Antonio, direttore marketing di una multinazionale, è un convinto sostenitore della prassi di “feedback continuo” che è stata recentemente introdotta nel ciclo del performance management. Antonio pensa che, proprio attraverso il feedback, sia possibile far crescere le soft skills delle sue collaboratrici e collaboratori, non solo le loro capacità tecniche. Per questo non perde occasione di avere colloqui individuali per restituire il suo sguardo sulla loro assertività, sull’empatia dimostrata nelle relazioni, sulle loro capacità di leggere i bisogni di clienti interni ed esterni. Questi colloqui, settimanali, cominciano con una serie di feedback detti “di miglioramento”, dati sulle parti di prestazione che non hanno soddisfatto Antonio, finendo con una serie di feedback di rinforzo, sulle parti di prestazione che si sono rivelate efficaci. Antonio è sicuramente un manager capace ed esemplare, e la pratica del feedback va sicuramente incoraggiata – penso a quante persone mi è capitato di incontrare, nelle organizzazioni, che non hanno alcuna idea di ciò che le e i loro manager vedono della loro prestazione. Alla luce di un interessante articolo, apparso nel 2019 su HBR, firmato dai ricercatori Marcus Buckingham e Ashley Goodall di ADP possiamo chiederci se questa pratica continua è davvero benefica per l’apprendimento delle persone.
Questo blogpost esplorerà alcune domande, a partire dalle pratiche osservate e dalla letteratura sul tema ed in particolare: il feedback continuo aumenta sempre la nostra consapevolezza? Ci fa sempre crescere? E’ sempre generatore di apprendimento? Fornendo, nella parte finale, alcuni spunti pratici di gestione.
Queste domande richiamano alcune convinzioni ed abitudini di pensiero rispetto al feedback, derivanti in gran parte da modelli ereditati da un passato nel quale il livello di conoscenze scientifiche non aveva ancora permesso la comprensione interdisciplinare dei suoi effetti che incominciamo ad avere oggi, anche grazie alla IRM. Penso, ad esempio, ad un modello che amo molto, la famosa Finestra di Jo-Hari, creata da Joseph Luft e Harrison Ingham, che prende il nome proprio dalle iniziali dei suoi creatori. E a quanto mi è sempre piaciuto condividere con allievi e partecipanti di corsi di formazione una storia quasi magica sul fatto “johari” in sanscrito vuole dire “colui che possiede tesori e gioielli” (credo letto in una nota del saggio “Soggettività” di Enzo Spaltro). Questo significato nascosto e misterioso mi è sempre sembrato una magica metafora di quanto sia preziosa l’attività di dare e ricevere feedback per aggiungere pezzi preziosi alla nostra identità, che altrimenti non avremmo modo di integrare.
Ma alcune recenti scoperte, in particolare sul feedback negativo, ci mostrano come pensare di raggiungere sempre un obiettivo di crescita personale e professionale attraverso il feedback possa rivelarsi ingannevole. È la “feedback fallacy” esplorata attraverso diverse ricerche da Buckingam e Goodall. Ad esempio, secondo una ricerca del loro istituto ADP sui bisogni della generazione Millenial, si confonde la richiesta di più attenzione, con quella di “più feedback”. In realtà il bisogno sottostante sarebbe piuttosto quello di un pubblico che sia attento a loro, come succede quando nei social network quando si ricevono stelline, cuoricini, like. Quindi, quando si adottano processi di “trasparenza radicale” o “feedback duro” che consistono a mettere le persone al centro di un flusso continuo di feedback, negativi o positivi, si risponde in maniera discutibile ad un bisogno presente. Infatti, se il feedback negativo “procedurale”, quello di correzione di errori operativi, ci aiuta a correggerci ed è sempre utile, il feedback totale che descrive la prestazione attraverso punti di forza e di debolezza anche su aree comportamentali quali assertività, propensione al rischio, visione d’insieme, empatia etc. presenta il rischio di essere addirittura dannoso e vedremo come.
Buckingam e Goodall nella loro ricerca hanno individuato tre modelli mentali, tre bias, che guidano il nostro uso del feedback senza essere messi in discussione:
- Il modello “fonte della verità” secondo il quale l’altro che ci osserva, ha la verità più o meno oggettiva sulla nostra prestazione. In realtà l’altro ha solo una percezione parziale, fallace e soggettiva ben lontana dalla verità assoluta. Se prendiamo ad esempio una competenza comportamentale tipica, “Visione d’insieme”, anche se essa viene declinata e descritta dai comportamenti correlati, è evidente che arrivare ad una percezione precisa e misurabile è praticamente impossibile. Questa fallacia diventa evidente nei sistemi di feedback a 360°, che mettendo insieme numerose percezioni, ci danno l’illusione di arrivare ad una buona approssimazione media. L’errore di fondo però resta quello di pensare che facendo la media tra percezioni distorte da un insieme di bias, possiamo arrivare a qualcosa di preciso.
