Se avete letto altri post del nostro blog, avrete già capito che in Nexus, usiamo il processo U per progettare praticamente tutti i nostri interventi. Quindi non entrerò nei dettagli del processo stesso; il mio scopo qui è di descrivere una metodologia che ho usato alla base della U, in quella fase di Presencing in cui un gruppo, con Mente Aperta, Cuore Aperto e ora Volontà Aperta, è invitato ad aprirsi alle idee, possibili soluzioni o modi di procedere, che possono venire dalla situazione stessa – “dal campo”, come dice Otto Scharmer.
Immaginate questa situazione: un gruppo di 39 persone ha appena elaborato collettivamente un quadro collettivo della sua realtà organizzativa vissuta e di come questa si collega al contesto esterno. il gruppo ha identificato i punti di forza e di debolezza organizzativi; ha identificato e nominato le opportunità ed i rischi intorno a loro. Il gruppo si è anche tuffato nelle ombre organzzative: quei problemi che tutti conoscono, ma che nessuno osa affrontare – beh, ora lo hanno appena fatto, e hanno condiviso, profondamente, ciò che tutto questo sta provocando ai suoi componenti.
L’ovvio passo successivo è quindi: bene, cosa dobbiamo fare per tutto questo? Quale strategia, quale piano d’azione dovremmo sviluppare per impegnarci nell’innovazione, nella trasformazione di cui abbiamo bisogno?
In questa fase, il rischio di “saltare la U” è al massimo – ovvero il rischio di voler saltare direttamente da una valutazione della situazione, a una soluzione per porvi rimedio. Perché è un rischio? Perché è così difficile rimanere nel “Non sapere”, specialmente quando il quadro collettivo che abbiamo appena dipinto è così intenso, e sembra chiamarci ad agire. Forse anche perché siamo stati tutti addestrati a “risolvere i problemi”, e che ricaviamo un senso di valore dal farlo, lontano dall’impotenza che sentiremmo insinuarsi in noi se solo stessimo fermi e tenessimo lo spazio solo per un po’ per far emergere ciò che è “veramente nuovo”…
Cosa c’è di sbagliato nel problem-solving? Beh, niente. Infatti il processo U, in un certo senso, è uno strumento di problem-solving. Ma passare dalla valutazione direttamente ad una proposta di soluzione porta con sé un grande rischio: che le soluzioni che vengono fuori saranno solo proposte individuali; idee che vengono da alcuni membri del gruppo, particolarmente disposti a risolvere i problemi, e le cui idee forse erano già presenti, nelle loro menti, prima che il lavoro cominciasse. In questo modo, ci ritroveremmo con soluzioni ai problemi, basate su una valutazione precedente al workshop: il processo che si sposterebbe così dal discernimento collettivo a un dibattito su quale idea sia migliore, e sia quella da seguire.
La sfida in fondo alla U è quindi chiara: come accompagniamo la nascita di un insieme di soluzioni basate sul quadro collettivo della realtà – in tutta la sua profondità e complessità – che è stato appena co-creato dal gruppo? E come ci assicuriamo che le soluzioni proposte siano state davvero autorizzate dal collettivo – in modo che i suoi membri siano molto più motivati ad attuarle?
Bene, ecco come ho fatto con questo gruppo:
Prima di tutto, ho dato a tutti del tempo di riflessione personale, in silenzio, intorno alla seguente domanda: quando contemplate questa immagine collettiva della vostra realtà, che avete appena co-creato, cosa vi dice? Cosa sta indicando?
Come probabilmente avete già capito, il segreto è di invitare i partecipanti in una disposizione in cui le soluzioni non verranno più da loro, ma da fuori di loro. Il trucco è aiutarli a sintonizzarsi con l’intelligenza collettiva che è già stata mobilitata, e per farlo, bisogna disattivare il proprio ego per un momento, e lasciare che l’intelligenza collettiva parli – che l’immagine parli, e indichi la strada.
Il modo migliore per farlo è estraniarsi dagli spazi di lavoro utilizzati finora, e impegnarsi in modalità più meditative: una passeggiata in giardino (o nella foresta!), se ne avete una intorno al vostro centro conferenze, è l’ideale. In alternativa, si possono invitare i partecipanti in un silenzio condiviso, con una musica soft in sottofondo.
