Il purpose come modo per superare la scissione
La figura 1, adattata dal lavoro del Grubb Institute, può aiutarci a capire cosa sta operando nell’esperienza di Michael.
In questo quadro, Michael (una persona) lavora in un’organizzazione farmaceutica (un sistema) che ha un impatto sul mondo (il contesto). Attraverso le sue azioni, Michael contribuisce a co-creare un’organizzazione che, a sua volta, contribuisce a co-creare il mondo. Come persona, Michael vive in questo mondo e sogna un mondo in cui vorrebbe vivere, un mondo che vorrebbe migliorare, in cui si potrebbe trovare più salute, più benessere, più felicità. Dodici anni fa, infatti, era entrato in questa organizzazione per contribuire a realizzarne il purpose esplicitato (migliorare la salute del mondo), perché esso era in linea con la sua visione del mondo e del suo purpose personale.
Per tutti gli anni nei quali ha lavorato dentro l’organizzazione, tuttavia, il mondo da lui desiderato era all’opposto di quello che la sua azienda stava contribuendo a co-creare. A livello cosciente, Michael non ne era consapevole. I meccanismi di difesa personali e sociali (come il filtraggio dei dati, il blocco di certe domande, il rifiuto di avventurarsi in certe conversazioni, ecc.) lo aiutavano a rimanere scollegato da questo “vero mondo”, consentendogli di operare in un “falso mondo” in cui il mondo in cui viveva non era il risultato degli impatti della sua azienda. In altre parole, per vivere in quella realtà e rimanere sano di mente, Michael ha dovuto operare inconsciamente una netta scissione, dentro di sé, di questi due mondi. Impegnandosi con ONG, gruppi ecclesiali e altre iniziative di solidarietà nella vita privata; e applicando il suo talento al branding di nuove molecole per la sua azienda nella vita professionale.
Se nella vita privata trovava un vero purpose, questo era invece assente dalla sua vita professionale. Peggio ancora, il purpose formale, rivendicato dalla sua azienda come “mission statement” (risolvere le più grandi sfide sanitarie del mondo), si rivelava fortemente scollegato da quello attuato (trovare mercati lucrativi per le molecole sviluppate).
Nella Figura 1, il punto in cui i tre cerchi si incontrano è il luogo da cui si può esercitare leadership “on purpose”, ad esempio mobilitando il sistema per attuare avere un impatto sul mondo congruente con il tipo di mondo che si desidera costruire. Dalla sua posizione, Michael ha ritenuto impossibile accedere a tale spazio di leadership e ha scelto di smettere di contribuire alla co-creazione di un sistema il cui scopo era in contrasto con il suo. Così ha deciso di licenziarsi, per lanciare un’attività (un nuovo Sistema) in cui i suoi scopi personali e professionali potessero integrarsi. Così come Dubouloy descrive il passaggio dal “falso sé” al “vero sé”, noi ipotizziamo qui l’idea che la decisione di Michael sia stata un’attuazione della sua intenzione di uscire da un “falso mondo” per entrare in un “vero mondo“.
Dalla negazione individuale a quella collettiva: il ruolo dei meccanismi di difesa organizzativi
Le dinamiche di negazione, difesa e scissione esplorate in dettaglio sopra sono dannose per se stessi e, si potrebbe sostenere, anche per il mondo. Per molti, sia che lavorino nel mondo degli affari o che si limitino a commentarlo, c’è la percezione che, per quanto deplorevole, questo tipo di considerazione sull’impatto delle nostre attività sul mondo non trovi spazio nel mondo del business, dove, dopo tutto, tutto ciò che dovrebbe importare è “ciò che è buono per il business” – il resto sono solo esternalità. Finché il business cresce, tutto va bene, o almeno così vorrebbero farci credere, gettando così le basi per la negazione e il disconoscimento collettivo.