- Il modello “colmare i gap attraverso l’apprendimento”. Secondo questo modello ci sono competenze target per ogni ruolo e quelle non possedute vanno apprese. Si è tuttavia più recentemente scoperto che le connessioni neuronali si generano soprattutto dove sono presenti già altre connessioni, più difficile diventa crearne di nuove. Quando il cervello riceve un feedback positivo il segnale ricevuto è che qualcuno apprezza ciò che stiamo facendo e questo crea la possibilità di generare nuove connessioni e di apprendere. Il feedback negativo produce invece l’attivazione della modalità di sopravvivenza “fight or flight” e lo stress generato non solo non produce apprendimento ma lo riduce. Questo risultato è contro intuitivo rispetto a tanti slogan sulla necessità di “abbandonare la propria area di comfort”: al contrario, l’apprendimento, la creatività, la produttività si generano al suo interno o con un accompagnamento attento ad attraversare la zona “modalità di sopravvivenza”, non giusto lasciando la persona con il feedback negativo.
- Il terzo modello mentale è la “teoria dell’eccellenza” secondo la quale c’è un modo eccellente per raggiungere obiettivi. Ed anche questo assunto è facilmente smontabile. C’è un modo eccellente quando i compiti sono ripetitivi e meccanici ma in contesti complessi diventa difficile arrivare a selezionare una via unica all’eccellenza. Ancor più vano, secondo i ricercatori, pensare di arrivare all’eccellenza attraverso la correzione dei fallimenti, che porta, forse, allo sviluppo di una prestazione adeguata, dato che l’eccellenza per le diverse persone assume diverse forme. Togliere la soggettività alla prestazione non porta dunque ad una presunta “eccellenza oggettiva”.
Cosa fare dei risultati di queste ricerche? Smettere di dare feedback correttivo?
La risposta, confortata dalle ricerche sugli effetti del feedback “informativo” che si dà per correggere l’operatività, è sicuramente “no”: essendo un feedback che viene dato per correggere azioni concrete, immediatamente comprensibile dal ricevente, possiamo continuare a darlo – con tutte le precauzioni del caso. Un feedback circostanziato, focalizzato sull’azione specifica, il più possibile vicino al momento nel quale l’errore è stato percepito. Questo tipo di feedback non viene percepito minacciante, spostando l’attenzione dalle emozioni negative dovute all’errore commesso, al compito ed al bisogno di svolgerlo correttamente. E’ quindi utile a fornire informazione che permette di correggere l’errore.
Il feedback che mira invece a correggere comportamenti più complessi, quali quelli legati alle skills relazionali, deve invece essere maneggiato con più attenzione.
In particolare, pensando ai tre modelli mentali messi in evidenza dalle ricerche, che producono la “feedback fallacy” chi dà feedback potrà:
- Adottare un atteggiamento “umile” e di apertura ad una storia diversa che emerge: si tratta di una percezione, non della verità, potremmo non aver colto tutta la complessità dell’azione;
- Sottolineare i punti di forza. Questo contribuisce a consolidare gli apprendimenti all’interno dell’area di comfort delle persone ed a rinforzare quello che sanno fare bene, in particolare se fatto nel momento nel quale vediamo il talento delle persone esprimersi. “Si’ è esattamente questo!!” detto nel momento nel quale l’eccellenza accade funziona molto meglio di una descrizione oggettiva ed impersonale di quello che dovrebbe essere;
- Partire da sé e non dall’altro o dall’altra. A cosa quello che stiamo vedendo ci fa pensare, come lo riceviamo, quali emozioni ed interpretazioni diamo rispetto a quanto succede e anche cosa avremmo fatto di diverso; su questo la matrice della parola generativa, (andate al link che trovate all’interno di questo blog), può fornire utili spunti pratici per questa conversazione;
- Aiutare la persona a connettere il passato, il presente, il futuro. La Teoria U, che ha alla base proprio questa capacità, dal presente, di essere in connessione ed in continuità con passato e futuro, può rivelarsi un frame davvero utile per evitare il “downloading” e invece orientare il feedback al futuro che desideriamo costruire insieme.
- Infine, una possibilità, più nell’ordine del management della diversità e oltre, della cittadinanza organizzativa, consiste nel comporre le squadre con persone che portano differenza: persone diverse per competenze, stili cognitivi, provenienza, genere, età, etc. in modo da poter rinforzare i punti di forza di ciascuna e ciascuno e fare leva sulla complementarità delle competenze piuttosto che fare immani sforzi per crearle là dove è più difficile.