Qualche settimana fa, ho trascorso una giornata molto piacevole e interessante in compagnia di un gruppo di studenti di relazioni internazionali della John Hopkins University, guidandoli alla scoperta del tema della negoziazione. L’introduzione all’argomento è avvenuta attraverso un gioco basato sul famoso “dilemma del prigioniero”: come spesso accade, molte persone lo conoscono da un punto di vista teorico, ad esempio perché lo hanno incontrato durante i loro studi di economia o di scienza delle finanze, ma nella pratica questa conoscenza razionale è come se fosse diventata inaccessibile, come vi racconterò nel blogpost.

Il dilemma del prigioniero è un problema classico della teoria dei giochi ed esplora il processo decisionale razionale quando, tra due o più individui o gruppi, esiste una possibile negoziazione aperta. Per chi non lo conoscesse, si inizia immaginando che ci siano due criminali arrestati e detenuti in due celle separate, senza possibilità di comunicare tra loro. Chi li interroga propone a ciascun detenuto separatamente un patteggiamento: se uno confessa e l’altro no, il primo ottiene una pena ridotta, il secondo una pena più severa; se entrambi confessano, ottengono una pena moderata, se negano entrambi il massimo della pena. Il dilemma sta nel fatto che le scelte sono collegate e che se uno dei due confessa, l’altro rischia una pena più severa.

Uno dei giochi creati per sperimentare in prima persona il dilemma del prigioniero prevede la formazione di due gruppi e un meccanismo di conteggio dei punti illustrato nel riquadro. Il gioco viene poi ripetuto un certo numero di volte, per dare ai giocatori l’opportunità di sperimentare le conseguenze della loro strategia ed eventualmente giocare in modo diverso. Giocare e poi confrontarsi con la teoria sottostante è divertente e genera un apprendimento profondo: la forte esperienza emotiva che il gioco consente aiuta a fissare gli elementi teorici. La prima volta che mi è capitato di giocarci ero ancora all’università e, pur avendo una buona conoscenza della teoria dei giochi, sono caduta proprio nella trappola del “fixed pie mindset”, insieme alla mia squadra: un’esperienza che non ho mai dimenticato.

Il “Fixed Pie Mindsetsi ripete ancora, piuttosto puntualmente, con gli studenti o nelle aule di formazione a cui propongo l’esercizio. Esso consiste nell’incapacità di “allargare la torta”, esplorando tutti i possibili fattori e strategie negoziali, trattando la controparte come un nemico da battere.

Razionalmente, i giocatori sanno come dovrebbero comportarsi, spesso conoscono, da un punto di vista teorico, le diverse possibili strategie di gioco, ma quando sono coinvolti nell’esperienza concreta, qualcosa di molto viscerale sembra guidare le scelte. Nel gioco, esattamente come nella formulazione dei due prigionieri, c’è una situazione iniziale di isolamento e di impossibilità di scambio di informazioni tra le due o più parti coinvolte che lavorano in stanze separate. Ogni gruppo, all’inizio, ha dieci minuti per decidere la propria strategia di gioco.

È in questo momento che iniziano le fantasie sulle intenzioni dell’altro gruppo e spesso nel gruppo nasce la certezza che, poiché gli altri hanno cattive intenzioni, bisogna difendersi. Da questo momento in poi, la strategia win-win è completamente nascosta.

Alcune osservazioni durante questa fase in cui i gruppi affrontano l’incertezza e lo stress dovuti alla pressione del tempo e alla situazione sconosciuta:

  • Spesso i gruppi discutono partendo da una rappresentazione del sistema che non tiene conto degli altri, di come si costruiscono i punteggi, del fatto che la possibilità di ottenere punti positivi per il proprio gruppo è legata a come giocherà l’altro gruppo: la difficoltà di affrontare la complessità nella descrizione del sistema, di includere l’altro nella propria strategia, crea un’illusione di semplicità e linearità del gioco. Questa percezione semplificata impedisce poi di vedere, nella pratica, che esiste una strategia collaborativa che permette di raggiungere un risultato non ottimale certo – il miglior risultato possibile per un gruppo è quando, sistematicamente, si riesce a far giocare l’altro gruppo in modo “autolesionista”, ma questo, a parte i casi patologici, non è realistico – che è quella che permette a entrambi i gruppi di non terminare la partita con un punteggio negativo. Paradossalmente, questa strategia, lose-lose, non è razionalmente preferita, ma di fatto finisce per essere scelta.
  • Quando i gruppi discutono sul significato di “vincere”, viene evocato il “fare più punti degli altri”: si tratta di un fenomeno percettivo su cui torneremo più avanti nell’articolo.
  • È difficile percepire che, essendo ridotta la comunicazione orale, il sistema di comunicazione nelle prime fasi del gioco consiste nelle mosse di gioco e che, in particolare, la prima mossa di gioco comunicherà chiaramente le intenzioni dei giocatori: la riduzione della possibilità di comunicare genera sfiducia, questa genera prime mosse di gioco generalmente ostili, e la diffidenza iniziale diventa una spirale dalla quale è poi difficile uscire.
  • A volte uno dei gruppi si rende conto della corsa alla rovina quando si gioca con la strategia solo competitiva e cerca di cambiare il gioco, ma spesso è troppo tardi e il clima di sfiducia reciproca è ormai consolidato.