Una volta che hanno avuto abbastanza tempo di riflessione personale, li ho invitati a creare 13 terzetti, e ho dato loro il tempo di condividere in terzetti ciò che avevano raccolto su ciò che la loro realtà stava dicendo loro – quali direzioni stavano emergendo dal dipinto collettivo stesso.
Poi i 10 terzetti sono stati invitati ad accoppiarsi: mettendo insieme due terzetti per creare un gruppo di 6. Abbiamo formato 5 gruppi di 6; mentre i restanti 3 terzetti sono stati invitati a formare un gruppo di 9. A tutti i gruppi appena formati è stato dato lo stesso compito: creare 2 frasi che catturassero tutte le varie cose che ogni membro aveva raccolto su quale direzione futura il quadro collettivo stava indicando. Per la maggior parte dei gruppi, questo significava che 6 persone dovevano essere d’accordo solo su 2 frasi – un compito ancora più difficile per il gruppo di 9! – Il che li ha davvero aiutati a concentrarsi su frasi in cui ognuno poteva sentire che la propria esperienza di ciò che il quadro stava dicendo era inclusa.
In un vero spirito di processo U, li ho invitati a non andare avanti subito con l’obiettivo finale (creare 2 frasi), ma piuttosto a passare del tempo ad ascoltare l’esperienza reciproca del quadro collettivo, e come sentivano che aveva parlato loro della via da seguire. Dopo questo dialogo iniziale, li ho invitati a fermarsi, per un minuto, in silenzio, per connettersi a ciò che veniva detto non solo dai membri del gruppo, ma dal gruppo stesso: di cosa parlano tutte le nostre condivisioni messe insieme? Dopo quel silenzio, è stato il momento di condividere il loro senso di ciò che il loro gruppo stava catturando – ancora senza cercare di creare 2 frasi. Dopo un po’, un nuovo invito per un minuto di silenzio, questa volta per riflettere sulla domanda: quali 2 frasi potrebbero catturare meglio ciò che abbiamo appena detto a cui il nostro gruppo si è collegato? Poi, e solo allora, è stato il momento di creare quelle frasi.
Quando sono tornati in plenaria, li ho invitati ad avvicinarsi a quelle 2 frasi utilizzando la similitudine della foto e del paesaggio: una foto è una cattura istantanea di un’esperienza vissuta – ma non è quell’esperienza vissuta. Così una foto di un bellissimo campo selvaggio potrebbe aiutarmi a connettermi a quell’esperienza del campo quando ero lì (i profumi, la brezza, il ronzio degli insetti, il sole che scaldava la mia pelle…), ma non è l’esperienza in sé – può essere solo una spinta per rinfrescare la mia memoria.
Allo stesso modo, quelle 2 frasi erano le foto delle profonde conversazioni che avevano appena aggiunto; potevano innescare i loro ricordi del significato che scorreva nel loro dialogo, ma la cosa reale era il dialogo stesso, non le frasi.
Questo preambolo era importante da condividere con loro, perché poi li ho invitati a unirsi in gruppi più grandi, e ripetere il compito! Così improvvisamente avevamo 2 gruppi di 12, e 1 gruppo di 15, e di nuovo ognuno di questi gruppi doveva produrre solo 2 frasi. In altre parole, ognuno doveva lasciare andare quelle che sentiva essere le “proprie” frasi, per produrre una nuova coppia, comprensiva di tutte le 12 o 15 esperienze.
Quando finalmente siamo tornati tutti in plenaria per condividere quelle 6 frasi finali, l’esperienza è stata semplicemente spettacolare: Ho invitato ogni gruppo a condividere le sue 2 frasi, senza aggiungere altro – nessuna spiegazione introduttiva, nessun commento particolare – solo il loro testo. Dopo il primo gruppo, abbiamo tenuto un minuto di silenzio perché le frasi risuonassero in noi, e siamo passati al secondo gruppo, e poi all’ultimo gruppo, con 2 minuti di silenzio alla fine per assimilare il tutto.
Le connessioni, la risonanza tra i gruppi sono state sorprendenti, e la stanza si è riempita di un senso di stupore nel realizzare come il gruppo, l’intelligenza collettiva, avesse trovato la propria voce.