Questa settimana per la nostra rubrica sui bias non parleremo di un bias singolo ma, come abbiamo già fatto sul cambiamento climatico, prenderemo un cluster di bias, in particolare alcuni di quelli che impattano la gestione delle performance.

Le innovazioni su questo tema si sono succedute regolarmente in questi anni, nel tentativo di creare sistemi il più possibile tendenti all’equità e adatti ad accogliere i percorsi di apprendimento e sviluppo dei soggetti coinvolti: sistemi a 360°, autovalutazione incrociata alla valutazione del o della manager, sistemi di competenze raffinati, consistency check per focalizzare la dimensione collettiva della valutazione e moderarne la soggettività, KPI sempre più precisi, fino ad arrivare ai recenti sistemi di formulazione degli obiettivi OKR introdotti da Google come evoluzione dell’MBO ed al feed back continuo…solo per citarne alcuni. In realtà, anche sistemi di gestione della performance ben costuiti ed atti a cogliere bene la complessità dell’azione organizzativa restano pur sempre ancorati ad un’attività umana di base e spontanea: quella dell’osservare e del processo di attribuzione di significato e di interpretazione basati su queste osservazioni.

E’ in quest’ottica che l’attenzione crescente per le distorsioni e trappole insite in questi processi diventa una interessante riflessione sia per i soggetti valutati che per chi valuta. La consapevolezza e la trasformazione degli unconscious bias individuali, ma anche provenienti dalla cultura organizzativa, diventa cruciale perché questi sistemi possano davvero servire a generare un senso equità e l’apprendimento individuale e collettivo necessari a rispondere alle sfide del contesto organizzativo.

Cerchiamo, nel seguito, di categorizzare alcuni di questi bias anche se, come vedremo, formare categorie precise diventa difficile e un po’ artificiale in quanto spesso i bias si riaggregano nel singolo atto valutativo.

Bias legati a fattori di identità del o della manager valutante

  • Bias di identità (o Similar to me bias). Deriva dalla tendenza ancestrale a formare dei sottoinsiemi relazionali, “in-out group”, a seconda di caratteristiche possedute realmente o proiettate sugli altri, che ce li fanno sentire simili o distanti da noi. L’appartenenza ad un gruppo o ad un altro è un fattore fortemente identitario. Il soggetto percepito come simile a noi viene quindi meglio valutato e gestito del soggetto percepito come “diverso”. Numerose ricerche dimostrano che tra i fattori “in-out group” che impattano fortemente la valutazione ci sono il genere, l’etnia, il percorso di studi, la religione, l’età. Questo bias si manifesta, in una valutazione favorevole per chi sentiamo simile, anche nella comunicazione della valutazione della performance, attraverso, ad esempio un uso del pronome “tu” per distinguire chi è percepito out-group e “noi” per chi è “in-group”, con impatti sul senso di “belonging” organizzativo, di sentimento di essere riconosciuti, di motivazione. E’ anche per mitigare questo bias, che è importante che la diversità sia rappresentata in tutti i livelli gerarchici.
  • Bias di attribuzione (o bias di opportunità). E’ la tendenza ad attribuire i successi a noi ed alle nostre capacità e gli insuccessi alla sfortuna o a cause esterne a noi. Tendenza rovesciata nel caso dei soggetti valutati per i quali accade il contrario: una buona prestazione quando questo bias è in azione, viene attribuita alla fortuna o alle condizioni favorevoli del contesto e, per una cattiva prestazione, vengono invece evidenziate solo le incapacità della persona. Questo bias, unito al bias di identità, può generare una sistematica buona o cattiva percezione rispetto alla valutazione, attribuendo a certuni solo meriti e ad altri solo intervento del destino e viceversa.