Ci sono due condizioni importanti che fanno sì che la torta venga percepita come fissa: la prima riguarda le aspettative, e in particolare la semplificazione della realtà che consiste nel descrivere il sistema come “win-lose”. Perché questo accade? Le spiegazioni possono risalire alla nostra storia evolutiva, in particolare alle abitudini legate alla sopravvivenza e alla lotta per l’appropriazione delle risorse. Abitudini che vengono poi rafforzate culturalmente, ad esempio nelle organizzazioni, dalle metafore utilizzate, sulla leadership o sulle dinamiche di gruppo. L’uso massiccio, ad esempio, di metafore sportive favorisce l’attivazione di rappresentazioni “win-lose”.

La seconda condizione, legata alla prima, riguarda la trasparenza delle informazioni. Numerose ricerche mostrano infatti come, nonostante sia ormai noto che uno scambio chiaro e onesto di informazioni sulle preferenze e sui fattori negoziali tra le diverse parti possa aprire a risultati più efficienti nelle trattative, l’interpretazione del setting come esclusivamente competitivo porti all’opacità informativa, generando vere e proprie commedie degli errori con risultati insoddisfacenti per tutti.

Questo è ciò che è successo in classe con i miei studenti. Quando ha cominciato a circolare l’idea di “fare più punti degli altri”, l’altro gruppo è passato ad essere considerato da un gruppo di simpatici compagni e amici, con i quali si rimarrà in relazione per almeno un altro anno, al “nemico da battere”. Nei momenti in cui ai due gruppi è stato permesso di dialogare, gli ambasciatori inviati non hanno esitato a mentire. Le aspettative di competizione hanno generato comportamenti competitivi e sleali, the winner takes it all, la torta è una sola e si cerca di accaparrarsene la fetta più grande possibile.

Questo modo di percepire la negoziazione è detto “distributivo” (la ricchezza può essere distribuita solo più o meno equamente tra le due parti e l’obiettivo diventa quello di appropriarsene il più possibile). Il gioco si è concluso con l’insoddisfazione di entrambe le squadre che si sono rese conto dei punti negativi accumulati. Le emozioni verbalizzate sono state di frustrazione, rabbia, rammarico per le decisioni prese, risentimento per l’altra squadra.

Esiste un’alternativa al “Fixed Pie Mindset” ed alla negoziazione distributiva: si tratta del modello “integrativo”, che parte da aspettative aperte alla possibilità di cooperazione anche in un contesto competitivo, portando a una maggiore trasparenza nello scambio di informazioni e quindi alla possibilità che emergano interessi diversi e/o comuni, ampliando l’area di possibile accordo delle parti. Ma questo tipo di negoziazione, che è quella promossa tra gli altri dal modello dei ricercatori di Harvard, Ficher e Ury, e divulgata nel famoso testo “Getting to Yes”, si verifica solo nel 40% dei casi, secondo una meta-analisi condotta da un altro gruppo di ricercatori.

Questo 40% è particolarmente preoccupante se pensiamo a negoziati importanti, come quelli di pace – e ciò che sta accadendo proprio ora nei negoziati di pace in Ucraina dovrebbe farci riflettere – e a un altro tipo di negoziato cruciale per il nostro futuro, i negoziati sul clima.

A questi, John Bazerman dell’Università di Harvard e Don Moore dell’Università di Berkeley hanno dedicato un interessante articolo in cui analizzano le cause del fallimento di molti processi negoziali legati al clima. Il “Fixed Pie Mindset”, con risultati perdenti per tutti, è dovuto, come descritto nell’articolo “The Human Mind as a Bareer to Wiser Environmental Agreements”, a una serie di fattori, alcuni generalizzabili a tutti i negoziati, come il modello competitivo semplificatore della complessità, applicato indiscriminatamente, come abbiamo illustrato in precedenza e, ancora, altri bias cognitivi, in particolare il bias dell’incompatibilità degli interessi, il bias della disponibilità di informazioni, il bias dell’ancoraggio, l’effetto memoria e, ancora, “l’effetto dotazione” – che spinge ad attribuire un valore maggiore a ciò che si possiede, e quindi a fare meno concessioni.

