“Dio è morto, Marx è morto e neanche io mi sento molto bene”, diceva Woody Allen. Oggi, è quello che comunemente chiamiamo ‘il pianeta’ a non stare molto bene: alterazione del clima, aumento delle temperature e dei livelli delle acque, crollo della biodiversità, aumento delle malattie zoonotiche, di cui il Covid-19 è l’incarnazione devastante.

Entro il 2050, il pianeta Terra potrebbe essere invivibile per gran parte della popolazione mondiale, che sarebbe costretta a migrare verso Paesi le cui economie, se continuassero la loro traiettoria attuale, avrebbero poche possibilità di assorbire un tale shock migratorio.

Tanto più che la capacità stessa della Terra di continuare a nutrirci viene messa in discussione, non solo da illuminati catastrofisti con visioni apocalittiche, ma anche da scienziati rinomati, tra cui Dennis Meadows, autore del famoso ‘Rapporto del Club di Roma’ che, all’inizio degli anni ’70, aveva già modellizzato lo sconvolgimento della biosfera che stiamo vivendo oggi.

Questo futuro non è scritto. Si verificherà solo se non agiamo, se continuiamo a fare ‘business as usual’. Le soluzioni per realizzare un futuro diverso sono note: si possono riassumere in quella che la maggior parte delle persone chiama ‘transizione ecologica’, o in ciò che alcuni pionieri hanno già avviato: l’economia rigenerativa, ossia attività economiche che producono valore rigenerando gli ecosistemi da cui dipende la vita sulla Terra – la nostra vita.

Eppure, siamo costretti ad ammettere che non siamo in grado, collettivamente, di compiere questo passo, che è comunque benefico. Perché succede?

Il primo livello di spiegazione risiede nel nostro stesso modello economico. Sarebbe troppo difficile trasformarlo, o addirittura uscirne, perché siamo diventati così ‘dipendenti’ dalla crescita che una transizione ecologica rischierebbe di farci precipitare in una grande depressione economica. Queste argomentazioni sono ormai superate, non solo grazie agli studi scientifici e alla modellizzazione finanziaria degli ultimi dieci anni, ma soprattutto grazie alla rivoluzione del dogma che la crisi del Covid ha innescato: se la posta in gioco ne valesse davvero la pena, potremmo farlo, “costi quel che costi”.

Da qui l’importanza di esplorare un secondo livello di spiegazione: il nostro rapporto con la Natura, o più precisamente la nostra disconnessione, la nostra disunificazione con essa. Nel corso dei secoli, l’uomo si è estraniato dalla Natura, ha rimosso i legami inalienabili che lo iscrivono in questa ‘rete della Vita’. L’ha trasformata in un oggetto, esterno a lui; un oggetto da controllare, dominare e sfruttare per il proprio sviluppo. Che senso ha ‘salvare il pianeta’ se è una merce come un’altra?

Oggi, la maggior parte del discorso politico rimane ancorato a questa visione utilitaristica della Natura. All’estremo, ci sono i discorsi bellicosi, che vedono il cambiamento climatico e le sue conseguenze come fenomeni estranei a noi; come nemici della nostra bella vita che dovremmo combattere facendo la ‘guerra al clima’.

Ma anche nei discorsi più misurati e altrettanto volontaristici, è la visione utilitaristica a predominare: siamo invitati a impegnarci in questa transizione ecologica per preservare le condizioni di vitalità della specie umana sul pianeta per i secoli a venire; per lasciare ai nostri figli un mondo vitale, vivibile e sostenibile; per rilanciare l’economia grazie a una crescita verde che rispetti gli ecosistemi da cui dipendiamo.

Anche se tutto questo è indubbiamente vero e lodevole, notiamo una grande assenza in questi discorsi: il significato della nostra vita sulla Terra e il nostro posto nella grande narrazione della creazione. Beh, non completamente assente, perché l’8 novembre 2020, per il suo discorso inaugurale, il nuovo Vicepresidente della Bolivia, David Choquehuanca, non ha fatto le cose a metà.

Il suo discorso, passato in gran parte inosservato dai media occidentali, ha delineato un progetto politico che trae esplicitamente la sua fonte e la sua legittimità dalle storie indigene della Bolivia sulla creazione della vita sulla Terra e sui legami indissolubili che ci legano alla Natura.

Dopo un lungo incipit in cui ha ancorato la sua autorità chiedendo il permesso agli ‘Dei, agli anziani, alla Pachamama (Madre Terra), agli Achachilas (spiriti protettori)’, Choquehuanca presenta la sua visione di una Bolivia che recupera la sua unità e la sua vitalità ricollegandosi ai principi della vita e, così facendo, si assicura che tutti i boliviani siano inclusi in questa prosperità e che nessuno sia lasciato indietro.

Questo è un discorso di un Capo di Stato diverso da quelli che sentiamo di solito, pieni di cifre, indicatori e acronimi complicati. Un discorso che ci sfida ad un altro livello della nostra umanità: quello del significato della vita, della sua dimensione sacra e della nostra appartenenza al cuore di questa rete della vita.

Ci ricorda perché l’uomo, sulla Terra, è invitato a lasciarla in uno stato migliore di quello in cui l’ha trovata – non per sottomettersi a un imperativo morale, ma, al contrario, per vivere pienamente la sua natura ontologica di Essere umano.

David Choquehuanca non è il primo capo di Stato a fare una dichiarazione del genere. Papa Francesco (sì, il Vaticano è uno Stato!) lo ha fatto prima di lui, nella sua enciclica Laudato Si’ del 2015. Anche in quell’occasione abbiamo sentito proposte economiche e sociali molto forti, ancorate a uno spirito di giustizia, solidarietà e, naturalmente, rispetto per la Terra; e tutte derivavano da una grande narrazione della creazione e del posto dell’uomo in questa narrazione. Sebbene ci siano ovviamente delle differenze nelle prospettive teologiche tra questi due statisti, le loro convergenze sono molto più grandi di queste differenze.

È questo che manca alle nostre società occidentali secolarizzate per compiere il passaggio all’ecologia con anima e corpo? È tornato il tempo delle grandi narrazioni? Senza dubbio. E storie che ci uniscano più di quanto ci separino, l’altra grande mancanza che le nostre società stanno vivendo in questo momento.