Ma davvero parla di me? Storytelling e bias del sopravvissuto
Cominciamo questo post raccontandovi una storia, per parlare di un bias che riguarda proprio il fatto di raccontare storie, ma anche per parlare di come il rischio di una visione meccanica della realtà può farci andare fuori strada.
Durante la seconda guerra mondiale, in UK un gruppo di ricercatori si trovò di fronte al problema di come riprogettare gli aerei in modo da minimizzarne le perdite. L’idea di partenza era quella di analizzare gli aerei ritornati alla base, se pur colpiti da proiettili nemici. Analizzandoli i ricercatori scoprirono che i proiettili avevano colpito soprattutto le ali e la coda, traendone la conclusione che queste parti andavano rinforzate perché più esposte di altre.
Fortunatamente Abrham Wald, un matematico che partecipava al progetto, prima che il gruppo incominciasse ad intervenire sugli aerei, ebbe un’intuizione: al campione mancava la parte fondamentale, quella degli aerei abbattuti. Andando ad osservare gli aerei non ritornati si poteva infatti trovare una pista interessante per la riprogettazione: era il motore ad essere la parte debole, non la coda o le ali! Gli aerei caduti, cruciali per capire le vere ragioni della vulnerabilità, non erano presenti perché non ritornati.
Il bias del sopravvissuto è un tipo di bias che impatta la selezione del campione da considerare come significativo analizzando un fenomeno. Si verifica quando un individuo scambia un sottogruppo di successo visibile con l'intero gruppo. In altre parole, dimentichiamo di considerare tutti i dati su coloro che non ce l’hanno fatta.
Il bias del sopravvissuto, oltre che una grande lezione su quanto sia importante formare dei campioni consistenti, quando vogliamo davvero comprendere un fenomeno, è un buon punto di partenza per ascoltare in modo critico i vari storyteller e guru che ci raccontano storie di successo: «come ho fatto il mio primo milione di euro» «come ho fondato la start up che ha levato 20 milioni di fondi» «come ho inventato il prodotto rivoluzionario» etc. Ma questo storytelling non ci permette di ascoltare anche le storie di tutte le altre persone alle quali non è riuscito di lanciare la propria start up, di ottenere enormi finanziamenti, di arricchirsi, non dà elementi per riferirci anche alle “worst practices”.
Questo non è il solo limite dello storytelling, esiste anche un altro rischio che possiamo correre quando prendiamo le storie raccontate dai e dalle role-model partendo da una visione meccanicistica della realtà.
Su un progetto di Diversity & Inclusion sul genere, potrebbe per esempio sembrare un’ottima idea quella di elezionare una donna e raccontarne la storia con l’intento di motivare altre a seguire il cammino tracciato. Ma questo esercizio rischia di farci perdere di vista che ci sono elementi specifici SOLO di questa storia che non si trovano nelle altre storie: quali condizioni specifiche nel contesto nel quale la persona agiva, quindi ad esempio quale cultura organizzativa, ma anche quali condizioni interne, quali schemi mentali ha dovuto superare. Nel role-modelling si rischia quindi di non tenere conto del fatto che gli investitori prestano meno alle donne, alle persone più povere etc.
Insomma l’esercizio rischia di essere ispirante sul momento ma, scollegato dal contesto e dal sistema nel quale la persona ha agito, di lasciare le persone che ascoltano con l'illusione di poter declinare acriticamente la storia nel proprio contesto. Per dirla in un altro modo, individuando le cause del successo nell'individuo, ci rendiamo conto delle cause contestuali e sistemiche, che spesso sono molto più strutturali per il risultato rispetto all'eroismo personale. Inoltre nel caso degli aerei la risoluzione del problema è relativamente semplice e meccanica: una volta che scoperto nel campione il bias del sopravvissuto poi si può facilmente intervenire sulle vere ragioni e rinforzare la parte del motore.
Ma se prendiamo il caso della riuscita personale o professionale, e ad esempio nella storia raccontata la persona ci dice che ha dovuto imparare ad avere fiducia in se stessa, a negoziare con investitori scettici etc, possiamo davvero pensare che una volta ascoltata poi si inneschi un cambiamento immediato? Questi fattori richiedono infatti molto tempo per evolvere, e non seguono un semplice schema insight -> risoluzione.
Al contrario, la trasformazione dei propri schemi psichici invalidanti richiede qualcosa di più che la semplice consapevolezza di averli; richiede un lavoro interiore che non si risolve con un semplice click. Nel caso degli aerei siamo in un sistema, se pur con tante variabili, semplice: l’intuizione che il campione è da rivedere ci basta per risolvere il problema. Quando applichiamo questo bais al caso, ad esempio, di una start-up agiamo invece in un sistema complesso e molto meno automatico, nel quale diventa più difficile, anche una volta ascoltata la storia mancante, quella dei e delle “non sopravvissute” innescare davvero un cambiamento complesso.
Dobbiamo quindi concludere che queste pratiche sono inutili? Assolutamente no! Anzi è importante dare visibilità a queste storie e continuare ad ascoltarle ed a raccontarle. Così come è importante raccontare anche le storie dei fallimenti, di coloro che non hanno avuto successo, non hanno ottenuto il finanziamento, non hanno lanciato la start up.
Raccontare le storie il più possibile intere, fornendo gli elementi di contesto ma anche facendone un’analisi razionale per capire ciò che è applicabile alla nostra, di storie, e cosa ci insegna rispetto al nostro contesto, alle nostre risorse, cosa la storia che abbiamo ascoltato mette in luce rispetto ai nostri modelli mentali, senza pensare di poterla riprodurre in maniera acritica. Chissà, potrebbe anche indicare altri punti di leva strutturali che devono essere attivati prima che i singoli individui possano davvero sbocciare, per quanto possano aspirare a essere eroici...
Modelli mentali, razzismo sottile e cioccolato: una rivelazione
Il contesto è una riunione internazionale e multietnica con una ventina di partecipanti di una organizzazione, con l’obiettivo di riconnettersi al suo purpose, per poter poi impostare le attività dei prossimi mesi e di nominare la leadership adatta ad accompagnare il futuro che emerge.
La lingua ufficiale dell’incontro è il francese: si è stimato che tutti i membri del gruppo lo parlino sufficientemente bene da poter seguire senza problemi. Viene offerta una traduzione sporadica e spontanea “a bisogno” dal portoghese al francese ma non viceversa, organizzata tra i partecipanti.
La modalità d’animazione prevede che al termine delle giornate di lavoro collettivo, vengano organizzate delle sessioni serali di debriefing di un’ora, un piccolo gruppo parte del grande, chiamato “Comitato di coordinamento”. Il gruppo ha l’obiettivo di rivedere i contenuti ed i temi emersi, ma soprattutto di essere luogo di analisi delle dinamiche di grande gruppo accadute durante la giornata per collegarle con le dinamiche del più ampio sistema, ed elaborare, per i giorni successivi, delle proposte di lavoro coerenti.
Il “Comitato di coordinamento” è composto di 4 membri fissi e due variabili, membri del grande gruppo che si offrono di partecipare, su base volontaria, all’inizio di ogni giornata. Un componente “fisso” del Comitato, scherzando sul fatto che la sera prima durante il Comitato di coordinamento” si era consumanto molto cioccolato, e con l’intenzione di incoraggiare la venuta dei due volontari dal grande gruppo scherza “E poi ci sarà un fattore di compensazione, consumeremo molto cioccolato”.
Uno dei membri del grande gruppo, una giovane ragazza proveniente da un paese africano, Louisa, dopo questa battuta appare evidentemente perturbata e resta in silenzio. Si trovano infine i due volontari e la giornata prosegue esplorando il tema “Quale leadership è necessaria per guidare i prossimi anni?”. Improvvisamente Louisa sbotta, in portoghese “non mi sono offerta di far parte del Comitato, stamattina perché ho capito che i membri volontari sarebbero stati trattati come il cioccolato e mangiati dai membri del gruppo come ricompensa”.
Parecchi anni fa, durante un lavoro allora pioniere, sull’emergere di modelli di leadership alternativi (allora era chiamato “Emergenza della leadership femminile” un titolo che oggi non userei più) che realizzavamo in una grande banca, avevamo utilizzato il termine “alterfagia” per descrivere una delle resistenze collettive al cambiamento, manifestate durante il progetto.
L’Alterfagia descrive il tentativo di trasformare l’altro manipolandolo, trasformandolo in un oggetto, assimilandolo a sé attraverso il fatto di “mangiarlo”, negandone in questo modo la differenza. Per la banca per la quale lavoravamo l’alterfagia si manifestava in diversi tentativi di assimilare le donne dentro il modello di leadership basato su stereotipi maschili che era al tempo dominante.
Nel caso del “cioccolato” un membro dello staff fa una battuta, non avente nessuna intenzione di esculdere o di insultare. Questa battuta pero’ viene fraintesa in un modo particolare, tra i tanti fraintendimenti possibili, che tocca una dinamica organizzativa presente da anni nell’organizzazione, che riguarda la leadership ed il sentimento, da parte delle persone in Africa in particolare, che ci sia una testa pensante europea (e bianca) ed un braccio operativo nel sud del mondo (nero) che subisce un processo di colonizzazione. Questa dinamica fa si’ che le persone in Africa non siano mai prese in considerazione nella rosa dei candidati a guidare il gruppo.