Infine, gli autori parlano di “pseudo-sacralità”, ovvero del fatto che il valore formatosi sul mercato non viene riconosciuto come rientrante nell’area di possibile accordo, perché il valore emotivo attribuito all’oggetto è molto diverso. Gli autori citano un esempio di questo fenomeno, verificatosi durante una negoziazione tra un’organizzazione che promuove l’ecoturismo, che evidenziava l’incapacità degli indigeni di prendersi cura della loro terra (secondo il loro punto di vista), e il gruppo messicano Lacandon Maya.

Il valore attribuito alla terra e agli alberi dagli indigeni era molto alto: essi ritenevano che, per ogni albero abbattuto, ci sarebbe stata una stella sottratta al cielo e quindi che la foresta dovesse essere assolutamente preservata. Un valore non misurabile e trascendente. Eppure questo gruppo ha raggiunto un accordo negoziato che ha permesso una parziale deforestazione a favore dello sviluppo di un turismo eco-responsabile. “Quando è stato chiesto loro (agli indigeni) come potessero accettare di far tagliare gli alberi, la risposta è stata che l’accordo era l’alternativa migliore per mantenere il maggior numero possibile di stelle nel cielo”. 

Certamente, l’esempio è adatto a illustrare il passaggio dalla contrattazione distributiva a quella integrativa e, di conseguenza, il superamento del “Fixed Pie Mindset”. Andando oltre, però, potremmo fare alcune ipotesi sul modello profondo e sistemico che guida questo accordo. Pur con tutte le buone intenzioni (ecoturismo, rispetto della terra, rigenerazione della foresta, ecc.) in questo esempio c’è l’idea di un sistema capitalistico paternalistico che “salva” dalla possibile autodistruzione – le popolazioni indigene sono accusate di non gestire la terra secondo criteri “eco-responsabili” decisi dagli acquirenti, in particolare per quanto riguarda la pesca e la caccia.

Ma in un’interessante analisi del caso, a cura dell’antropologa Valentine Lousseau, (seguite il link per maggiori informazioni https://journals.openedition.org/elohi/455?lang=en#tocto1n1) si precisa che “l’uso che viene fatto dell’area di Lacandon ha sempre suscitato l’interesse, se non la meraviglia, degli osservatori stranieri. Etnologi, biologi ed ecologisti hanno lodato l’efficienza di un sistema di produzione e di estrazione delle risorse che risulta perfettamente adattato all’ecosistema della foresta tropicale”.

In questo esempio, come in molti negoziati sul clima e sullo sfruttamento, l’esproprio e la spoliazione della terra, c’è un sistema di riferimento, un “assunto di base”, il mercato, che non viene mai messo in discussione e che guida l’analisi (anche dei ricercatori di Harvard) e la decisione finale, compreso l’allargamento della torta. Abbiamo visto, però, come questo modello contenga in sé una grande ombra, una distorsione interpretativa che costringe gli attori dentro un sistema competitivo, che nei negoziati sul clima porta ai risultati che stiamo vivendo, uno dei quali è il mancato accordo sui limiti delle emissioni di CO2 che portano al disastroso effetto serra, che renderà questo pianeta inabitabile molto prima di quanto fosse prevedibile. La metafora della torta porta in sé qualcosa di profondamente legato ad un paradigma di mercato e consumeristico. La torta, sia essa fissa o variabile, fa comunque riferimento al consumo, al momento nel quale essa sarà mangiata e non esisterà più.

Una alternativa è forse in un pensiero diverso, che non è più quello di come allargare la torta all’interno dello stesso sistema di regole e modi di leggere e operare, che ci riportano agli stessi errori e routine di comportamento. Potremmo chiederci se il “fixed pie mindset” invece come ripensare, ad un livello più profondo, gli assunti di base dai quali si parte. Una torta che non è più, quindi, “dentro” il sistema, ma il sistema stesso e la sua indiscutibilità. Il paradigma della rigenerazione (del quale potete leggere i principi sul blog), legato al funzionamento ecosistemico e naturalmente complesso, ci porterebbe ad esempio a chiederci: piuttosto che ingrandire una torta che sarà comunque mangiata, quali sono le scelte portano a rigenerare la vita piuttosto che consumarla, in un sistema in cui noi, le altre parti, l’ambiente siamo costantemente in relazione?

E voi, cari lettori del nostro blog, cosa ne pensate?