Il Manterrupting è un fenomeno descritto e divulgato ormai da molti anni. Da tanti anni esplorato, ridicolizzato, caricaturato, sezionato, analizzato. Solo cercando l’hashtag sui social network vengono fuori centinaia di esempi, di ricerche, di articoli che lo illustrano…perché allora parlarne di nuovo?

Marianne è una giovane dirigente in una multinazionale, arrivata in ruolo dopo essere stata inserita in un programma di sviluppo per alti potenziali. Durante una delle sessioni di coaching individuali incluse nel programma, Marianne arriva molto arrabbiata. Mi racconta che spesso le capita di partecipare a riunioni, con colleghi e livelli manageriali più alti del suo. Prima di queste riunioni si prepara scrupolosamente sui temi all’ordine del giorno, ma le capita spesso di partecipare e non riuscire a dare il suo contributo. In coaching mi racconta dell’ultima riunione. Mi dice che era su un tema che conosce molto bene, che aveva preparato tutta una serie di dati per contribuire alle decisioni, che ha cercato più volte di condividerli ma che alla fine ha dovuto rinunciare: è stata infatti interrotta praticamente subito quando ha iniziato a parlare.

Dagli anni ’80 in poi, numerose ricerche in ambito universitario hanno iniziato ad evidenziare questo fenomeno, mostrando che le ricercatrici venivano interrotte molto più spesso dai loro colleghi maschi, per i quali, inoltre, il tempo di parola misurato era molto maggiore che per loro.

Interrompere qualcuno in una conversazione, di tanto in tanto, è normale: serve ad aggiungere informazioni, per riportare l’altra persona all’argomento, per mostrare accordo, per limitare la verbosità… Ma durante gli anni ’90 si è continuato ad approfondire il fenomeno ed un’ipotesi incomincia ad emergere: non tutte le interruzioni sono uguali, alcune sono del tutto invadenti e, dietro di esse, c’è il desiderio, conscio o inconscio, di mettere in dubbio la legittimità della parola della persona che sta comunicando.

Le teorie sistemiche sulle relazioni (Gregory Bateson, P. Watzlawick), in particolare la descrizione dei diversi livelli della comunicazione umana, ci forniscono spunti interessanti per analizzare ciò che accade nel “manterrupting”: c’è un livello di contenuto, nella comunicazione, che possiamo chiamare livello 1, in cui l’interruzione serve effettivamente ad aggiungere informazioni, esprimere un’opinione, far circolare la parola tra i partecipanti alla riunione. In questo livello possiamo analizzare il “cosa” si scambia nella comunicazione e renderci conto, per esempio, che effettivamente i contenuti aggiunti contribuiscono all’obiettivo della stessa.

C’è anche un livello 2, che definisce la relazione tra i partecipanti alla conversazione, inclusa la distribuzione del potere tra loro. E’ un livello nel quale possiamo analizzare il processo della comunicazione, il “come”. Una ricerca dell’Università di Princeton ha dimostrato che il manterrupting è, per gli uomini che lo praticano, piuttosto un modo di ristabilire relazioni di potere che sentono minacciate dalle donne.  E’ come se, interrompendo, la comunicazione passata implicitamente all’altra parte fosse “guarda quello che tu dici non è importante, perché tu non sei importante”. Se interrompere avendo presente gli obiettivi della comunicazione (il perché) può rivelarsi utile, il manterrupting è disfunzionale perché il suo obiettivo inconsapevole non è arricchire la conversazione ma semplicemente esercitare il proprio potere, che si sente minacciato.

L’azienda di Marianne ha, come succede in molte aziende, programmi intorno alla DE&I ed agli unconscious bias di genere. Nelle dichiarazioni del top management riguardo la cultura ed i valori dell’azienda c’è quindi la volontà di andare verso una condizione di equità, nella quale il genere non debba influire sulle competenze o sulle relazioni professionali, ma il focus sia sulle performance. E’ la teoria “dichiarata” che dovrebbe definire ciò che le persone dovrebbero fare per produrre risultati.

Ma se analizziamo il caso di Marianne dentro lo schema relazionale descritto più sopra, ci rendiamo conto che, in maniera inconsapevole la “teoria in uso” (ciò che accade veramente, al di là delle dichiarazioni) è ben diversa. I colleghi di Marianne inconsciamente (o consciamente?) operano nel senso di ristabilire una relazione di potere su di lei, interrompendola durante le riunioni.