Il “fraintendimento del cioccolato” ha permesso al gruppo di esplicitare qualcosa di molto difficile da dire, in particolare il sentimento di inferiorità provato da una parte dei suoi membri, la percezione di esclusione da certi ruoli, e questo non in base a competenze più o meno possedute ma in base a caratteristiche personali, quali il colore della pelle ed la provenienza geografica.
Ha permesso anche alla parte europea, identificata come “colonizzatrice” del gruppo, di riflettere su quanto (inconsciamente) agito, riflessione che, a causa di un sentimento strisciante di vergogna che è emerso durante gli scambi generati dall’analisi della metafora, che non era ancora stata fatta fino in fondo.
Lo spazio che si è aperto quando abbiamo offerto la possibilità di fermarsi ad esplorare meglio quanto successo ha permesso un dialogo profondo, autentico, commovente su quanto sperimentato per anni da una parte del gruppo.
Dopo una prima reazione quasi violenta, minimizzatrice il gruppo si è aperto infatti alla possibilità di arricchire la metafora del “cioccolato”, di fare altre associazioni oltre quelle che erano state offerte dallo staff per andare più lontano.
Si è aperto un momento di profonda esplorazione dei modelli mentali, della loro funzione, dei loro limiti e delle conseguenze che questi possono avere sulle persone e sulle performance, che ha permesso una sana rigenerazione, in vista delle nomine del nuovo gruppo di leadership.
Le differenze etniche, il caso di una conversazione spinosa
La conversazione sulle differenze etniche non è mai facile, all’interno di un gruppo. D’altra parte, dopo il movimento #blacklivesmatter, avere questo tipo di conversazioni ed agire di conseguenza è diventata una necessità ed un punto di partenza per creare ambienti organizzativi nei quali equità ed appartenenza possano acquisire un senso concreto, al di là delle dichiarazioni di intenti e degli hashtag sui social.
Mi capita spesso di osservare, nei gruppi per i quali lavoro, che quando si arriva a nominare il razzismo vissuto da una parte dei membri, dopo un primo momento nel quale si riesce a fare un passo di consapevolezza, diventa poi molto difficile proseguire davvero la conversazione e chiedersi cosa fare concretamente. E’ come se una specie di gelo imbarazzato arrivasse nella stanza.
Nella mia esperienza quello che è difficile è da un lato parlare delle proprie emozioni e dei propri vissuti sul tema e dall’altro non lasciare i sensi di colpa e la vergogna prendere tutto lo spazio nella relazione e rendere impossibile uno scambio che sia davvero trasformatore.
Questa settimana mi sono trovata più o meno in questa situazione, insieme al gruppo con il quale stavo lavorando. Dopo molti tentativi di evitare il tema, il gruppo finalmente era riuscito a nominare una grande fonte di conflitto che era restata latente fino a quel momento, “l’elefante nella stanza”: il fatto che una parte dei suoi membri, di etnia afro-americana, si sentisse sistematicamente esclusa dai luoghi di decisione, le loro voci dimenticate o comunque non ascoltate.
Ho cercato più volte di rilanciare il tema ma ogni volta il gruppo pur riconoscendo che era importante parlarne ed agire di conseguenza, trovava il modo di deviare verso altri temi.
Una delle cause possibili di questa dinamica è quella che che viene chiamata “white fragility”, descritta nel bel libro dallo stesso titolo di Robin DiAngelo: si tratta dello stress provato dai bianchi, nell’avere questo tipo di conversazioni, nell’atteggiamento difensivo che viene assunto quando si tratta di parlare di razzismo nell’incapacità di elaborare informazioni ricevute su questo tema.
La “fragilità bianca” può scatenare emozioni molto forti come rabbia, paura, vergogna. Ma anche “benaltrismo” tentativo di spostare l’attenzione su altre forme di discriminazione, minimizzazione, quando si cerca di togliere importanza al problema con accuse di esagerazione e di eccessiva suscettibilità fatte alla parte lesa, esattamente quello che stava succedendo nel gruppo col quale stavo lavorando.
Mi sono chiesta come arrivare ad avere una conversazione aperta, quali barriere la impedivano e mi sono detta che forse i diversi tentativi per parlare di questa dinamica così viscerale in modo razionale non toccavano le giuste corde e che la strada giusta per iniziare una conversazione profonda era quella del corpo.
Ho proposto al gruppo , al posto del rituale check in di inizio sessione, di comporre una statua vivente, usando alcuni spunti del Social Presencing Theater insieme ad alcune tecniche di psicodramma. Ho chiesto ad un sotto gruppo di volontari di interpretare, ciascuno, i seguenti personaggi: i clienti, la casa madre in Europa, le persone Europee del gruppo, i membri afro-americani, il gruppo di leadership, i membri europei, l’Europa, il Sud del Mondo. Il resto dei membri del gruppo facevano da spettatori.
I volontari hanno incominciato a muoversi nello spazio ed ho chiesto loro, una volta che si sentissero pronti, di formare una scultura vivente che rappresentasse la situazione attuale. Una volta formata la scultura “situazione attuale” ho poi chiesto loro di esprimere le loro emozioni ed i loro pensieri da questa posizione.
L’esercizio, che era cominciato con alcune risate, è continuato in un silenzio totale. Il gruppo sembrava profondamente coinvolto e la statua vivente che i membri hanno formato era una rappresentazione potente e chiara della dinamica di esclusione in corso.
Poi i volontari componenti della scultura hanno incominciato ad esprimersi. La frase “Mi sento soffocare, sento che non ho voce, vorrei poter parlare ed essere ascoltata, vorrei poter accedere a ruoli di potere, non solo ascoltare” con il suo rimando alla morte atroce di George Floyd, ha prodotto grande commozione nell’uditorio.
La persona che interpretava il gruppo di leadership ha rappresentato la situazione attuale con un braccio, messo affettuosamente (ma anche paternalisticamente) sulla spalla dei membri afro-americani.
Una volta che tutti i membri si sono espressi ho chiesto loro di far evolvere la scultura per rispondere al nuovo purpose che il gruppo si era dato per il futuro, sciogliendo i nodi e gli schemi mentali, in particolare la dinamica in-out group, che avrebbero impedito loro di creare un’alleanza autentica per raggiungere i loro obiettivi.
La conclusione dell’esercizio è stata una elaborazione collettiva, a partire dalla domanda “cosa è cambiato in me avendo assistito a questo esercizio?” che ha permesso a ciascuno di esprimere punti di vista e vissuti. Molti membri del gruppo hanno potuto esprimere la vergogna, il dolore, le ferite inferte da questa dinamica di esclusione.
Il risultato è stato un impatto radicale sui piani di azione che erano stati prodotti nei giorni precedenti, cha ha tenuto conto di questo momento collettivo di trasformazione, per riformularli con l’obiettivo di rigenerare le relazioni ed in questo modo rigenerare l’appartenenza per tutti. Il gruppo di leadership che si è formato in seguito ha potuto, finalmente, includere anche coloro che fino ad allora erano stati esclusi.
Feedback? No grazie!
Antonio, direttore marketing di una multinazionale, è un convinto sostenitore della prassi di “feedback continuo” che è stata recentemente introdotta nel ciclo del performance management. Antonio pensa che, proprio attraverso il feedback, sia possibile far crescere le soft skills delle sue collaboratrici e collaboratori, non solo le loro capacità tecniche. Per questo non perde occasione di avere colloqui individuali per restituire il suo sguardo sulla loro assertività, sull’empatia dimostrata nelle relazioni, sulle loro capacità di leggere i bisogni di clienti interni ed esterni. Questi colloqui, settimanali, cominciano con una serie di feedback detti “di miglioramento”, dati sulle parti di prestazione che non hanno soddisfatto Antonio, finendo con una serie di feedback di rinforzo, sulle parti di prestazione che si sono rivelate efficaci. Antonio è sicuramente un manager capace ed esemplare, e la pratica del feedback va sicuramente incoraggiata - penso a quante persone mi è capitato di incontrare, nelle organizzazioni, che non hanno alcuna idea di ciò che le e i loro manager vedono della loro prestazione. Alla luce di un interessante articolo, apparso nel 2019 su HBR, firmato dai ricercatori Marcus Buckingham e Ashley Goodall di ADP possiamo chiederci se questa pratica continua è davvero benefica per l’apprendimento delle persone.
Questo blogpost esplorerà alcune domande, a partire dalle pratiche osservate e dalla letteratura sul tema ed in particolare: il feedback continuo aumenta sempre la nostra consapevolezza? Ci fa sempre crescere? E’ sempre generatore di apprendimento? Fornendo, nella parte finale, alcuni spunti pratici di gestione.