Parte della tragedia, al di là dell’impatto degradante di queste attività sui nostri ecosistemi viventi, è che, anche dal punto di vista delle imprese, non ci potrebbe essere un’idea più sbagliata. Qualsiasi azienda (sistema), per prosperare, deve monitorare continuamente il mondo in cui si evolve (contesto) e anticipare la direzione in cui si sta dirigendo per modulare le proprie risposte a quel mondo emergente, anziché cercare di filtrare la realtà esterna per continuare a produrre il tipo di risposte che ha sempre avuto.
Per dirla con un linguaggio psicodinamico, la costruzione di difese contro l’ansia può essere funzionale fino a un certo punto, ma non risolve mai l’ansia stessa, né la sua fonte. La maturazione psicologica è ciò che aiuta a superare l’ansia, affrontando i problemi che la generano in primo luogo. Ma portandoci a credere che “tutto ciò che dovrebbe importare è ciò che è buono per il business“, la negazione della società può essere sostenuta da una narrazione collettiva che rende molto difficile arrivare alla realtà del mondo che stiamo creando (il “vero mondo”), “vendendoci” costantemente un “falso mondo” che, anche se analizzato all’interno di un paradigma di business, fallirebbe il suo stesso test.
Un esempio di ciò è stata l’era della presidenza Trump negli Stati Uniti con gli enormi muri che Trump ha cercato di erigere. Se il più pubblicizzato è stata la fantasmagorica costruzione di un muro tra gli Stati Uniti e il Messico, un altro, più sottile, è stato per anni all’opera: il muro psichico tra ciò che la scienza basata sull’evidenza dice sul cambiamento climatico e le politiche portate avanti al Congresso.
Se da un lato queste potevano (o meno) produrre un successo temporaneo per le imprese, dall’altro hanno contribuito all’innalzamento del livello del mare lungo le coste (Miami sta già affrontando sfide enormi), alla siccità e agli incendi in California, all’impoverimento e alla tossicità del suolo in tutto il territorio, solo per citarne alcuni. Di questo passo, continuando in queste politiche tra quindici o vent’anni gli US non potranno più prosperare perché non ci saranno più clienti, tanto saranno impegnati a cercare di sopravvivere alle condizioni avverse che si saranno create.
La volontà di negare il cambiamento climatico ha un costo elevato anche per quelle stesse imprese che si pensava potessero trarre il massimo vantaggio da questa negazione: quelle dei combustibili fossili. In tutto il mondo, le prime ad essere colpite sembrano essere le compagnie del carbone, per le quali molti dei principali operatori rischiano la bancarotta. Mentre il movimento di disinvestimento ha guadagnato terreno e l’accordo COP 21 di Parigi ha spinto sempre più Paesi e istituzioni finanziarie a smettere di finanziare il carbone (si stima che finora siano stati disinvestiti sei trilioni di dollari), l’industria non è stata in grado di reagire abbastanza rapidamente.
Il suo modello di business si basa sul fatto che il mondo utilizzi il carbone, e che lo faccia a un ritmo crescente. Con l’aumentare delle prove dell’impatto della CO2 sull’aumento delle temperature, senza dubbio molti dei lavoratori dell’industria del carbone hanno vissuto (inconsciamente) una scissione interiore tra il garantire un reddito alla propria famiglia oggi e il creare un futuro pericoloso in cui vivere per quegli stessi bambini che oggi sono felici di poter sfamare. Questa scissione richiede difese psichiche per durare nel tempo, il che significa che a livello individuale, per sostenere questa disconnessione da una realtà altrimenti insopportabile, si ricorre alla razionalizzazione, all’omissione di dati, all’esclusione di sentimenti, ecc.
Ma al di là di questi processi di scissione individuale – anzi, forse proprio guidati da essi – si tratta di un vero e proprio sistema di difesa organizzativa, creato per mantenere in vita l’azienda. Alla base c’è la creazione di una cultura che esclude i dati che mettono in discussione lo status quo, promuove coloro che rafforzano la storia dominante ed esclude (attraverso l’intimidazione e/o il licenziamento) coloro che si fanno portavoce di alternative. Vediamo qui dinamiche simili a quelle analizzate da Amy Fraher (2005) nella cabina di pilotaggio degli aerei coinvolti in incidenti che portano, in questo caso, al collasso dell’organizzazione stessa.