Bias legati all’uso delle scale di valutazione

  • Bias di indulgenza. Il o la manager utilizza la scala di valutazione in maniera sistematicamente generosa. L’indulgenza puo’ essere più alta per alcuni ed alcune collaboratrici (vedi bias più sopra) ma anche essere generalizzata. Dietro questo bias ci sono essere dei meta-modelli di descrizione della realtà in chi valuta, quali ad esempio “ho bisogno di essere amato o amata e se valuto in modo realistico non lo sarò più” oppure “valuto in modo generoso per segnalare un incoraggiamento così la persona farà meglio” o, ancora “se valuto negativamente una prestazione poi dovrò affrontare un conflitto e mi fa paura” ed un’idea di “gentilezza” distorta, che non tiene in conto che l’obiettivo della gestione e della valutazione non è punire ma generare apprendimento in chi valuta ed in chi è valutato o valutata.
  • Bias di severità. Il o la manager valuta sistematicamente in maniera più severa. I modelli mentali dietro questo errore sistematico possono essere, ad esempio “ho fatto la gavetta, ora deve farla anche la persona valutata”, oppure “se uso dei valori alti poi la persona non si impegnerà più a fondo”, etc. Numerose ricerche sono state fatte per collegare tratti della personalità (ad esempio rilevati con il test BigFive) ed errori sistematici nelle scale, collegando ad esempio tratti di stabilità emotiva e estroversione ad un uso indulgente e viceversa. Interessanti risultati sono emersi da recenti ricerche sul legame tra uso generoso o severo delle scale e, ancora una volta, caratteristiche identitarie della persona valutata, che hanno messo in evidenza il rischio di una maggiore severità di valutazione verso i gruppi dominati (donne, persone di colore, LGBT+, diversità cognitiva etc). Un altro aspetto interessante su questo tema l’uso delle scale nell’autovalutazione legato alla famosa “sindrome dell’impostore” che consiste (anche) in un errore sistematico di severità nell’autovalutazione che produce un sentimento di inadeguatezza e di illeggitimità nella persona.
  • Tendenza centrale. Soprattutto su scale dispari, tendenza ad utilizzare solo i valori centrali e non l’intera scala, per evitare di prendere piena responsabilità usando i valori estremi.

Bias legati alla focalizzazione parziale della prestazione dei valutati

  • Effetto alone positivo e negativo. L’effetto alone, uno dei primi bias ad essere studiati, si ha quando una parte positiva o negativa della prestazione viene focalizzata e messa in risalto, in modo che tutta la valutazione ne viene influenzata. Ad esempio Giovanni ha competenze molto alte sulla negoziazione con il cliente, sulla chiusura dei contratti, sulla gestione del gruppo, ma in riunione prende raramente la parola. Il o la sua manager potrebbe, basandosi su quest’ultima caratteristica, valutarlo negativamente su tutta la prestazione. Ho preso l’esempio del “prendere la parola in riunione” anche perché, secondo alcune ricerche, c’è un effetto alone positivo che investe coloro che sono abili nel prendere la parola in pubblico. L’effetto alone può essere ancora più ampio e riguardare non tanto una parte della prestazione ma caratteristiche della persona, in particolare l’attrattività, l’entusiasmo, la positività che sono associate a prestazioni efficaci, arrivando a nascondere risultati non positivi.
  • Bias di memoria recente (o bias di disponibilità). Consiste nella convinzione che un evento che è accaduto da poco abbia maggiore probabilità di ripetersi. Quindi, rispetto alla gestione delle performance, nella tendenza a richiamare alla memoria sopratutto gli ultimi tre quattro mesi di prestazione e lasciare nell’ombra il resto dell’anno. Un effetto curioso di questo bias è la cosiddetta “hot hand”, metafora presa dallo sport dove si è studiata una tendenza a passare più di frequente la palla alle persone che hanno segnato un punto, secondo la credenza che ad un successo ne possa facilmente seguire un altro (e riconfermando questa credenza perché il maggiore possesso di palla crea più occasioni di marcare punti). In ambito aziendale questo effetto produce l’assegnazione di progetti interessanti e sfidanti uno dietro l’altro a persone che hanno avuto successo in un progetto, ricreando le condizioni per un altro successo. Un buon modo di contrastare questo bias è dato dai sistemi di feedback continuo o dalla metodologia OKR nel suo complesso.
  • Effetto prima impressione. Contrariamente a quanto avviene per il bias di memoria recente questo effetto ci àncora alla prima impressione generale che abbiamo avuto della persona e ci fa ritornare al giudizio che ci siamo formati nei primi pochi secondi della relazione, indipendentemente dai risultati che la persona ha poi concretamente ottenuto. Così una buona prima impressione può nascondere performance negative e una cattiva prima impressione produce risultati contrari. In un prossimo post sui bias vi parleremo, a questo proposito, delle famose ricerche di Harward su “calore & competenza”.