Queste domande richiamano alcune convinzioni ed abitudini di pensiero rispetto al feedback, derivanti in gran parte da modelli ereditati da un passato nel quale il livello di conoscenze scientifiche non aveva ancora permesso la comprensione interdisciplinare dei suoi effetti che incominciamo ad avere oggi, anche grazie alla IRM. Penso, ad esempio, ad un modello che amo molto, la famosa Finestra di Jo-Hari, creata da Joseph Luft e Harrison Ingham, che prende il nome proprio dalle iniziali dei suoi creatori. E a quanto mi è sempre piaciuto condividere con allievi e partecipanti di corsi di formazione una storia quasi magica sul fatto “johari” in sanscrito vuole dire “colui che possiede tesori e gioielli” (credo letto in una nota del saggio “Soggettività” di Enzo Spaltro). Questo significato nascosto e misterioso mi è sempre sembrato una magica metafora di quanto sia preziosa l’attività di dare e ricevere feedback per aggiungere pezzi preziosi alla nostra identità, che altrimenti non avremmo modo di integrare.
Ma alcune recenti scoperte, in particolare sul feedback negativo, ci mostrano come pensare di raggiungere sempre un obiettivo di crescita personale e professionale attraverso il feedback possa rivelarsi ingannevole. È la “feedback fallacy” esplorata attraverso diverse ricerche da Buckingam e Goodall. Ad esempio, secondo una ricerca del loro istituto ADP sui bisogni della generazione Millenial, si confonde la richiesta di più attenzione, con quella di “più feedback”. In realtà il bisogno sottostante sarebbe piuttosto quello di un pubblico che sia attento a loro, come succede quando nei social network quando si ricevono stelline, cuoricini, like. Quindi, quando si adottano processi di “trasparenza radicale” o “feedback duro” che consistono a mettere le persone al centro di un flusso continuo di feedback, negativi o positivi, si risponde in maniera discutibile ad un bisogno presente. Infatti, se il feedback negativo “procedurale”, quello di correzione di errori operativi, ci aiuta a correggerci ed è sempre utile, il feedback totale che descrive la prestazione attraverso punti di forza e di debolezza anche su aree comportamentali quali assertività, propensione al rischio, visione d’insieme, empatia etc. presenta il rischio di essere addirittura dannoso e vedremo come.
Buckingam e Goodall nella loro ricerca hanno individuato tre modelli mentali, tre bias, che guidano il nostro uso del feedback senza essere messi in discussione:
- Il modello “fonte della verità” secondo il quale l’altro che ci osserva, ha la verità più o meno oggettiva sulla nostra prestazione. In realtà l’altro ha solo una percezione parziale, fallace e soggettiva ben lontana dalla verità assoluta. Se prendiamo ad esempio una competenza comportamentale tipica, “Visione d’insieme”, anche se essa viene declinata e descritta dai comportamenti correlati, è evidente che arrivare ad una percezione precisa e misurabile è praticamente impossibile. Questa fallacia diventa evidente nei sistemi di feedback a 360°, che mettendo insieme numerose percezioni, ci danno l’illusione di arrivare ad una buona approssimazione media. L’errore di fondo però resta quello di pensare che facendo la media tra percezioni distorte da un insieme di bias, possiamo arrivare a qualcosa di preciso.
- Il modello “colmare i gap attraverso l’apprendimento”. Secondo questo modello ci sono competenze target per ogni ruolo e quelle non possedute vanno apprese. Si è tuttavia più recentemente scoperto che le connessioni neuronali si generano soprattutto dove sono presenti già altre connessioni, più difficile diventa crearne di nuove. Quando il cervello riceve un feedback positivo il segnale ricevuto è che qualcuno apprezza ciò che stiamo facendo e questo crea la possibilità di generare nuove connessioni e di apprendere. Il feedback negativo produce invece l’attivazione della modalità di sopravvivenza “fight or flight” e lo stress generato non solo non produce apprendimento ma lo riduce. Questo risultato è contro intuitivo rispetto a tanti slogan sulla necessità di “abbandonare la propria area di comfort”: al contrario, l’apprendimento, la creatività, la produttività si generano al suo interno o con un accompagnamento attento ad attraversare la zona “modalità di sopravvivenza”, non giusto lasciando la persona con il feedback negativo.
- Il terzo modello mentale è la “teoria dell’eccellenza” secondo la quale c’è un modo eccellente per raggiungere obiettivi. Ed anche questo assunto è facilmente smontabile. C’è un modo eccellente quando i compiti sono ripetitivi e meccanici ma in contesti complessi diventa difficile arrivare a selezionare una via unica all’eccellenza. Ancor più vano, secondo i ricercatori, pensare di arrivare all’eccellenza attraverso la correzione dei fallimenti, che porta, forse, allo sviluppo di una prestazione adeguata, dato che l’eccellenza per le diverse persone assume diverse forme. Togliere la soggettività alla prestazione non porta dunque ad una presunta “eccellenza oggettiva”.
Cosa fare dei risultati di queste ricerche? Smettere di dare feedback correttivo?
La risposta, confortata dalle ricerche sugli effetti del feedback “informativo” che si dà per correggere l’operatività, è sicuramente “no”: essendo un feedback che viene dato per correggere azioni concrete, immediatamente comprensibile dal ricevente, possiamo continuare a darlo – con tutte le precauzioni del caso. Un feedback circostanziato, focalizzato sull’azione specifica, il più possibile vicino al momento nel quale l’errore è stato percepito. Questo tipo di feedback non viene percepito minacciante, spostando l’attenzione dalle emozioni negative dovute all’errore commesso, al compito ed al bisogno di svolgerlo correttamente. E’ quindi utile a fornire informazione che permette di correggere l’errore.
Il feedback che mira invece a correggere comportamenti più complessi, quali quelli legati alle skills relazionali, deve invece essere maneggiato con più attenzione.
In particolare, pensando ai tre modelli mentali messi in evidenza dalle ricerche, che producono la “feedback fallacy” chi dà feedback potrà:
- Adottare un atteggiamento “umile” e di apertura ad una storia diversa che emerge: si tratta di una percezione, non della verità, potremmo non aver colto tutta la complessità dell’azione;
- Sottolineare i punti di forza. Questo contribuisce a consolidare gli apprendimenti all’interno dell’area di comfort delle persone ed a rinforzare quello che sanno fare bene, in particolare se fatto nel momento nel quale vediamo il talento delle persone esprimersi. “Si’ è esattamente questo!!” detto nel momento nel quale l’eccellenza accade funziona molto meglio di una descrizione oggettiva ed impersonale di quello che dovrebbe essere;
- Partire da sé e non dall’altro o dall’altra. A cosa quello che stiamo vedendo ci fa pensare, come lo riceviamo, quali emozioni ed interpretazioni diamo rispetto a quanto succede e anche cosa avremmo fatto di diverso; su questo la matrice della parola generativa, (andate al link che trovate all’interno di questo blog), può fornire utili spunti pratici per questa conversazione;
- Aiutare la persona a connettere il passato, il presente, il futuro. La Teoria U, che ha alla base proprio questa capacità, dal presente, di essere in connessione ed in continuità con passato e futuro, può rivelarsi un frame davvero utile per evitare il “downloading” e invece orientare il feedback al futuro che desideriamo costruire insieme.
- Infine, una possibilità, più nell’ordine del management della diversità e oltre, della cittadinanza organizzativa, consiste nel comporre le squadre con persone che portano differenza: persone diverse per competenze, stili cognitivi, provenienza, genere, età, etc. in modo da poter rinforzare i punti di forza di ciascuna e ciascuno e fare leva sulla complementarità delle competenze piuttosto che fare immani sforzi per crearle là dove è più difficile.
Donne in un mondo di uomini: La trasformazione delle dinamiche di genere attraverso il recupero delle identità
Qualche settimana fa qualcuno ci ha scritto su Linkedin dicendo che aveva molto apprezzato un nostro articolo, pubblicato nel 2008 su Organizational & Social Dynamics.
Siamo andati a riprenderlo e abbiamo deciso di ripubblicarlo sul blog. Certo ha preso un po' di anni e ci sono state molte evoluzioni. Alcune parti oggi, penso, tra tutte, la sfumatura che avevamo tenuto intorno a "natura o cultura" che oggi scriveremmo sicuramente in modo più deciso e consistente da un punto di vista teorico.
Ma c'è qualcosa che resta per noi molto presente nel lavoro sulla diversità nelle organizzazioni ed è intorno al tema del riconoscimento delle identità, del tentativo inconscio di appiattirle, di lisciarle, l'alter-phagia di cui parliamo nell'articolo e della vergogna che rischia, quando non riconosciuta, nominata, gestita, di bloccare completamente la trasformazione.
Leggi l'articolo su Organizational & Social Dynamics
Othering
Questa mattina leggendo il giornale sono stata colpita da una notizia. Una famiglia di Palermo aveva accettato di accogliere profughi provenienti dall’Ucraina, in particolare studenti di economia e medicina. Quando i profughi sono arrivati, la famiglia si è resa conto che i due giovani venivano sì dall’Ucraina ma erano due studenti nigeriani che studiavano a Kiev, che stavano scappando dalla guerra e si è rifiutata di occuparsene. Come è passata la famiglia da una intenzione caritatevole, generosa, compassionevole come quella di accogliere a quella di respingere? Nell’articolo si ipotizzava che due fattori fossero alla base di questo comportamento: il colore della pelle e la provenienza.