Le prossime sulla lista, a meno che non reagiscano rapidamente, sono le compagnie petrolifere. Mentre il carbone è stato utilizzato principalmente per la produzione di energia elettrica, e quindi può essere sempre più sostituito dal nucleare o dalle energie rinnovabili, la benzina ha ottenuto una tregua, poiché è ancora molto richiesta per i trasporti, l’alimentazione e l’edilizia, solo per citarne alcuni.
Tuttavia, le istituzioni finanziarie stanno già valutando il rischio di “stranded assets”, cioè di ritrovarsi con attività investite in aziende petrolifere che hanno perso molto del loro valore e che rischiano di provocare una svolta del mercato simile a quella che ha portato alla caduta dell’industria del carbone. Cresce quindi il rischio di un disinvestimento massiccio delle istituzioni finanziarie dalle compagnie petrolifere. Che cosa tiene dunque le compagnie petrolifere ancorate a questo scenario mortale?
Attività vs purpose: confondere il “cosa e come” con il “perché”
La negazione e la scissione nell’industria dei combustibili fossili sono meccanismi di difesa, probabilmente creati per proteggersi da almeno due fonti di emozioni opprimenti: il senso di colpa e la vergogna da un lato (che analizzeremo più avanti in questo articolo), e l’ansia per la prospettiva di una morte imminente dall’altro, costruita sulla fantasia che in uno scenario a +2° queste compagnie siano destinate a morire. Per difendersi dalla schiacciante ansia generata dalla prospettiva di morire, si impiegano un sacco di lavoro ed energie per cercare di continuare a esistere nella stessa forma (business as usual), anche a costo di far naufragare l’intera nave.
Questo, a mio avviso, è dovuto al fatto che queste aziende si sono identificate eccessivamente con il loro “cosa e come” (i loro output), piuttosto che collegarsi al loro “perché” profondo (i loro outcome) per reinventarsi continuamente. Come suggerisce Simon Sinek (2009) nella sua teoria dei cerchi d’oro, la vera leadership deriva dall’organizzazione basata sul “perché”, non sul “come” e sul “cosa”. Eppure le compagnie petrolifere soffrono oggi per aver definito la loro esistenza intorno al loro prodotto (il petrolio), suggerendo di esistere per portare il petrolio alle persone e alla società, piuttosto che chiarire quale scopo questo petrolio debba avere nella società.
Immaginiamo però che le compagnie petrolifere abbiano dichiarato che la loro visione è quella di un mondo in cui l’uomo possa viaggiare, lavorare, produrre cibo e costruire città con modalità e velocità mai raggiunte prima, e che il loro scopo sia quello di fornire alle persone e alla società energia a basso costo per contribuire a realizzare questa visione. Per oltre un secolo, hanno usato il petrolio a basso costo per farlo.
Ma poiché è sempre più evidente che le loro azioni contribuiscono alle malattie e alla morte causate dall’inquinamento e al riscaldamento globale (cioè danneggiano il Contesto), possono ora rivalutare le loro attività (cioè le operazioni all’interno del Sistema, non il Sistema stesso) per trovare un’altra energia a basso costo per realizzare la loro visione. Passare alle energie rinnovabili diventa un cambiamento radicale di strategia, per esempio, un cambiamento spettacolare di prodotto ma anche un ritorno alle radici dello scopo dell’organizzazione (l’etimologia di “radicale” è il latino per “radice”).
Purtroppo, senza questa visione, ogni tentativo di passare dal petrolio alle rinnovabili viene vissuto come un tradimento, come un tentativo di uccidere l’attività originaria. Questa fantasia paranoica serve a rafforzare le difese e, paradossalmente, porta l’organizzazione a una morte più rapida: mentre ci dà un falso senso di tregua nel breve termine, la negazione finisce, nel lungo periodo, per non salvarci dalla morte che il vero problema (se non affrontato) inevitabilmente porterà. Rifiutare di esplorare il “perché” e rimanere concentrati sul “cosa e come” ha un prezzo elevato.
