Questa mattina leggendo il giornale sono stata colpita da una notizia. Una famiglia di Palermo aveva accettato di accogliere profughi provenienti dall’Ucraina, in particolare studenti di economia e medicina. Quando i profughi sono arrivati, la famiglia si è resa conto che i due giovani venivano sì dall’Ucraina ma erano due studenti nigeriani che studiavano a Kiev, che stavano scappando dalla guerra e si è rifiutata di occuparsene. Come è passata la famiglia da una intenzione caritatevole, generosa, compassionevole come quella di accogliere a quella di respingere? Nell’articolo si ipotizzava che due fattori fossero alla base di questo comportamento: il colore della pelle e la provenienza.

 

In connessione con questo episodio, nel post di questa settimana vorremmo esplorare un concetto molto interessante, che genera tutta una famiglia di stereotipi, quello che una bella parola inglese definisce “othering” – che potremmo tradurre con “altro da sé” – traduzione alla quale manca la dinamica della parola inglese che, per questo, continueremo ad utilizzare nel post.

 

La nostra relazione con il mondo esterno consiste in una serie di atti valutativi continui, che ci permettono di formare categorie che, riducendo la complessità dei segnali che riceviamo, ci fanno costruire rappresentazioni della realtà approssimative e riduttive, che però hanno il grande vantaggio di consentirci di prendere decisioni veloci. Le categorie hanno un ordine gerarchico per cui la macro categoria poi può contenere una serie di sotto informazioni che le sono collegate.

Questa modalità del conoscere è stata necessaria per la nostra evoluzione, ci ha permesso di prendere decisioni veloci anche se approssimative attivando i meccanismi basilari di attacco/fuga. Queste categorie funzionano sia per la percezione dell’ambiente più in generale che per la percezione delle nostre relazioni con gli altri, attivando dei confini tra chi appartiene al nostro gruppo e chi no.

Il termine “othering” ci aiuta ad esplorare questo processo quando esso avviene a livello sistemico sulla base di una caratteristica (orientamento sessuale, genere, colore della pelle, disabilità, età…) attribuita collettivamente culturalmente agli “altri” e che diventa poi fonte di discriminazione, di ingiustizie, di conflitti, di guerre, di grandi sofferenze umane. Da un punto di vista politico è importante notare che il processo di othering è attivato da chi controlla le risorse, il gruppo dominante, che attraverso esso esclude gli “othered” dal potere distributivo, in un circolo vizioso di esclusione e perdita di risorse/potere che generano ancora più esclusione e così via.

 

Negli anni ’60 Mrs Jane Elliot, una insegnante dell’Iowa ha ideato un interessante esperimento a questo proposito. In una classe omogenea per colore e status sociale ha indotto una discriminazione basata sul colore degli occhi, creando artificialmente un gruppo dominante e un gruppo dominato all’interno della classe (potete trovare numerosi video su questi esperimenti su Youtube). Molto velocemente (una giornata) i bimbi dominanti hanno incominciato una escalation di esclusione e di violenza verso il gruppo dominato.

Mrs. Elliot ha ripetuto lo stesso esperimento nel corso degli anni con adulti e con altre classi, ottenendo sempre lo stesso risultato. L’obiettivo iniziale era di sperimentare una dinamica di esclusione tra un gruppo di persone “in-group”, con caratteri di omogeneità molto marcati. Ciò che è interessante, a proposito del processo di othering è che il pregiudizio, creato ad hoc dalla leadership del gruppo, ha preso piede dove era completamente assente, generando una spirale di violenza.

 

La comunicazione politica delle destre estreme sembra, tra gli altri, avere proprio questo obiettivo. Fare leva sulle paure, cercando poi di organizzarle, di manipolarle e di trarne vantaggi. Una comunicazione che ha come obiettivo di creare forme di “othering” là dove non esistevano, o di aumentare l’othering là dove era già latente.

