistono a mettere le persone al centro di un flusso continuo di feedback, negativi o positivi, si risponde in maniera discutibile ad un bisogno presente. Infatti, se il feedback negativo “procedurale”, quello di correzione di errori operativi, ci aiuta a correggerci ed è sempre utile, il feedback totale che descrive la prestazione attraverso punti di forza e di debolezza anche su aree comportamentali quali assertività, propensione al rischio, visione d’insieme, empatia etc. presenta il rischio di essere addirittura dannoso e vedremo come.
Buckingam e Goodall nella loro ricerca hanno individuato tre modelli mentali, tre bias, che guidano il nostro uso del feedback senza essere messi in discussione:
- Il modello “fonte della verità” secondo il quale l’altro che ci osserva, ha la verità più o meno oggettiva sulla nostra prestazione. In realtà l’altro ha solo una percezione parziale, fallace e soggettiva ben lontana dalla verità assoluta. Se prendiamo ad esempio una competenza comportamentale tipica, “Visione d’insieme”, anche se essa viene declinata e descritta dai comportamenti correlati, è evidente che arrivare ad una percezione precisa e misurabile è praticamente impossibile. Questa fallacia diventa evidente nei sistemi di feedback a 360°, che mettendo insieme numerose percezioni, ci danno l’illusione di arrivare ad una buona approssimazione media. L’errore di fondo però resta quello di pensare che facendo la media tra percezioni distorte da un insieme di bias, possiamo arrivare a qualcosa di preciso.
- Il modello “colmare i gap attraverso l’apprendimento”. Secondo questo modello ci sono competenze target per ogni ruolo e quelle non possedute vanno apprese. Si è tuttavia più recentemente scoperto che le connessioni neuronali si generano soprattutto dove sono presenti già altre connessioni, più difficile diventa crearne di nuove. Quando il cervello riceve un feedback positivo il segnale ricevuto è che qualcuno apprezza ciò che stiamo facendo e questo crea la possibilità di generare nuove connessioni e di apprendere. Il feedback negativo produce invece l’attivazione della modalità di sopravvivenza “fight or flight” e lo stress generato non solo non produce apprendimento ma lo riduce. Questo risultato è contro intuitivo rispetto a tanti slogan sulla necessità di “abbandonare la propria area di comfort”: al contrario, l’apprendimento, la creatività, la produttività si generano al suo interno o con un accompagnamento attento ad attraversare la zona “modalità di sopravvivenza”, non giusto lasciando la persona con il feedback negativo.
- Il terzo modello mentale è la “teoria dell’eccellenza” secondo la quale c’è un modo eccellente per raggiungere obiettivi. Ed anche questo assunto è facilmente smontabile. C’è un modo eccellente quando i compiti sono ripetitivi e meccanici ma in contesti complessi diventa difficile arrivare a selezionare una via unica all’eccellenza. Ancor più vano, secondo i ricercatori, pensare di arrivare all’eccellenza attraverso la correzione dei fallimenti, che porta, forse, allo sviluppo di una prestazione adeguata, dato che l’eccellenza per le diverse persone assume diverse forme. Togliere la soggettività alla prestazione non porta dunque ad una presunta “eccellenza oggettiva”.
Cosa fare dei risultati di queste ricerche? Smettere di dare feedback correttivo?
La risposta, confortata dalle ricerche sugli effetti del feedback “informativo” che si dà per correggere l’operatività, è sicuramente “no”: essendo un feedback che viene dato per correggere azioni concrete, immediatamente comprensibile dal ricevente, possiamo continuare a darlo – con tutte le precauzioni del caso. Un feedback circostanziato, focalizzato sull’azione specifica, il più possibile vicino al momento nel quale l’errore è stato percepito. Questo tipo di feedback non viene percepito minacciante, spostando l’attenzione dalle emozioni negative dovute all’errore commesso, al compito ed al bisogno di svolgerlo correttamente. E’ quindi utile a fornire informazione che permette di correggere l’errore.
Il feedback che mira invece a correggere comportamenti più complessi, quali quelli legati alle skills relazionali, deve invece essere maneggiato con più attenzione.
In particolare, pensando ai tre modelli mentali messi in evidenza dalle ricerche, che producono la “feedback fallacy” chi dà feedback potrà:
- Adottare un atteggiamento “umile” e di apertura ad una storia diversa che emerge: si tratta di una percezione, non della verità, potremmo non aver colto tutta la complessità dell’azione;
- Sottolineare i punti di forza. Questo contribuisce a consolidare gli apprendimenti all’interno dell’area di comfort delle persone ed a rinforzare quello che sanno fare bene, in particolare se fatto nel momento nel quale vediamo il talento delle persone esprimersi. “Si’ è esattamente questo!!” detto nel momento nel quale l’eccellenza accade funziona molto meglio di una descrizione oggettiva ed impersonale di quello che dovrebbe essere;
- Partire da sé e non dall’altro o dall’altra. A cosa quello che stiamo vedendo ci fa pensare, come lo riceviamo, quali emozioni ed interpretazioni diamo rispetto a quanto succede e anche cosa avremmo fatto di diverso; su questo la matrice della parola generativa, (andate al link che trovate all’interno di questo blog), può fornire utili spunti pratici per questa conversazione;
- Aiutare la persona a connettere il passato, il presente, il futuro. La Teoria U, che ha alla base proprio questa capacità, dal presente, di essere in connessione ed in continuità con passato e futuro, può rivelarsi un frame davvero utile per evitare il “downloading” e invece orientare il feedback al futuro che desideriamo costruire insieme.