Negli intenti, si cerca di operare un cambiamento, stimolando le donne ad “osare”, a prendere i loro spazi: all’interno del programma talenti stesso, nel quale Marianne è inserita, ci sono moduli sulla leadership delle donne.  Ma dietro il manterrupting c’è una spinta viscerale, un’occupazione patriarcale del territorio che non tollera essere messa in discussione. Il silenzio di Marianne corrisponde ad una accettazione implicita delle regole del gioco. Il modello mentale culturale del potere maschile non deve essere messo in discussione.

Perché, dopo tanti anni e tante dichiarazioni, la parità di genere sembra ancora così lontana?

C’è un primo passo, molto importante, che è stato fatto. Quello di nominare il fenomeno e descriverlo per dare chiavi di lettura ad una realtà spesso inspiegabile, per donne e uomini, e non solo sul posto di lavoro. Dopo la consapevolezza, c’è l’azione che deve seguire.  E per questo ci sono diverse strade. Una strada possibile è rendersi conto, collettivamente, di quali sono i modelli di leadership premianti di come la leadership si manifesta, per donne e uomini, e poi immaginare una nuova leadership, diversa,  più piena, meno guidata da leggi che andavano bene (forse!) per uomini e donne in altre epoche ma che non sono più adatte alle sfide delle organizzazioni del XXI secolo.

Con Marianne, nel percorso di coaching, è stato molto importante partire da questa osservazione, che l’ha aiutata a capire che quello che sta succedendo non è colpa sua: non c’entrano il suo grado di preparazione, le sue competenze, la sua personalità.  E’ importante, per non aggravare ciò che sta succedendo attribuendosi colpe che non esistono, che i diversi fenomeni vengano letti all’interno dei contesti nei quali si producono.  Le chiavi che vengono dalle teorie delle relazioni di gruppo sono particolarmente utili, per non limitarsi ad una lettura personalistica. Quali modelli mentali inconsapevoli condizionano le azioni delle persone all’interno di questo sistema?   A questa domanda Marianne può rispondere, ma un interrogarsi collettivo potrà essere molto più efficace, per produrre davvero un cambiamento profondo. In coaching abbiamo poi aperto sulla domanda “cosa è concretamente in mio potere perché la situazione cambi?”. Una esplorazione realistica è importante per accompagnare la persona ad operare ad un livello di responsabilità possibile e non su un’idea onnipotente rispetto alla trasformazione, che rischia di essere consolatoria sul breve periodo e molto frustrante sul medio lungo, una volta presa coscienza che non è solo l’azione di un individuo che può operare su un modello culturale ma quella di un collettivo.

Dal suo punto di vista Marianne può lavorare sulla sua assertività, sulla sua capacità di far notare immediatamente agli uomini che la interrompono la dinamica nella quale sono presi dicendo qualcosa del tipo “Mi hai appena interrotto, ma continuerò quello che stavo dicendo” o “Stavo parlando, adesso finisco quello che stavo dicendo”. Sono alcuni dei temi che stiamo affrontando, insieme al gruppo di donne che sono coinvolte nei laboratori sulla leadership, nella stessa azienda. Questo tipo di intervento permette di interrompere il circuito vizioso. Non si interrompe l’altro parlando più forte ed aggiungendo contenuto (livello 1) ma ridefinendo la relazione (livello 2). Un altro tipo di intervento sull’assertività è quello di evitare qualunque frase che mini la legittimità di Marianne ad intervenire in quella riunione. Questo significa lasciare perdere tutte le aperture del tipo “Scusate ma vorrei aggiungere…”, “Forse sarebbe importante anche tenere conto di…” etc. sostituendole con, ad esempio “Vi esporrò ora alcuni dati di cui è importante tenere conto…” “L’argomento a favore di questa decisione è…” etc.

Un’altra pista di cambiamento è lavorare nel creare alleanze, sia con altre donne sensibilizzate al tema ed anche con uomini. E’ questo il tema della “allyship” e della sua importanza nei processi di trasformazione che toccano la DE&I. Insieme a Marianne abbiamo prodotto una “carta degli e delle alleate e sponsors” e di come lavorare su queste alleanze. Senza un’alleanza possibile con la parte “dominante” è molto più difficile che le agenti di cambiamento possano raggiungere i risultati sperati, nell’attesa che gli interventi sulla cultura organizzativa portino i loro frutti. Allearsi è diverso dal semplice “fare network”. Gli e le alleate possono, ad esempio in una situazione di manterrupting, interrompere a loro volta l’interruttore per ridare la parola alla donna interrotta, rompendo in questo modo la dinamica relazionale “a due”. Passare dal due al tre, nella relazione, significa, oltre che evitare il rischio di escalation “ti interrompo più io”, fare un passo verso il collettivo. Il gioco non è più tra gruppo dominante e gruppo dominato, la terza parte ha anche il ruolo di interrogare lo status quo e promuove il movimento.