 

Nel 2008 il gruppo di ricerca composto da Amy Cuddy,Susan Fiske e Peter Glick ha pubblicato una ricerca molto interessante intitolata “Competence as Universal Dimensions of Social Perception: The Stereotype Content Model and the BIAS Map”, nella quale era contenuto un modello di interazione tra individui e gruppi, basato su due dimensioni essenziali nella relazione umana: la percezione di calore – quanto l’altra persona mi è vicina, simile, simpatica etc, e la percezione di competenza. Incrociando le due dimensioni in una matrice si ottengono quattro categorie di relazione. Quella che ci interessa ora approfondire (per le altre rimandiamo alla ricerca) è quella dei gruppi percepiti come “basso calore, bassa competenza”.

 

In un’altra ricerca sui neuroni specchio che sono quelli che, lo ricordiamo, ci permettono l’empatia, si è dimostrato che nel cervello dei soggetti indagati la sofferenza di persone classificate nel gruppo “Disgust” non produceva alcun movimento di questi neuroni, dimostrando una totale assenza di empatia e compassione verso questi esseri umani. Quando nel processo di othering l’altro viene classificato come appartenente al primo quadrante in basso della matrice le sue sofferenze ci sono quindi completamente indifferenti.

 

E’ forse questo che è successo alla famiglia palermitana che ha rifiutato di accogliere i profughi? L’ipotesi può essere che, data la loro provenienza, i due giovani siano passati da “Simpatia e pietà” al quadrante sotto, generando il distacco emotivo della famiglia dalle loro sofferenze, se pur le stesse che avevano prodotto l’offerta di asilo quando portate dalla popolazione Ucraina immaginata bianca.

E’ questo processo che fa sì che i profughi di guerra siano distinti in categorie, e che per alcune di queste categorie, in particolare per coloro che muoiono quotidianamente cercando di attraversare il Mediterraneo, non ci sia compassione, ma anzi un dibattito sulla chiusura delle frontiere?

 

Nel bell’articolo “The problem of othering Towards inclusiveness and belonging” john a. powell e Stephen Menendian si chiedono quali risposte sistemiche dare all’othering (se il tema vi interessa non esitate a visitare il sito dell’università di Berkeley otheringandbelonging.org, ricchissimo di materiali).

 

I due autori analizzano le risposte sistemiche date fino ad ora, tutte creatrici di grande sofferenza umana oltre che di un insieme di altri problemi, in particolare

  • la segregazione – negazione dell’umanità dell’altro, che separa artificialmente i gruppi che rischiano di confliggere, impedendone i contatti e l’accesso alle stesse risorse, come accade ad esempio nelle banlieues parigine, con il risultato in questo caso di portare alla radicalizzazione di alcune di esse;
  • la secessione – destinare un territorio agli “altri”, arbitraria etichettatura sulla base di una sola dimensione che storicamente si è dimostrata funzionare raramente e che, dando per scontato l’omogeneizzazione sulla base di un criterio non considera che poi dentro i territori separati ci saranno altri “othering” all’opera;
  • l’assimilazione – con il suo corredo di obblighi, per la parte dominata, di adeguarsi alla parte dominante rinunciando in toto alla sua cultura, lingua, religione…nella quale chi si assimila rinuncia ad elementi chiave della sua identità per continuare ad essere considerato “other”

 

La conclusione è che l’unica dinamica possibile che si contrappone all’othering è l’appartenenza. Non l’appartenenza concessa a posteriori, dopo che le risorse sono state distribuite, ma prima. L’appartenenza nella quale non si chiede all’altro di “fit in”, adeguarsi, ma quella che ha alla sua base un’idea di equità condivisa, nella quale le regole del gioco sono discusse insieme, non stabilite unilateralmente dalla parte che ha potere.

L’appartenenza che va oltre il concetto di inclusione, nella quale non c’è una parte che decide chi è dentro e chi è fuori, ma nella quale, insieme, utilizzando il dialogo, si stabilisce come vivere insieme. La leadership che serve questo scopo, la leadership dell’appartenenza ha come obiettivo la rigenerazione delle relazioni e, con esse, dei sistemi, esattamente come avviene in Natura.

 

Photocredit ©Reuters