Bias legati al confronto

  • Effetto contrasto. Uno dei nostri modi di apprendere, in quanto esseri umani, viene dalla comparazione di informazioni per analizzarne le differenze e le similitudini. Questa routine di pensiero, quando applicata alla gestione della performance, distrae dall’oggetto della nostra osservazione – il rapporto ed i risultati di un singolo individuo, rispetto ai suoi obiettivi – per spostarci sulla comparazione con altri membri dell’organizzazione, o tra membri dello stesso team. La performance viene così valutata non per il valore aggiunto sugli obiettivi dato dalla persona, ma in quanto migliore o peggiore rispetto ad altri membri del team.
  • Bias dell’importanza del ruolo. Nella maggior parte delle organizzazioni eistono modelli mentali che inducono a mettere al centro dell’attenzione alcuni ruoli, percepiti come più contributivi rispetto alla produzione dei risultati, rispetto ad altri. Penso per esempio ai ruoli di ricerca nelle aziende hi-tech o ai ruoli commerciali e marketing in aziende consumer (dove ci è capitato di sentire queste due funzioni indicate come “la voie royale”). Questo bias consiste nel privilegiare, nella gestione della performance, quei ruoli che intervengono sulle funzioni percepite a più alto valore aggiunto in azienda, impattando negativamente il senso di equità, valutando in modo peggiore ruoli considerati minori.

Alla fine di questa carrellata chi valuta potrebbe sentirsi un po’ in difficoltà 😊. Vi proponiamo alcune idee per cercare di contenere questi bias.

  1. Non lo diremo mai abbastanza ma quanto più è alta la consapevolezza su come pensiamo e sui processi che ci fanno arrivare ai quadri per l’azione, quanto più abbiamo la possibilità di trovarne i bias e gli errori. Questo significa aiutare il più possibile la nostra parte razionale a partecipare al processo. Gli strumenti della gestione della performance sono anche fatti per questo, per togliere l’attività valutativa dalla spontaneità. Prendersi il tempo è un altro fattore chiave. Le valutazioni fatte in fretta, all’ultimo minuto, in maniera rituale giusto per riempire “la pagella” (in quante realtà organizzative abbiamo sentito ancora questo termine!!) sono il terreno fertile per valutazioni sbagliate. Una buona valutazione permette di creare le condizioni perché il periodo successivo porti delle migliori prestazioni, quindi non è un costo in termini di tempo ma un investimento sul futuro e sulla creazione di un buon clima nel team.
  2. Avere un sistema di gestione e sviluppo della performance quanto più possibile articolato, con obiettivi correttamente scritti, indicatori di misura veramente rilevanti, competenze descritte in modo chiaro e fattuale, feedback multicanale è una parte importante. Ma, come ricordato sopra, nessun sistema è completamente libero dai bias, almeno da quelli delle persone che lo hanno progettato.
  3. Un dispositivo interessante è il consistency check. Al termine delle valutazioni i e le manager di pari livello si ritrovano per raccontare come sono arrivati ed arrivate a posizionare le persone sulla scala. Gli e le altre partecipanti alla riunione sfidano la valutazione attraverso contro-esempi, domande su comportamenti specifici osservati etc. E’ una soluzione interessante ed i consistency check ai quali ci è capitato di assistere sono stati dei grandi momenti di apprendimento. A condizione che le persone stiano al gioco e siano disposte a vedere non solo i bias degli altri ma anche i propri e a lavorare sul livello organizzativo, chiedendosi per esempio “cosa non stiamo vedendo, a causa delle abitudini, delle routines, dei ‘da noi si fa così’?”
  4. Quando avete tanti collaboratori è bene non fare le valutazioni tutte insieme. Se rileggete la lista degli errori sopra è chiaro che se a questi aggiungiamo un numero imprecisato di valutazioni fatte tutte in un pomeriggio, avere chiaro chi ha fatto cosa diventa molto difficile.
  5. Il feed back continuo diventa un ottimo strumento, in particolare quando è possibile che chi valuta e chi è valutato possano mettersi d’accordo sul suo contenuto e tenerne traccia comune. Il vantaggio, oltre che sulla valutazione, è soprattutto sul ciclo di apprendimento della persona che viene in questo modo potenziato.
  6. Una cultura di accettazione e di crescita attraverso l’errore aiuta chi è valutato e chi valuta ad aprire un dialogo, nel quale proteggere la relazione dal rischio della “storia unica”. L’occhio (ed il cervello) di chi valuta e gestisce non sono infallibili. Esistono (almeno) due versioni della storia e, attraverso una esposizione chiara e circostanziata dei fatti, entrambi potranno forse arricchire la ricostruzione che ne è stata fatta.

 

 

Phote credit Rob Gonsalves