L’illusione di trasparenza è stata per la prima volta definito nel 1998, in un articolo pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, dal gruppo di ricerca composto da Thomas Gilovich, Victoria H. Medvec, Kenneth Savistsy. Essa consiste nella “tendenza delle persone a sopravvalutare la misura in cui gli altri possono discernere i loro stati interni”. Il nome descrive bene il fenomeno che si ha quando pensiamo che gli altri possano, quasi magicamente, leggerci dentro, leggere le nostre emozioni, in nostri pensieri, i nostri desideri.
La lettura della ricerca mi ha riportata indietro, molto indietro e mi sono ritrovata quindicenne, nei corridoi della scuola, innamorata perdutamente della star del movimento degli studenti, mentre vagavo cercando di vedere il soggetto in questione, dicendomi che per forza di cose doveva avere visto l’arrossire, gli sguardi languidi, la paralisi che mi prendeva ogni volta che lo incrociavo e collegato ad essi tutto il tumulto di emozioni che la sua vista mi provocava. Ai tempi c’era un romanzo che aveva colpito enormemente la mia immaginazione, “La principessa di Clèves” ed il corridoio della scuola era diventato per me come la corte nella quale, quasi come su un palcoscenico, tutti erano attenti a leggere i sentimenti degli altri sui loro volti, in una comunicazione fatta di sfumature, di sguardi dati e non dati, di teste girate, di palpitazioni tutte chiaramente o quasi viste, decodificate, comprese. Solo che questo funzionamento e questa attenzione sugli altri in realtà non esistono in quanto ciascuno è molto più concentrato e preso da ciò che succede dentro di sé, un effetto che si chiama spotlight, correlato all’illusione di trasparenza, che si manifesta nell’idea di avere un riflettore sociale puntato su di noi. Questo è tanto più vero quanto l’emozione che ci attraversa è forte. Certo, ci sono degli aggiustamenti che mettiamo in atto per moderare queste illusioni e per disancorarci dalla nostra esperienza interna, ma essi non sono sufficienti. Quello che ci resta è la sensazione che ciò che ci succede dentro sia molto più visibile di quanto non lo sia in realtà.
Alcuni esempi di come questo bias si manifesta sono, ad esempio, quando siamo arrabbiate o arrabbiati con qualcuno e smettiamo di parlare o rispondiamo a monosillabi e ci stupiamo che la persona in questione non si renda conto, non ci chieda cosa abbiamo etc. É una situazione questa che mi è capitato spesso di sentire raccontare in coaching, ad esempio nelle relazioni tra manager e collaboratori e collaboratrici, ma che è molto comune anche nelle relazioni di coppia. Le forti emozioni che ci attraversano, che siano collera, paura, tristezza, disgusto e che per noi sono presenti ed in primo piano, sono invisibili o quasi per le relazioni che ci circondano, siano esse professionali o personali. Le illusioni di trasparenza e l’effetto spotlight sono da attribuire ai bias di ancoraggio e adattamento, secondo i tre ricercatori. “Quando gli individui cercano di determinare quanto siano evidenti i loro stati interni per gli altri, iniziano il processo di giudizio dalla propria esperienza soggettiva. Gli aggiustamenti che fanno da questo ancoraggio – aggiustamenti che derivano dal riconoscimento che gli altri non sono al corrente dei loro stati interni come loro stessi tendono ad essere insufficienti. Il risultato netto, è un effetto residuo della propria fenomenologia e la sensazione che i propri stati interni siano più evidenti agli altri di quanto non lo siano in realtà.”
Ci sono delle situazioni nelle quali pensare a questo effetto può portarci dei vantaggi. Pensate, per esempio, durante un momento di public speaking, quando magari si sta sentendo il sudore colare, si ha l’impressione che la voce e le mani tremino e che tutti si stiano accorgendo della nostra agitazione. O durante un colloquio di lavoro, quando stiamo cercando di volgere in positivo un momento non proprio glorioso del nostro curriculum. O, ancora, quando stiamo dicendo una bugia, e pensiamo alla credenza popolare secondo la quale le bugie sono evidenti. In realtà l’agitazione, l’ansia, la paura sono molto più percepibili da noi. La persona o le persone che ci stanno di fronte, saranno prese dal loro riflettore e ci presteranno molta meno attenzione di quanto noi pensiamo.
L’illusione di trasparenza e l’effetto spotlight ci possono dare l’idea di quanto le relazioni con gli altri possano essere, in generale, distorte, illusorie, superficiali, distanti dalla realtà; ed alla difficoltà di incontrare l’altro per quello che è, al di là delle nostre proiezioni e del nostro ego.
Cosa possiamo fare allora per moderare questi effetti?
Gli strumenti del dialogo generativo ci offrono una possibile via perché questo incontro possa realizzarsi. L’ascolto generativo ci permette di mettere temporaneamente a tacere il nostro ego per aprirci all’esperienza dell’incontro, a partire da una connessione profonda, che non si fa (solo) attraverso la razionalità e la parola ma attraverso l’osservazione dell’altro, delle metafore che usa, dei segnali emotivi che manda, del suo percorso di vita. Una connessione in uno spazio liberato dalla nostra presenza, dai bisogni di rassicurazione, di controllo, di certezza…La parola generativa poi ci aiuta a proseguire l’ascolto profondo, permettendo di dare nomi a ciò che è presente ma anche a ciò che è implicito, nuovo, sorprendente per poter creare un terreno comune di incontro. E’ nel dialogo che l’illusione di trasparenza e l’effetto spotlight possono essere superati. Ma per entrare in questo processo occorre una disponibilità interiore ad essere Disturbed, Displaced & Disrupted , cioè accettare che i miei modelli mentali, o certezze, possano essere seriamente messi in discussione da questo ‘incontro reale’ con l’altra persona, in particolare nel momento in cui scopro che le mie spiegazioni del perché certe dinamiche stavano accadendo nella nostra relazione non sono più appropriate, ora che mi rendo conto che l’altro non disponeva delle informazioni su di me che, a causa di questa ‘illusione di trasparenza’, ero così convinto che avesse.