In connessione con questo episodio, nel post di questa settimana vorremmo esplorare un concetto molto interessante, che genera tutta una famiglia di stereotipi, quello che una bella parola inglese definisce “othering” - che potremmo tradurre con “altro da sé” - traduzione alla quale manca la dinamica della parola inglese che, per questo, continueremo ad utilizzare nel post.
La nostra relazione con il mondo esterno consiste in una serie di atti valutativi continui, che ci permettono di formare categorie che, riducendo la complessità dei segnali che riceviamo, ci fanno costruire rappresentazioni della realtà approssimative e riduttive, che però hanno il grande vantaggio di consentirci di prendere decisioni veloci. Le categorie hanno un ordine gerarchico per cui la macro categoria poi può contenere una serie di sotto informazioni che le sono collegate.
Questa modalità del conoscere è stata necessaria per la nostra evoluzione, ci ha permesso di prendere decisioni veloci anche se approssimative attivando i meccanismi basilari di attacco/fuga. Queste categorie funzionano sia per la percezione dell’ambiente più in generale che per la percezione delle nostre relazioni con gli altri, attivando dei confini tra chi appartiene al nostro gruppo e chi no.
Il termine “othering” ci aiuta ad esplorare questo processo quando esso avviene a livello sistemico sulla base di una caratteristica (orientamento sessuale, genere, colore della pelle, disabilità, età…) attribuita collettivamente culturalmente agli “altri” e che diventa poi fonte di discriminazione, di ingiustizie, di conflitti, di guerre, di grandi sofferenze umane. Da un punto di vista politico è importante notare che il processo di othering è attivato da chi controlla le risorse, il gruppo dominante, che attraverso esso esclude gli “othered” dal potere distributivo, in un circolo vizioso di esclusione e perdita di risorse/potere che generano ancora più esclusione e così via.
Negli anni ’60 Mrs Jane Elliot, una insegnante dell’Iowa ha ideato un interessante esperimento a questo proposito. In una classe omogenea per colore e status sociale ha indotto una discriminazione basata sul colore degli occhi, creando artificialmente un gruppo dominante e un gruppo dominato all’interno della classe (potete trovare numerosi video su questi esperimenti su Youtube). Molto velocemente (una giornata) i bimbi dominanti hanno incominciato una escalation di esclusione e di violenza verso il gruppo dominato.
Mrs. Elliot ha ripetuto lo stesso esperimento nel corso degli anni con adulti e con altre classi, ottenendo sempre lo stesso risultato. L’obiettivo iniziale era di sperimentare una dinamica di esclusione tra un gruppo di persone “in-group”, con caratteri di omogeneità molto marcati. Ciò che è interessante, a proposito del processo di othering è che il pregiudizio, creato ad hoc dalla leadership del gruppo, ha preso piede dove era completamente assente, generando una spirale di violenza.
La comunicazione politica delle destre estreme sembra, tra gli altri, avere proprio questo obiettivo. Fare leva sulle paure, cercando poi di organizzarle, di manipolarle e di trarne vantaggi. Una comunicazione che ha come obiettivo di creare forme di “othering” là dove non esistevano, o di aumentare l’othering là dove era già latente.
Nel 2008 il gruppo di ricerca composto da Amy Cuddy,Susan Fiske e Peter Glick ha pubblicato una ricerca molto interessante intitolata “Competence as Universal Dimensions of Social Perception: The Stereotype Content Model and the BIAS Map”, nella quale era contenuto un modello di interazione tra individui e gruppi, basato su due dimensioni essenziali nella relazione umana: la percezione di calore – quanto l’altra persona mi è vicina, simile, simpatica etc, e la percezione di competenza. Incrociando le due dimensioni in una matrice si ottengono quattro categorie di relazione. Quella che ci interessa ora approfondire (per le altre rimandiamo alla ricerca) è quella dei gruppi percepiti come “basso calore, bassa competenza”.
In un’altra ricerca sui neuroni specchio che sono quelli che, lo ricordiamo, ci permettono l’empatia, si è dimostrato che nel cervello dei soggetti indagati la sofferenza di persone classificate nel gruppo “Disgust” non produceva alcun movimento di questi neuroni, dimostrando una totale assenza di empatia e compassione verso questi esseri umani. Quando nel processo di othering l’altro viene classificato come appartenente al primo quadrante in basso della matrice le sue sofferenze ci sono quindi completamente indifferenti.
E’ forse questo che è successo alla famiglia palermitana che ha rifiutato di accogliere i profughi? L’ipotesi può essere che, data la loro provenienza, i due giovani siano passati da “Simpatia e pietà” al quadrante sotto, generando il distacco emotivo della famiglia dalle loro sofferenze, se pur le stesse che avevano prodotto l’offerta di asilo quando portate dalla popolazione Ucraina immaginata bianca.
E’ questo processo che fa sì che i profughi di guerra siano distinti in categorie, e che per alcune di queste categorie, in particolare per coloro che muoiono quotidianamente cercando di attraversare il Mediterraneo, non ci sia compassione, ma anzi un dibattito sulla chiusura delle frontiere?
Nel bell’articolo “The problem of othering Towards inclusiveness and belonging” john a. powell e Stephen Menendian si chiedono quali risposte sistemiche dare all’othering (se il tema vi interessa non esitate a visitare il sito dell’università di Berkeley otheringandbelonging.org, ricchissimo di materiali).
I due autori analizzano le risposte sistemiche date fino ad ora, tutte creatrici di grande sofferenza umana oltre che di un insieme di altri problemi, in particolare
- la segregazione – negazione dell’umanità dell’altro, che separa artificialmente i gruppi che rischiano di confliggere, impedendone i contatti e l’accesso alle stesse risorse, come accade ad esempio nelle banlieues parigine, con il risultato in questo caso di portare alla radicalizzazione di alcune di esse;
- la secessione – destinare un territorio agli “altri”, arbitraria etichettatura sulla base di una sola dimensione che storicamente si è dimostrata funzionare raramente e che, dando per scontato l’omogeneizzazione sulla base di un criterio non considera che poi dentro i territori separati ci saranno altri “othering” all’opera;
- l’assimilazione – con il suo corredo di obblighi, per la parte dominata, di adeguarsi alla parte dominante rinunciando in toto alla sua cultura, lingua, religione…nella quale chi si assimila rinuncia ad elementi chiave della sua identità per continuare ad essere considerato “other”
La conclusione è che l’unica dinamica possibile che si contrappone all’othering è l’appartenenza. Non l’appartenenza concessa a posteriori, dopo che le risorse sono state distribuite, ma prima. L’appartenenza nella quale non si chiede all’altro di “fit in”, adeguarsi, ma quella che ha alla sua base un’idea di equità condivisa, nella quale le regole del gioco sono discusse insieme, non stabilite unilateralmente dalla parte che ha potere.
L’appartenenza che va oltre il concetto di inclusione, nella quale non c’è una parte che decide chi è dentro e chi è fuori, ma nella quale, insieme, utilizzando il dialogo, si stabilisce come vivere insieme. La leadership che serve questo scopo, la leadership dell’appartenenza ha come obiettivo la rigenerazione delle relazioni e, con esse, dei sistemi, esattamente come avviene in Natura.
Photocredit ©Reuters
"Manterrupting" – ma davvero dobbiamo ancora parlarne?
Il Manterrupting è un fenomeno descritto e divulgato ormai da molti anni. Da tanti anni esplorato, ridicolizzato, caricaturato, sezionato, analizzato. Solo cercando l’hashtag sui social network vengono fuori centinaia di esempi, di ricerche, di articoli che lo illustrano…perché allora parlarne di nuovo?
Marianne è una giovane dirigente in una multinazionale, arrivata in ruolo dopo essere stata inserita in un programma di sviluppo per alti potenziali. Durante una delle sessioni di coaching individuali incluse nel programma, Marianne arriva molto arrabbiata. Mi racconta che spesso le capita di partecipare a riunioni, con colleghi e livelli manageriali più alti del suo. Prima di queste riunioni si prepara scrupolosamente sui temi all’ordine del giorno, ma le capita spesso di partecipare e non riuscire a dare il suo contributo. In coaching mi racconta dell’ultima riunione. Mi dice che era su un tema che conosce molto bene, che aveva preparato tutta una serie di dati per contribuire alle decisioni, che ha cercato più volte di condividerli ma che alla fine ha dovuto rinunciare: è stata infatti interrotta praticamente subito quando ha iniziato a parlare.
Dagli anni '80 in poi, numerose ricerche in ambito universitario hanno iniziato ad evidenziare questo fenomeno, mostrando che le ricercatrici venivano interrotte molto più spesso dai loro colleghi maschi, per i quali, inoltre, il tempo di parola misurato era molto maggiore che per loro.
Interrompere qualcuno in una conversazione, di tanto in tanto, è normale: serve ad aggiungere informazioni, per riportare l'altra persona all'argomento, per mostrare accordo, per limitare la verbosità... Ma durante gli anni '90 si è continuato ad approfondire il fenomeno ed un’ipotesi incomincia ad emergere: non tutte le interruzioni sono uguali, alcune sono del tutto invadenti e, dietro di esse, c'è il desiderio, conscio o inconscio, di mettere in dubbio la legittimità della parola della persona che sta comunicando.
