Cominciamo questo post raccontandovi una storia, per parlare di un bias che riguarda proprio il fatto di raccontare storie, ma anche per parlare di come il rischio di una visione meccanica della realtà può farci andare fuori strada.
Durante la seconda guerra mondiale, in UK un gruppo di ricercatori si trovò di fronte al problema di come riprogettare gli aerei in modo da minimizzarne le perdite. L’idea di partenza era quella di analizzare gli aerei ritornati alla base, se pur colpiti da proiettili nemici. Analizzandoli i ricercatori scoprirono che i proiettili avevano colpito soprattutto le ali e la coda, traendone la conclusione che queste parti andavano rinforzate perché più esposte di altre.
Fortunatamente Abrham Wald, un matematico che partecipava al progetto, prima che il gruppo incominciasse ad intervenire sugli aerei, ebbe un’intuizione: al campione mancava la parte fondamentale, quella degli aerei abbattuti. Andando ad osservare gli aerei non ritornati si poteva infatti trovare una pista interessante per la riprogettazione: era il motore ad essere la parte debole, non la coda o le ali! Gli aerei caduti, cruciali per capire le vere ragioni della vulnerabilità, non erano presenti perché non ritornati.
Il bias del sopravvissuto è un tipo di bias che impatta la selezione del campione da considerare come significativo analizzando un fenomeno. Si verifica quando un individuo scambia un sottogruppo di successo visibile con l’intero gruppo. In altre parole, dimentichiamo di considerare tutti i dati su coloro che non ce l’hanno fatta.
Il bias del sopravvissuto, oltre che una grande lezione su quanto sia importante formare dei campioni consistenti, quando vogliamo davvero comprendere un fenomeno, è un buon punto di partenza per ascoltare in modo critico i vari storyteller e guru che ci raccontano storie di successo: «come ho fatto il mio primo milione di euro» «come ho fondato la start up che ha levato 20 milioni di fondi» «come ho inventato il prodotto rivoluzionario» etc. Ma questo storytelling non ci permette di ascoltare anche le storie di tutte le altre persone alle quali non è riuscito di lanciare la propria start up, di ottenere enormi finanziamenti, di arricchirsi, non dà elementi per riferirci anche alle “worst practices”.
Questo non è il solo limite dello storytelling, esiste anche un altro rischio che possiamo correre quando prendiamo le storie raccontate dai e dalle role-model partendo da una visione meccanicistica della realtà.
Su un progetto di Diversity & Inclusion sul genere, potrebbe per esempio sembrare un’ottima idea quella di elezionare una donna e raccontarne la storia con l’intento di motivare altre a seguire il cammino tracciato. Ma questo esercizio rischia di farci perdere di vista che ci sono elementi specifici SOLO di questa storia che non si trovano nelle altre storie: quali condizioni specifiche nel contesto nel quale la persona agiva, quindi ad esempio quale cultura organizzativa, ma anche quali condizioni interne, quali schemi mentali ha dovuto superare. Nel role-modelling si rischia quindi di non tenere conto del fatto che gli investitori prestano meno alle donne, alle persone più povere etc.
Insomma l’esercizio rischia di essere ispirante sul momento ma, scollegato dal contesto e dal sistema nel quale la persona ha agito, di lasciare le persone che ascoltano con l’illusione di poter declinare acriticamente la storia nel proprio contesto. Per dirla in un altro modo, individuando le cause del successo nell’individuo, ci rendiamo conto delle cause contestuali e sistemiche, che spesso sono molto più strutturali per il risultato rispetto all’eroismo personale. Inoltre nel caso degli aerei la risoluzione del problema è relativamente semplice e meccanica: una volta che scoperto nel campione il bias del sopravvissuto poi si può facilmente intervenire sulle vere ragioni e rinforzare la parte del motore.
Ma se prendiamo il caso della riuscita personale o professionale, e ad esempio nella storia raccontata la persona ci dice che ha dovuto imparare ad avere fiducia in se stessa, a negoziare con investitori scettici etc, possiamo davvero pensare che una volta ascoltata poi si inneschi un cambiamento immediato? Questi fattori richiedono infatti molto tempo per evolvere, e non seguono un semplice schema insight -> risoluzione.
Al contrario, la trasformazione dei propri schemi psichici invalidanti richiede qualcosa di più che la semplice consapevolezza di averli; richiede un lavoro interiore che non si risolve con un semplice click. Nel caso degli aerei siamo in un sistema, se pur con tante variabili, semplice: l’intuizione che il campione è da rivedere ci basta per risolvere il problema. Quando applichiamo questo bais al caso, ad esempio, di una start-up agiamo invece in un sistema complesso e molto meno automatico, nel quale diventa più difficile, anche una volta ascoltata la storia mancante, quella dei e delle “non sopravvissute” innescare davvero un cambiamento complesso.
Dobbiamo quindi concludere che queste pratiche sono inutili? Assolutamente no! Anzi è importante dare visibilità a queste storie e continuare ad ascoltarle ed a raccontarle. Così come è importante raccontare anche le storie dei fallimenti, di coloro che non hanno avuto successo, non hanno ottenuto il finanziamento, non hanno lanciato la start up.
Raccontare le storie il più possibile intere, fornendo gli elementi di contesto ma anche facendone un’analisi razionale per capire ciò che è applicabile alla nostra, di storie, e cosa ci insegna rispetto al nostro contesto, alle nostre risorse, cosa la storia che abbiamo ascoltato mette in luce rispetto ai nostri modelli mentali, senza pensare di poterla riprodurre in maniera acritica. Chissà, potrebbe anche indicare altri punti di leva strutturali che devono essere attivati prima che i singoli individui possano davvero sbocciare, per quanto possano aspirare a essere eroici…