- Infine, una possibilità, più nell’ordine del management della diversità e oltre, della cittadinanza organizzativa, consiste nel comporre le squadre con persone che portano differenza: persone diverse per competenze, stili cognitivi, provenienza, genere, età, etc. in modo da poter rinforzare i punti di forza di ciascuna e ciascuno e fare leva sulla complementarità delle competenze piuttosto che fare immani sforzi per crearle là dove è più difficile.
Migliorare le scelte con il discernimento
Oggi ho pranzato con un amico, direttore di un'azienda, che si lamentava di non aver avuto altra scelta se non quella di accettare un taglio di prezzo imposto da uno dei suoi maggiori clienti. Sarà perciò costretto a esternalizzare parte della sua attività in Paesi nei quali i costi di produzione sono più ridotti.
Questo è completamente contrario ai suoi valori e a ciò che vuole costruire. Il suo desiderio sarebbe piuttosto quello di stabilire la sua azienda in Francia e di lavorare con fornitori di cui può conoscere con precisione le condizioni di lavoro sociali e ambientali.
Chi di noi, per quanto fortemente convinto, non ha sperimentato questa incoerenza tra i nostri ideali più profondi e le nostre decisioni, con la convinzione di non avere altre scelte possibili?
La conversazione con il mio amico è proseguita. Gli ho chiesto: "Oggi dici di non avere scelta.... E se potesse scegliere, cosa faresti?"
Torniamo al processo che ci porta a prendere la decisione.
Una decisione comporta una scelta tra almeno un'opzione A e un'opzione B, ed eventualmente più opzioni.
Nel caso del mio amico, può scegliere di rifiutare la riduzione di prezzo o di accettarla. Se rifiuta, ci saranno alcune conseguenze per la sua attività, ma quali sono? Forse sarà costretto a diversificare la clientela, a sviluppare soluzioni innovative, a trovare nuove partnership...
E' una scelta importante...e c'è una domanda, dietro sulla quale è importante riflettere.
Si sta veramente prendendo del tempo, per fare questa scelta?
Senza scelta, non c'è una vera decisione libera, perché non si può fare discernimento.
Che cosa significa questa parola e perché è così poco usata nel nostro vocabolario contemporaneo?
Discernere deriva dalla parola krisis: giudizio, e dal latino discernere: separare.
Il discernimento è un processo che comporta sia l'analisi della situazione, sia la formulazione di una domanda o di un problema che merita un giudizio e una decisione, sia l'attuazione di un processo di deliberazione su questa domanda e la decisione finale.
Ci stiamo dando la possibilità di scegliere e quindi di discernere?
Ci poniamo la domanda: posso scegliere tra la costruzione di una piscina o un'altra alternativa, come la progettazione di un giardino ecologico, estetico e ricreativo per i miei figli? Posso scegliere tra andare in Giappone o sperimentare un vero cambiamento di scenario e incontri profondi intorno a casa mia?
Spesso siamo molto condizionati dall'ambiente in cui viviamo, dalle ingiunzioni mascherate dalle pubblicità. Possiamo ritrovare una certa libertà interiore offrendoci questo tempo di discernimento, facendo una vera scelta con due alternative positive che ci fanno venire voglia di andare.
Il discernimento consisterà quindi nell'analizzare razionalmente ciò che ogni scelta apporta a me personalmente, alla mia famiglia, al mio ambiente e dove allenta queste stesse dimensioni, senza pregiudicare la risposta. Se un'attrazione spontanea mi indirizza verso l'uno o l'altro, ho la possibilità di rallentare e di prendere il tempo di fare un'analisi razionale delle varie opzioni.
Una volta effettuata l'analisi, allora posso aprirmi all'esplorazione delle emozioni che ogni opzione mi procura. Ad esempio immaginando di vivere questa o quella opzione e prestando attenzione a quali emozioni questa genera in me.
Se un'opzione mi dà più energia, dinamismo e vita, potrebbe essere che sia più in linea con me stesso e con il mio progetto.
Se, al contrario, genera in me una mancanza di energia, un freno, una mancanza di vitalità e di dinamismo, allora forse potrebbe allontanarmi da ciò che desidero profondamente.
Veloce non significa necessariamente buono ed efficiente. Prendersi del tempo per contemplare la nostra realtà, per sentire ciò che ci dice e per fare una scelta reale stando attenti ai nostri stati d'animo interiori è uno strumento prezioso per decidere con vera libertà.