Le teorie sistemiche sulle relazioni (Gregory Bateson, P. Watzlawick), in particolare la descrizione dei diversi livelli della comunicazione umana, ci forniscono spunti interessanti per analizzare ciò che accade nel "manterrupting": c’è un livello di contenuto, nella comunicazione, che possiamo chiamare livello 1, in cui l'interruzione serve effettivamente ad aggiungere informazioni, esprimere un'opinione, far circolare la parola tra i partecipanti alla riunione. In questo livello possiamo analizzare il “cosa” si scambia nella comunicazione e renderci conto, per esempio, che effettivamente i contenuti aggiunti contribuiscono all’obiettivo della stessa.
C’è anche un livello 2, che definisce la relazione tra i partecipanti alla conversazione, inclusa la distribuzione del potere tra loro. E’ un livello nel quale possiamo analizzare il processo della comunicazione, il “come”. Una ricerca dell'Università di Princeton ha dimostrato che il manterrupting è, per gli uomini che lo praticano, piuttosto un modo di ristabilire relazioni di potere che sentono minacciate dalle donne. E’ come se, interrompendo, la comunicazione passata implicitamente all’altra parte fosse “guarda quello che tu dici non è importante, perché tu non sei importante”. Se interrompere avendo presente gli obiettivi della comunicazione (il perché) può rivelarsi utile, il manterrupting è disfunzionale perché il suo obiettivo inconsapevole non è arricchire la conversazione ma semplicemente esercitare il proprio potere, che si sente minacciato.
L’azienda di Marianne ha, come succede in molte aziende, programmi intorno alla DE&I ed agli unconscious bias di genere. Nelle dichiarazioni del top management riguardo la cultura ed i valori dell’azienda c’è quindi la volontà di andare verso una condizione di equità, nella quale il genere non debba influire sulle competenze o sulle relazioni professionali, ma il focus sia sulle performance. E’ la teoria “dichiarata” che dovrebbe definire ciò che le persone dovrebbero fare per produrre risultati.
Ma se analizziamo il caso di Marianne dentro lo schema relazionale descritto più sopra, ci rendiamo conto che, in maniera inconsapevole la “teoria in uso” (ciò che accade veramente, al di là delle dichiarazioni) è ben diversa. I colleghi di Marianne inconsciamente (o consciamente?) operano nel senso di ristabilire una relazione di potere su di lei, interrompendola durante le riunioni.
Negli intenti, si cerca di operare un cambiamento, stimolando le donne ad “osare”, a prendere i loro spazi: all’interno del programma talenti stesso, nel quale Marianne è inserita, ci sono moduli sulla leadership delle donne. Ma dietro il manterrupting c’è una spinta viscerale, un’occupazione patriarcale del territorio che non tollera essere messa in discussione. Il silenzio di Marianne corrisponde ad una accettazione implicita delle regole del gioco. Il modello mentale culturale del potere maschile non deve essere messo in discussione.
Perché, dopo tanti anni e tante dichiarazioni, la parità di genere sembra ancora così lontana?
C'è un primo passo, molto importante, che è stato fatto. Quello di nominare il fenomeno e descriverlo per dare chiavi di lettura ad una realtà spesso inspiegabile, per donne e uomini, e non solo sul posto di lavoro. Dopo la consapevolezza, c'è l'azione che deve seguire. E per questo ci sono diverse strade. Una strada possibile è rendersi conto, collettivamente, di quali sono i modelli di leadership premianti di come la leadership si manifesta, per donne e uomini, e poi immaginare una nuova leadership, diversa, più piena, meno guidata da leggi che andavano bene (forse!) per uomini e donne in altre epoche ma che non sono più adatte alle sfide delle organizzazioni del XXI secolo.
Con Marianne, nel percorso di coaching, è stato molto importante partire da questa osservazione, che l'ha aiutata a capire che quello che sta succedendo non è colpa sua: non c’entrano il suo grado di preparazione, le sue competenze, la sua personalità. E’ importante, per non aggravare ciò che sta succedendo attribuendosi colpe che non esistono, che i diversi fenomeni vengano letti all’interno dei contesti nei quali si producono. Le chiavi che vengono dalle teorie delle relazioni di gruppo sono particolarmente utili, per non limitarsi ad una lettura personalistica. Quali modelli mentali inconsapevoli condizionano le azioni delle persone all’interno di questo sistema? A questa domanda Marianne può rispondere, ma un interrogarsi collettivo potrà essere molto più efficace, per produrre davvero un cambiamento profondo. In coaching abbiamo poi aperto sulla domanda "cosa è concretamente in mio potere perché la situazione cambi?". Una esplorazione realistica è importante per accompagnare la persona ad operare ad un livello di responsabilità possibile e non su un’idea onnipotente rispetto alla trasformazione, che rischia di essere consolatoria sul breve periodo e molto frustrante sul medio lungo, una volta presa coscienza che non è solo l’azione di un individuo che può operare su un modello culturale ma quella di un collettivo.
Dal suo punto di vista Marianne può lavorare sulla sua assertività, sulla sua capacità di far notare immediatamente agli uomini che la interrompono la dinamica nella quale sono presi dicendo qualcosa del tipo "Mi hai appena interrotto, ma continuerò quello che stavo dicendo" o "Stavo parlando, adesso finisco quello che stavo dicendo". Sono alcuni dei temi che stiamo affrontando, insieme al gruppo di donne che sono coinvolte nei laboratori sulla leadership, nella stessa azienda. Questo tipo di intervento permette di interrompere il circuito vizioso. Non si interrompe l’altro parlando più forte ed aggiungendo contenuto (livello 1) ma ridefinendo la relazione (livello 2). Un altro tipo di intervento sull’assertività è quello di evitare qualunque frase che mini la legittimità di Marianne ad intervenire in quella riunione. Questo significa lasciare perdere tutte le aperture del tipo “Scusate ma vorrei aggiungere…”, “Forse sarebbe importante anche tenere conto di…” etc. sostituendole con, ad esempio “Vi esporrò ora alcuni dati di cui è importante tenere conto…” “L’argomento a favore di questa decisione è…” etc.
Un'altra pista di cambiamento è lavorare nel creare alleanze, sia con altre donne sensibilizzate al tema ed anche con uomini. E’ questo il tema della “allyship” e della sua importanza nei processi di trasformazione che toccano la DE&I. Insieme a Marianne abbiamo prodotto una “carta degli e delle alleate e sponsors” e di come lavorare su queste alleanze. Senza un’alleanza possibile con la parte “dominante” è molto più difficile che le agenti di cambiamento possano raggiungere i risultati sperati, nell’attesa che gli interventi sulla cultura organizzativa portino i loro frutti. Allearsi è diverso dal semplice “fare network”. Gli e le alleate possono, ad esempio in una situazione di manterrupting, interrompere a loro volta l’interruttore per ridare la parola alla donna interrotta, rompendo in questo modo la dinamica relazionale “a due”. Passare dal due al tre, nella relazione, significa, oltre che evitare il rischio di escalation “ti interrompo più io”, fare un passo verso il collettivo. Il gioco non è più tra gruppo dominante e gruppo dominato, la terza parte ha anche il ruolo di interrogare lo status quo e promuove il movimento.
