La conversazione sulle differenze etniche non è mai facile, all’interno di un gruppo. D’altra parte, dopo il movimento #blacklivesmatter, avere questo tipo di conversazioni ed agire di conseguenza è diventata una necessità ed un punto di partenza per creare ambienti organizzativi nei quali equità ed appartenenza possano acquisire un senso concreto, al di là delle dichiarazioni di intenti e degli hashtag sui social.
Mi capita spesso di osservare, nei gruppi per i quali lavoro, che quando si arriva a nominare il razzismo vissuto da una parte dei membri, dopo un primo momento nel quale si riesce a fare un passo di consapevolezza, diventa poi molto difficile proseguire davvero la conversazione e chiedersi cosa fare concretamente. E’ come se una specie di gelo imbarazzato arrivasse nella stanza.
Nella mia esperienza quello che è difficile è da un lato parlare delle proprie emozioni e dei propri vissuti sul tema e dall’altro non lasciare i sensi di colpa e la vergogna prendere tutto lo spazio nella relazione e rendere impossibile uno scambio che sia davvero trasformatore.
Questa settimana mi sono trovata più o meno in questa situazione, insieme al gruppo con il quale stavo lavorando. Dopo molti tentativi di evitare il tema, il gruppo finalmente era riuscito a nominare una grande fonte di conflitto che era restata latente fino a quel momento, “l’elefante nella stanza”: il fatto che una parte dei suoi membri, di etnia afro-americana, si sentisse sistematicamente esclusa dai luoghi di decisione, le loro voci dimenticate o comunque non ascoltate.
Ho cercato più volte di rilanciare il tema ma ogni volta il gruppo pur riconoscendo che era importante parlarne ed agire di conseguenza, trovava il modo di deviare verso altri temi.
Una delle cause possibili di questa dinamica è quella che che viene chiamata “white fragility”, descritta nel bel libro dallo stesso titolo di Robin DiAngelo: si tratta dello stress provato dai bianchi, nell’avere questo tipo di conversazioni, nell’atteggiamento difensivo che viene assunto quando si tratta di parlare di razzismo nell’incapacità di elaborare informazioni ricevute su questo tema.
La “fragilità bianca” può scatenare emozioni molto forti come rabbia, paura, vergogna. Ma anche “benaltrismo” tentativo di spostare l’attenzione su altre forme di discriminazione, minimizzazione, quando si cerca di togliere importanza al problema con accuse di esagerazione e di eccessiva suscettibilità fatte alla parte lesa, esattamente quello che stava succedendo nel gruppo col quale stavo lavorando.
Mi sono chiesta come arrivare ad avere una conversazione aperta, quali barriere la impedivano e mi sono detta che forse i diversi tentativi per parlare di questa dinamica così viscerale in modo razionale non toccavano le giuste corde e che la strada giusta per iniziare una conversazione profonda era quella del corpo.
Ho proposto al gruppo , al posto del rituale check in di inizio sessione, di comporre una statua vivente, usando alcuni spunti del Social Presencing Theater insieme ad alcune tecniche di psicodramma. Ho chiesto ad un sotto gruppo di volontari di interpretare, ciascuno, i seguenti personaggi: i clienti, la casa madre in Europa, le persone Europee del gruppo, i membri afro-americani, il gruppo di leadership, i membri europei, l’Europa, il Sud del Mondo. Il resto dei membri del gruppo facevano da spettatori.
I volontari hanno incominciato a muoversi nello spazio ed ho chiesto loro, una volta che si sentissero pronti, di formare una scultura vivente che rappresentasse la situazione attuale. Una volta formata la scultura “situazione attuale” ho poi chiesto loro di esprimere le loro emozioni ed i loro pensieri da questa posizione.
L’esercizio, che era cominciato con alcune risate, è continuato in un silenzio totale. Il gruppo sembrava profondamente coinvolto e la statua vivente che i membri hanno formato era una rappresentazione potente e chiara della dinamica di esclusione in corso.
Poi i volontari componenti della scultura hanno incominciato ad esprimersi. La frase “Mi sento soffocare, sento che non ho voce, vorrei poter parlare ed essere ascoltata, vorrei poter accedere a ruoli di potere, non solo ascoltare” con il suo rimando alla morte atroce di George Floyd, ha prodotto grande commozione nell’uditorio.
La persona che interpretava il gruppo di leadership ha rappresentato la situazione attuale con un braccio, messo affettuosamente (ma anche paternalisticamente) sulla spalla dei membri afro-americani.
Una volta che tutti i membri si sono espressi ho chiesto loro di far evolvere la scultura per rispondere al nuovo purpose che il gruppo si era dato per il futuro, sciogliendo i nodi e gli schemi mentali, in particolare la dinamica in-out group, che avrebbero impedito loro di creare un’alleanza autentica per raggiungere i loro obiettivi.
La conclusione dell’esercizio è stata una elaborazione collettiva, a partire dalla domanda “cosa è cambiato in me avendo assistito a questo esercizio?” che ha permesso a ciascuno di esprimere punti di vista e vissuti. Molti membri del gruppo hanno potuto esprimere la vergogna, il dolore, le ferite inferte da questa dinamica di esclusione.
Il risultato è stato un impatto radicale sui piani di azione che erano stati prodotti nei giorni precedenti, cha ha tenuto conto di questo momento collettivo di trasformazione, per riformularli con l’obiettivo di rigenerare le relazioni ed in questo modo rigenerare l’appartenenza per tutti. Il gruppo di leadership che si è formato in seguito ha potuto, finalmente, includere anche coloro che fino ad allora erano stati esclusi.