Un altro caso emblematico è quello dell’industria elettrica francese. Pur avendo iniziato con una definizione lasca del suo prodotto (l’elettricità), si è gradualmente evoluta verso un’azienda monoprodotto, con l’energia nucleare che rappresenta circa i tre quarti della sua produzione. All’epoca, questo ha permesso alla Francia di sviluppare un certo livello di indipendenza in termini di approvvigionamento energetico, in particolare al momento della crisi del petrolio negli anni ’70 (un buon esempio di adattamento di un sistema alle minacce provenienti dal suo contesto).
La sua organizzazione interna, tuttavia, la sua cultura, le sue convinzioni, si sono impregnate del dogma dell’energia nucleare. E quello che una volta era un punto di forza, ora si sta trasformando in un’enorme passività, sia finanziaria che ambientale. Con la rivalutazione dei costi di manutenzione e smantellamento, sta diventando chiaro che l’azienda ha sottovalutato di molto i costi delle proprie attività.
Ma, prigioniera del suo stesso modello, sta ancora cercando, ad esempio, di sviluppare un impianto nucleare nel Regno Unito, nonostante l’evidenza che questo peggiorerà la sua situazione finanziaria. Un recente studio sponsorizzato dal governo suggerisce addirittura che la Francia dovrebbe continuare a costruire reattori nucleari al ritmo di sei per decennio6 se vuole conservare le proprie conoscenze e competenze in materia di tecnologia nucleare, anche se un numero crescente di analisti aziendali conferma che “il nucleare è morto”.
E come se non bastasse, dopo il disastro nucleare di Fukushima, la sicurezza delle centrali nucleari europee è sottoposta a un maggiore controllo, che dimostra come gli impianti più vecchi siano più a rischio di rottura; secondo le parole di un esponente di spicco del settore, “l’Europa è ora più a rischio di un disastro nucleare”.
Ma cosa si sta facendo per mitigare questi rischi finanziari e ambientali? Non molto. Poiché l’industria si è identificata eccessivamente con il nucleare come sua ragion d’essere (scambiando quindi i risultati con gli esiti) e ha organizzato un sistema rigido per cristallizzarlo, ora è intrappolata in una storia super-egoistica che non riesce a includere le prove del principio di realtà.
Nel suo articolo “Turning a blind eye” (Chiudere un occhio), lo psicoanalista John Steiner (1985) spiega come, nella tragedia Edipo di Sofocle, il coro, fin dall’inizio, dica la verità ai protagonisti e agli spettatori, ma è come se tutti scegliessero di chiudere un occhio, di fingere di non sapere. Lo stesso accecamento di Edipo alla fine della tragedia è un’interpretazione di questo processo di continuare a non voler affrontare la realtà che sappiamo di aver contribuito a co-creare.
Allora perché continuiamo a chiudere gli occhi? Qual è la funzione di questo comportamento disfunzionale? Indubbiamente deve aiutarci a proteggerci dall’ansia opprimente di aver creato una situazione che sappiamo ci porterà alla catastrofe, ma dalla quale non siamo sicuri di saper uscire. Ma forse, cosa ancora più importante, guardare a ciò che abbiamo contribuito a co-creare e riconoscere la nostra parte scatenerebbe in noi un grande senso di colpa e di vergogna, così forte da farci temere di non essere in grado di sopravvivere.
Tuttavia, come afferma Gordon Lawrence (2005) nel suo articolo “Stati mentali totalitari nelle istituzioni”, “il paradosso è che questo tipo di difesa sociale contro l’ansia psicotica e, naturalmente, il pensiero, incoraggia le condizioni per lo scoppio della psicosi stessa che si teme”.
La negazione, la scissione e la difesa hanno avuto un utile ruolo di sviluppo, ma ora sono una minaccia per la nostra stessa sopravvivenza, in quanto ci tengono bloccati nella creazione di un mondo che sappiamo, inconsciamente ma anche consciamente, non essere favorevole ad una maggiore vita.