Il legame tra risk aversion e il critico interno: l’auto sabotaggio nelle decisioni di trasformazione
Emma è dirigente di un’azienda multinazionale. Ha 40 anni e il suo percorso di carriera è costruito su una serie continua di successi, di risultati brillanti, una progressione molto veloce, fino alla promozione nel suo ultimo posto, come responsabile marketing di una Business Unit dell’azienda, avvenuta qualche mese fa, a coronare un obiettivo che aveva fin da giovane. Molto in fretta il nuovo ruolo comincia a pesarle, sia per il lavoro in sé, ma anche per l’équipe che è chiamata a guidare, per colleghi e colleghe, per l’ambito decisionale che si rivela essere inferiore rispetto alle sue aspettative. Iniziamo il coaching dopo alcune settimane nelle quali si è sentita vittima di una pressione, che giudica immotivata e non utile rispetto ai risultati che le vengono richiesti. È piena di dubbi sull’azienda stessa, che le sembra tradire il sistema di valori dichiarati, ma anche sulla continuazione della sua carriera nel settore privato. Si dice che forse dovrebbe sperimentare qualcosa di più allineato ai suoi valori con un impatto sociale più importante. Dopo qualche seduta, chiarito che non vuole restare nel suo ruolo attuale, incominciamo ad esplorare altre possibilità di ruoli anche molto lontani da quello che sta facendo, perché dice di avere voglia di un cambiamento radicale. Ed Emma comincia ad avere un comportamento particolare a questo proposito. Ogni volta che un’idea emerge e sembra piacerle comincia a trovare argomenti contro “No ma poi mi dovrei formare per anni per fare questo”, “Non ho le competenze” “Tutte le persone con cui ho studiato fanno lavori prestigiosi”, “Non riuscirò e dovrò ritornare in azienda occupando un posto meno importante”, “Mi piacerebbe ma non sono capace”…
Il bias di avversione al rischio è stato individuato da Tversky e Kahneman già nel 1973. Si tratta del processo di pensiero che collega il rischio alla possibilità di perdere e che produce decisioni distorte perché la possibilità di vincere viene sottovalutata, a fronte delle perdite possibili. Dal punto di vista del funzionamento neurologico, l’amigdala ci segnala una minaccia. Lo striatum, addetto a valutare perdite e guadagni possibili sbilancia la percezione sulle perdite, l’insula, insieme all’amigdala responsabile del disgusto, ci allontana dal comportamento ritenuto rischioso. L’avversione al rischio è collegata alle nostre decisioni di investimento, comprese, ad esempio, quelle relative alle assicurazioni. Ma oggi parleremo di questo bias in connessione con un fenomeno psicologico che si origina da esso, il cosiddetto “Critico Interno o interiore”. Il Critico Interno è quella voce continua ed insistente che ci ricorda quanto siamo incapaci, incompetenti, non adatte e adatti; che ci fa vergognare anche solo di aver pensato di fare una determinata cosa, di parlare in pubblico, di intervenire ad una riunione, di desiderare quel ruolo, di fare qualcosa che non abbiamo mai fatto. Sempre quella voce che ci fa adottare un “fixed mindset” piuttosto che un “growth mindset”, spingendoci a vedere, in modo inconsapevole, ogni apprendimento come un rischio, mettendo in luce le perdite che saranno causate dalle novità, attivando quel circuito ancestrale di pensiero difensivo, che abbiamo ricordato più sopra, che ci era tanto utile agli albori della nostra specie, che ora rischia solo di inchiodarci a situazioni dolorose e non desiderate per paura del rischio di percorrere strade nuove.
In sostanza possiamo immaginare il critico interno come una specie di piccolo personaggio cattivello seduto sulla nostra spalla in permanenza. Sull’altra spalla c’è seduto un personaggio molto più benevolo, quello che Doena Giardella in un articolo apparso sulla rivista del MIT Sloan chiama “inner champion” o in altra letteratura “inner mentor o coach” (Tara Mohr) e che ci suggerisce nuove idee, creatività e ci dice che tutto andrà bene. Ma la tendenza spontanea è piuttosto quella di non ascoltare questa voce e di lasciar dirigere la conversazione interna che abbiamo con noi stesse e noi stessi piuttosto dal personaggio che ci ama meno e di fargli guidare le nostre azioni.
Le voci che lo animano possono essere diverse e vengono dal nostro passato: chi ci ha educato, genitori, adulti di riferimento, educatori scolastici, sorelle e fratelli, ma anche degli ambienti non contenitivi, percepiti come minaccianti, nei quali non abbiamo potuto sviluppare relazioni in sicurezza, come succede, secondo la teoria dell’attaccamento, quando abbiamo vissuto relazioni dette “di evitamento” durante l’infanzia.
La voce del critico interno non ci parla gentilmente, come normalmente si parla a qualcuno che ci ama, ma ci etichetta “non sei quella o quello che fa questo tipo di cose”, può essere all’origine della famosa “sindrome dell’impostore”, ci ricorda tutte le nostre debolezze, ci paragona ad altri ed altre sempre più performanti di noi, ci fa immaginare risultati disastrosi nei quali proviamo un grande senso di colpa e vergogna per quello che abbiamo fatto. È la voce della (finta) saggezza che ci dice “non lasciare la strada vecchia per la nuova” “chi si loda s’imbroda” e che, al momento di agire per trasformare e rigenerare la nostra vita, il nostro ruolo, la nostra azienda, la nostra famiglia, ci paralizza e ci spinge a preferire lo status quo piuttosto che rischiare di perdere qualcosa, come in tutti i cambiamenti.
E’ questa voce che la manager Emma del nostro caso, ha sentito, forte e chiara,nel momento in cui ha iniziato a pensare di uscire dalla strada tracciata per trasformare la sua vita verso qualcosa di più coerente con la vocazione che sente in questo momento. Quando abbiamo esplorato, durante il coaching, la voce del critico interno, alcuni episodi della sua infanzia che Emma ha ricordato, hanno permesso di dare una forma alla voce: in particolare Emma ha risentito le voci della sua famiglia, le critiche e i consigli, che le raccomandavano di andare verso un ciclo di studi adatto all’ambiente e posizione sociale e poi le scelte professionali e di carriera, l’approccio al lavoro caratterizzato da devozione e perfezionismo estremi. Voci che ha fatto sue, e che più volte l’hanno messa a rischio di burn out, non facendola mai sentire abbastanza competente, brava, brillante, performante, sia rispetto a sé che rispetto alle altre persone in azienda.
Il critico interiore rischia di minare profondamente la fiducia in se stessi e la fiducia negli altri quando produce proiezioni sugli altri generando una dinamica di attribuzione di cattive intenzioni nei nostri confronti “è colpa loro, mi fanno sentire male”, “non piaccio a colleghi e colleghe” etc.
Cosa possiamo fare, concretamente, a riguardo del critico interno?
- Tara Mohr, nel capitolo di “Playing Big” dedicato al tema suggerisce soprattutto di non respingerlo in toto. In fondo, se risaliamo all’utilità evolutiva del bias “avversione al rischio” che ne è all’origine ci possiamo ricollegare al fatto che uno degli obiettivi di questa voce critica è proprio quello di proteggerci dall’ostilità dell’ambiente. Il suggerimento, quindi, come avviene nella teoria Junghiana dell’ombra è quello di accoglierlo, di esserne consapevoli. Un buon modo è far uscire da sé la confabulazione e scrivere ciò che il critico interno ci dice per poterlo trasformare. Tara Mohr suggerisce di dividere un foglio in due colonne con, a sinistra per esempio, il critico interno, ed a destra il “pensatore razionale”. In quest’ultima colonna potremo cogliere la saggezza del messaggio che ci stiamo mandando, che ci permette di, ad esempio, calcolare rischi e profitti della scelta in modo razionale;
- Quando il critico interno è attivo parliamo a noi stesse e di noi stessi in modo cattivo, duro, senza empatia. Doena Giardella del MIT suggerisce di inserire proprio questa dimensione nella nostra conversazione interna. Essere gentili. In questo momento nel quale si parla molto di “kind leadership” diventa essenziale partire da sé, usando compassione e comprensione nella nostra conversazione interna, per non auto ferirci o auto sabotarci nei processi di trasformazione. L’idea è quella di usare “l’inner champion” o “inner mentor” (il personaggio buono che ci parla dalla nostra spalla) per aiutarci a riformulare le critiche.
- Nel momento in cui stiamo agendo, ad esempio in relazione con gli altri, e sentiamo che nella nostra conversazione interna ci stiamo criticando, decentrarsi da sé, ritornare in connessione relazionale con gli altri e chiederci di cosa hanno bisogno. Il critico interno ci toglie non solo dall’empatia verso di noi ma anche dall’empatia nella relazione, facendoci centrare solo sul nostro bisogno inconscio di preservare lo status quo.
- Nell’analisi ex post (di una riunione, di un cambiamento, ma anche di un fallimento) cercare il lato positivo, la lezione appresa, il germoglio di qualcosa di nuovo che è nato. Permettere la rigenerazione, diremmo in Nexus.
- In posizione di management potremmo inconsapevolmente riprodurre il copione familiare, creando ad esempio un ambiente di lavoro definibile come “di evitamento” secondo la teoria dell’Attaccamento. In questo tipo di ambiente il critico interno potrebbe corrispondere a una domanda, più o meno implicita, di perfezione non solo verso di noi ma anche verso gli altri membri del team. Nel caso, ad esempio, di un cambiamento che vogliamo promuovere o di un errore fatto sarà utile usare l’umiltà per approfondire le cause e le responsabilità, da quella che in inglese si chiama una posizione “inquiry”, di indagine benevolente e veramente aperta, invece di ricorrere all’advocacy, all’accusa, al sollecitare il sentimento di colpa e la vergogna nei membri del team.
“Illusion of transparency bias”: quando non prendiamo il rischio di incontrare veramente gli altri
L’illusione di trasparenza è stata per la prima volta definito nel 1998, in un articolo pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, dal gruppo di ricerca composto da Thomas Gilovich, Victoria H. Medvec, Kenneth Savistsy. Essa consiste nella “tendenza delle persone a sopravvalutare la misura in cui gli altri possono discernere i loro stati interni”. Il nome descrive bene il fenomeno che si ha quando pensiamo che gli altri possano, quasi magicamente, leggerci dentro, leggere le nostre emozioni, in nostri pensieri, i nostri desideri.
La lettura della ricerca mi ha riportata indietro, molto indietro e mi sono ritrovata quindicenne, nei corridoi della scuola, innamorata perdutamente della star del movimento degli studenti, mentre vagavo cercando di vedere il soggetto in questione, dicendomi che per forza di cose doveva avere visto l’arrossire, gli sguardi languidi, la paralisi che mi prendeva ogni volta che lo incrociavo e collegato ad essi tutto il tumulto di emozioni che la sua vista mi provocava. Ai tempi c’era un romanzo che aveva colpito enormemente la mia immaginazione, “La principessa di Clèves” ed il corridoio della scuola era diventato per me come la corte nella quale, quasi come su un palcoscenico, tutti erano attenti a leggere i sentimenti degli altri sui loro volti, in una comunicazione fatta di sfumature, di sguardi dati e non dati, di teste girate, di palpitazioni tutte chiaramente o quasi viste, decodificate, comprese. Solo che questo funzionamento e questa attenzione sugli altri in realtà non esistono in quanto ciascuno è molto più concentrato e preso da ciò che succede dentro di sé, un effetto che si chiama spotlight, correlato all’illusione di trasparenza, che si manifesta nell’idea di avere un riflettore sociale puntato su di noi. Questo è tanto più vero quanto l’emozione che ci attraversa è forte. Certo, ci sono degli aggiustamenti che mettiamo in atto per moderare queste illusioni e per disancorarci dalla nostra esperienza interna, ma essi non sono sufficienti. Quello che ci resta è la sensazione che ciò che ci succede dentro sia molto più visibile di quanto non lo sia in realtà.
Alcuni esempi di come questo bias si manifesta sono, ad esempio, quando siamo arrabbiate o arrabbiati con qualcuno e smettiamo di parlare o rispondiamo a monosillabi e ci stupiamo che la persona in questione non si renda conto, non ci chieda cosa abbiamo etc. É una situazione questa che mi è capitato spesso di sentire raccontare in coaching, ad esempio nelle relazioni tra manager e collaboratori e collaboratrici, ma che è molto comune anche nelle relazioni di coppia. Le forti emozioni che ci attraversano, che siano collera, paura, tristezza, disgusto e che per noi sono presenti ed in primo piano, sono invisibili o quasi per le relazioni che ci circondano, siano esse professionali o personali. Le illusioni di trasparenza e l’effetto spotlight sono da attribuire ai bias di ancoraggio e adattamento, secondo i tre ricercatori. “Quando gli individui cercano di determinare quanto siano evidenti i loro stati interni per gli altri, iniziano il processo di giudizio dalla propria esperienza soggettiva. Gli aggiustamenti che fanno da questo ancoraggio - aggiustamenti che derivano dal riconoscimento che gli altri non sono al corrente dei loro stati interni come loro stessi tendono ad essere insufficienti. Il risultato netto, è un effetto residuo della propria fenomenologia e la sensazione che i propri stati interni siano più evidenti agli altri di quanto non lo siano in realtà.”
Ci sono delle situazioni nelle quali pensare a questo effetto può portarci dei vantaggi. Pensate, per esempio, durante un momento di public speaking, quando magari si sta sentendo il sudore colare, si ha l’impressione che la voce e le mani tremino e che tutti si stiano accorgendo della nostra agitazione. O durante un colloquio di lavoro, quando stiamo cercando di volgere in positivo un momento non proprio glorioso del nostro curriculum. O, ancora, quando stiamo dicendo una bugia, e pensiamo alla credenza popolare secondo la quale le bugie sono evidenti. In realtà l’agitazione, l’ansia, la paura sono molto più percepibili da noi. La persona o le persone che ci stanno di fronte, saranno prese dal loro riflettore e ci presteranno molta meno attenzione di quanto noi pensiamo.
L’illusione di trasparenza e l’effetto spotlight ci possono dare l’idea di quanto le relazioni con gli altri possano essere, in generale, distorte, illusorie, superficiali, distanti dalla realtà; ed alla difficoltà di incontrare l’altro per quello che è, al di là delle nostre proiezioni e del nostro ego.
Cosa possiamo fare allora per moderare questi effetti?
Gli strumenti del dialogo generativo ci offrono una possibile via perché questo incontro possa realizzarsi. L’ascolto generativo ci permette di mettere temporaneamente a tacere il nostro ego per aprirci all’esperienza dell’incontro, a partire da una connessione profonda, che non si fa (solo) attraverso la razionalità e la parola ma attraverso l’osservazione dell’altro, delle metafore che usa, dei segnali emotivi che manda, del suo percorso di vita. Una connessione in uno spazio liberato dalla nostra presenza, dai bisogni di rassicurazione, di controllo, di certezza...La parola generativa poi ci aiuta a proseguire l’ascolto profondo, permettendo di dare nomi a ciò che è presente ma anche a ciò che è implicito, nuovo, sorprendente per poter creare un terreno comune di incontro. E’ nel dialogo che l’illusione di trasparenza e l’effetto spotlight possono essere superati. Ma per entrare in questo processo occorre una disponibilità interiore ad essere Disturbed, Displaced & Disrupted , cioè accettare che i miei modelli mentali, o certezze, possano essere seriamente messi in discussione da questo 'incontro reale' con l'altra persona, in particolare nel momento in cui scopro che le mie spiegazioni del perché certe dinamiche stavano accadendo nella nostra relazione non sono più appropriate, ora che mi rendo conto che l'altro non disponeva delle informazioni su di me che, a causa di questa 'illusione di trasparenza', ero così convinto che avesse.
Unconscious Bias e processo di gestione e sviluppo delle performance
Questa settimana per la nostra rubrica sui bias non parleremo di un bias singolo ma, come abbiamo già fatto sul cambiamento climatico, prenderemo un cluster di bias, in particolare alcuni di quelli che impattano la gestione delle performance.
Le innovazioni su questo tema si sono succedute regolarmente in questi anni, nel tentativo di creare sistemi il più possibile tendenti all’equità e adatti ad accogliere i percorsi di apprendimento e sviluppo dei soggetti coinvolti: sistemi a 360°, autovalutazione incrociata alla valutazione del o della manager, sistemi di competenze raffinati, consistency check per focalizzare la dimensione collettiva della valutazione e moderarne la soggettività, KPI sempre più precisi, fino ad arrivare ai recenti sistemi di formulazione degli obiettivi OKR introdotti da Google come evoluzione dell’MBO ed al feed back continuo...solo per citarne alcuni. In realtà, anche sistemi di gestione della performance ben costuiti ed atti a cogliere bene la complessità dell’azione organizzativa restano pur sempre ancorati ad un’attività umana di base e spontanea: quella dell’osservare e del processo di attribuzione di significato e di interpretazione basati su queste osservazioni.
E’ in quest’ottica che l’attenzione crescente per le distorsioni e trappole insite in questi processi diventa una interessante riflessione sia per i soggetti valutati che per chi valuta. La consapevolezza e la trasformazione degli unconscious bias individuali, ma anche provenienti dalla cultura organizzativa, diventa cruciale perché questi sistemi possano davvero servire a generare un senso equità e l’apprendimento individuale e collettivo necessari a rispondere alle sfide del contesto organizzativo.
Cerchiamo, nel seguito, di categorizzare alcuni di questi bias anche se, come vedremo, formare categorie precise diventa difficile e un po’ artificiale in quanto spesso i bias si riaggregano nel singolo atto valutativo.
Bias legati a fattori di identità del o della manager valutante
- Bias di identità (o Similar to me bias). Deriva dalla tendenza ancestrale a formare dei sottoinsiemi relazionali, “in-out group”, a seconda di caratteristiche possedute realmente o proiettate sugli altri, che ce li fanno sentire simili o distanti da noi. L’appartenenza ad un gruppo o ad un altro è un fattore fortemente identitario. Il soggetto percepito come simile a noi viene quindi meglio valutato e gestito del soggetto percepito come “diverso”. Numerose ricerche dimostrano che tra i fattori “in-out group” che impattano fortemente la valutazione ci sono il genere, l’etnia, il percorso di studi, la religione, l’età. Questo bias si manifesta, in una valutazione favorevole per chi sentiamo simile, anche nella comunicazione della valutazione della performance, attraverso, ad esempio un uso del pronome “tu” per distinguire chi è percepito out-group e “noi” per chi è “in-group”, con impatti sul senso di “belonging” organizzativo, di sentimento di essere riconosciuti, di motivazione. E’ anche per mitigare questo bias, che è importante che la diversità sia rappresentata in tutti i livelli gerarchici.
- Bias di attribuzione (o bias di opportunità). E’ la tendenza ad attribuire i successi a noi ed alle nostre capacità e gli insuccessi alla sfortuna o a cause esterne a noi. Tendenza rovesciata nel caso dei soggetti valutati per i quali accade il contrario: una buona prestazione quando questo bias è in azione, viene attribuita alla fortuna o alle condizioni favorevoli del contesto e, per una cattiva prestazione, vengono invece evidenziate solo le incapacità della persona. Questo bias, unito al bias di identità, può generare una sistematica buona o cattiva percezione rispetto alla valutazione, attribuendo a certuni solo meriti e ad altri solo intervento del destino e viceversa.
Bias legati all’uso delle scale di valutazione
- Bias di indulgenza. Il o la manager utilizza la scala di valutazione in maniera sistematicamente generosa. L’indulgenza puo’ essere più alta per alcuni ed alcune collaboratrici (vedi bias più sopra) ma anche essere generalizzata. Dietro questo bias ci sono essere dei meta-modelli di descrizione della realtà in chi valuta, quali ad esempio “ho bisogno di essere amato o amata e se valuto in modo realistico non lo sarò più” oppure “valuto in modo generoso per segnalare un incoraggiamento così la persona farà meglio” o, ancora “se valuto negativamente una prestazione poi dovrò affrontare un conflitto e mi fa paura” ed un’idea di “gentilezza” distorta, che non tiene in conto che l’obiettivo della gestione e della valutazione non è punire ma generare apprendimento in chi valuta ed in chi è valutato o valutata.
- Bias di severità. Il o la manager valuta sistematicamente in maniera più severa. I modelli mentali dietro questo errore sistematico possono essere, ad esempio “ho fatto la gavetta, ora deve farla anche la persona valutata”, oppure “se uso dei valori alti poi la persona non si impegnerà più a fondo”, etc. Numerose ricerche sono state fatte per collegare tratti della personalità (ad esempio rilevati con il test BigFive) ed errori sistematici nelle scale, collegando ad esempio tratti di stabilità emotiva e estroversione ad un uso indulgente e viceversa. Interessanti risultati sono emersi da recenti ricerche sul legame tra uso generoso o severo delle scale e, ancora una volta, caratteristiche identitarie della persona valutata, che hanno messo in evidenza il rischio di una maggiore severità di valutazione verso i gruppi dominati (donne, persone di colore, LGBT+, diversità cognitiva etc). Un altro aspetto interessante su questo tema l’uso delle scale nell’autovalutazione legato alla famosa “sindrome dell’impostore” che consiste (anche) in un errore sistematico di severità nell’autovalutazione che produce un sentimento di inadeguatezza e di illeggitimità nella persona.
- Tendenza centrale. Soprattutto su scale dispari, tendenza ad utilizzare solo i valori centrali e non l’intera scala, per evitare di prendere piena responsabilità usando i valori estremi.
Bias legati alla focalizzazione parziale della prestazione dei valutati
- Effetto alone positivo e negativo. L’effetto alone, uno dei primi bias ad essere studiati, si ha quando una parte positiva o negativa della prestazione viene focalizzata e messa in risalto, in modo che tutta la valutazione ne viene influenzata. Ad esempio Giovanni ha competenze molto alte sulla negoziazione con il cliente, sulla chiusura dei contratti, sulla gestione del gruppo, ma in riunione prende raramente la parola. Il o la sua manager potrebbe, basandosi su quest’ultima caratteristica, valutarlo negativamente su tutta la prestazione. Ho preso l’esempio del “prendere la parola in riunione” anche perché, secondo alcune ricerche, c’è un effetto alone positivo che investe coloro che sono abili nel prendere la parola in pubblico. L’effetto alone può essere ancora più ampio e riguardare non tanto una parte della prestazione ma caratteristiche della persona, in particolare l’attrattività, l’entusiasmo, la positività che sono associate a prestazioni efficaci, arrivando a nascondere risultati non positivi.
- Bias di memoria recente (o bias di disponibilità). Consiste nella convinzione che un evento che è accaduto da poco abbia maggiore probabilità di ripetersi. Quindi, rispetto alla gestione delle performance, nella tendenza a richiamare alla memoria sopratutto gli ultimi tre quattro mesi di prestazione e lasciare nell’ombra il resto dell’anno. Un effetto curioso di questo bias è la cosiddetta “hot hand”, metafora presa dallo sport dove si è studiata una tendenza a passare più di frequente la palla alle persone che hanno segnato un punto, secondo la credenza che ad un successo ne possa facilmente seguire un altro (e riconfermando questa credenza perché il maggiore possesso di palla crea più occasioni di marcare punti). In ambito aziendale questo effetto produce l’assegnazione di progetti interessanti e sfidanti uno dietro l’altro a persone che hanno avuto successo in un progetto, ricreando le condizioni per un altro successo. Un buon modo di contrastare questo bias è dato dai sistemi di feedback continuo o dalla metodologia OKR nel suo complesso.
- Effetto prima impressione. Contrariamente a quanto avviene per il bias di memoria recente questo effetto ci àncora alla prima impressione generale che abbiamo avuto della persona e ci fa ritornare al giudizio che ci siamo formati nei primi pochi secondi della relazione, indipendentemente dai risultati che la persona ha poi concretamente ottenuto. Così una buona prima impressione può nascondere performance negative e una cattiva prima impressione produce risultati contrari. In un prossimo post sui bias vi parleremo, a questo proposito, delle famose ricerche di Harward su “calore & competenza”.
Bias legati al confronto
- Effetto contrasto. Uno dei nostri modi di apprendere, in quanto esseri umani, viene dalla comparazione di informazioni per analizzarne le differenze e le similitudini. Questa routine di pensiero, quando applicata alla gestione della performance, distrae dall’oggetto della nostra osservazione – il rapporto ed i risultati di un singolo individuo, rispetto ai suoi obiettivi – per spostarci sulla comparazione con altri membri dell’organizzazione, o tra membri dello stesso team. La performance viene così valutata non per il valore aggiunto sugli obiettivi dato dalla persona, ma in quanto migliore o peggiore rispetto ad altri membri del team.
- Bias dell’importanza del ruolo. Nella maggior parte delle organizzazioni eistono modelli mentali che inducono a mettere al centro dell’attenzione alcuni ruoli, percepiti come più contributivi rispetto alla produzione dei risultati, rispetto ad altri. Penso per esempio ai ruoli di ricerca nelle aziende hi-tech o ai ruoli commerciali e marketing in aziende consumer (dove ci è capitato di sentire queste due funzioni indicate come “la voie royale”). Questo bias consiste nel privilegiare, nella gestione della performance, quei ruoli che intervengono sulle funzioni percepite a più alto valore aggiunto in azienda, impattando negativamente il senso di equità, valutando in modo peggiore ruoli considerati minori.
Alla fine di questa carrellata chi valuta potrebbe sentirsi un po’ in difficoltà 😊. Vi proponiamo alcune idee per cercare di contenere questi bias.
- Non lo diremo mai abbastanza ma quanto più è alta la consapevolezza su come pensiamo e sui processi che ci fanno arrivare ai quadri per l’azione, quanto più abbiamo la possibilità di trovarne i bias e gli errori. Questo significa aiutare il più possibile la nostra parte razionale a partecipare al processo. Gli strumenti della gestione della performance sono anche fatti per questo, per togliere l’attività valutativa dalla spontaneità. Prendersi il tempo è un altro fattore chiave. Le valutazioni fatte in fretta, all’ultimo minuto, in maniera rituale giusto per riempire “la pagella” (in quante realtà organizzative abbiamo sentito ancora questo termine!!) sono il terreno fertile per valutazioni sbagliate. Una buona valutazione permette di creare le condizioni perché il periodo successivo porti delle migliori prestazioni, quindi non è un costo in termini di tempo ma un investimento sul futuro e sulla creazione di un buon clima nel team.
- Avere un sistema di gestione e sviluppo della performance quanto più possibile articolato, con obiettivi correttamente scritti, indicatori di misura veramente rilevanti, competenze descritte in modo chiaro e fattuale, feedback multicanale è una parte importante. Ma, come ricordato sopra, nessun sistema è completamente libero dai bias, almeno da quelli delle persone che lo hanno progettato.
- Un dispositivo interessante è il consistency check. Al termine delle valutazioni i e le manager di pari livello si ritrovano per raccontare come sono arrivati ed arrivate a posizionare le persone sulla scala. Gli e le altre partecipanti alla riunione sfidano la valutazione attraverso contro-esempi, domande su comportamenti specifici osservati etc. E’ una soluzione interessante ed i consistency check ai quali ci è capitato di assistere sono stati dei grandi momenti di apprendimento. A condizione che le persone stiano al gioco e siano disposte a vedere non solo i bias degli altri ma anche i propri e a lavorare sul livello organizzativo, chiedendosi per esempio “cosa non stiamo vedendo, a causa delle abitudini, delle routines, dei ‘da noi si fa così’?”
- Quando avete tanti collaboratori è bene non fare le valutazioni tutte insieme. Se rileggete la lista degli errori sopra è chiaro che se a questi aggiungiamo un numero imprecisato di valutazioni fatte tutte in un pomeriggio, avere chiaro chi ha fatto cosa diventa molto difficile.
- Il feed back continuo diventa un ottimo strumento, in particolare quando è possibile che chi valuta e chi è valutato possano mettersi d’accordo sul suo contenuto e tenerne traccia comune. Il vantaggio, oltre che sulla valutazione, è soprattutto sul ciclo di apprendimento della persona che viene in questo modo potenziato.
- Una cultura di accettazione e di crescita attraverso l’errore aiuta chi è valutato e chi valuta ad aprire un dialogo, nel quale proteggere la relazione dal rischio della “storia unica”. L’occhio (ed il cervello) di chi valuta e gestisce non sono infallibili. Esistono (almeno) due versioni della storia e, attraverso una esposizione chiara e circostanziata dei fatti, entrambi potranno forse arricchire la ricostruzione che ne è stata fatta.
Phote credit Rob Gonsalves