Il modello Lean in
Stavo preparando un webinar sul tema sulla leadership e le donne. L’intervento aveva per oggetto il lavoro intorno ad un modello di leadership più adatto alle donne, che permetta di superare il cosiddetto “doppio standard”, di uscire dal dualismo “take care = donna: empatica, emotiva etc, take charge = uomo: forte, deciso etc”. Avevo intenzione, ad un certo punto, di parlare dei vantaggi e svantaggi del modello “lean in” di Sheryl Sandberg, che ha il pregio di aiutare le donne a pensarsi diversamente, ma non, a mio parere, di aiutare i sistemi a cambiare. Ho cosi’ cercato delle traduzioni in francese di “Lean in” perché volevo essere precisa. Ed ho avuto una sorpresa. La traduzione usata in Francia, é “en avant toutes”; cosi’ si chiamano anche i circoli di donne ed il movimento iniziato dall’apparire del libro. Utilizzando il dizionario reverso, che traduce partendo dagli usi letterari e comuni, ho scoperto altre traduzioni, molto suggestive. In particolare due mi hanno colpita sembrandomi un po’ come la parte oscura, l’ombra del lean in. Una è « appauvri en »…quindi la donna che “lean in” deve rinunciare a qualcosa di se stessa? Deve accettare di imporverirsi, di avere qualcosa in meno, di perdere una parte di sé? L’altra traduzione, che mi ha colpita ancora di più, è “Inclinez-vous”, curvarsi, piegarsi verso terra, rendersi obliqua. E ho pensato all’espressione « stand up », sovente seguita da « for your rights” che è esattamente l’opposto di questo inchinarsi, farsi più piccola (impoverirsi come nella prima traduzione), privarsi della propria statura. Ho ripensato al bel libro di Mary Beard, “Women and Power, a manifesto” ed alla sua analisi di come, nel corso dei secoli, il modello patriarcale abbia contribuito al rinforzo di quest’idea che le donne che non si conformano rischiano di ritrovarsi con la lingua o la testa tagliata (Filomela nelle Metamorfosi, il mito di Medusa).
In realtà ho apprezzato molto il libro “Lean in” di Sheryl Sandberg, che ha avuto anche il merito di far nascere, intorno a sé, un movimento di donne che si ritrovano e si sostengono. E nello stesso tempo mi capita di osservare, sempre più spesso, che l’idea di “sviluppo personale” delle donne, non sostenuta da uno sviluppo sistemico, che tenga conto della complessità, rischia di creare solo più infelicità, frustrazione, un senso temporaneo di benessere personale destinato spesso ad alimentare un sentimento di inadeguatezza, di non essere all’altezza. Come se la “colpa” della non riuscita fosse della donna, non abbastanza capace e brava per “lean in”, malgrado tutti i consigli ricevuti e la formazione realizzata. Molto del lavoro che si fa insieme alle donne parte purtroppo ancora da un’idea che sta a loro svilupparsi, impoverirsi (togliersi caratteristiche che non sono conformi), rinunciare a parti della loro identità, cercare di acquisire tratti e caratteristiche che corrispondono meglio ai tratti di chi prende il potere. Sta a loro migliorare la propria visibilità, assertività, lottare per occupare lo spazio pubblico, per prendere la parola, per contare nelle decisioni.
Forse invece, dopo tanti anni di lavoro e di sensibilizzazione sul tema, tanti corsi sui bias inconsapevoli, tanti percorsi di potenziamento della leadership, tanti coaching, è ora di pensare, seriamente, ad un cambiamento sistemico, ad operare in profondità, a far emergere la parte nascosta ed implicita delle culture organizzative, che genera resistenze forti su questi temi impedendo dei cambiamenti davvero “disruptive”. La regressione alla quale abbiamo assistito, rispetto alla condizione femminile, nel momento del COVID è solo la punta di un iceberg. Non sono quindi, forse, solo le donne a dover lavorare su di loro, a intraprendere percorsi di sviluppo, ma tutto un sistema di potere forte, sedimentato, implicito, che deve rimettersi in discussione e trasformarsi, rigenerarsi, perché le cose possano davvero evolvere.
Gender bias di seconda generazione
Herminia Ibarra, chiama queste resistenze ”second generation gender bias” o barriere invisibili: invisibili non solo per chi se le trova davanti ma anche per chi le mette, normalmente organizzazioni ben intenzionate, che pensano di aver fatto il possibile, avendo promosso programmi di formazione e coaching sugli unconscious bias o sulla leadership delle donne ma alle quali è mancato un passaggio di riflessione collettiva sulla cultura. In queste organizzazioni non ci sono più, forse, discriminazioni eclatanti, sessismo quotidiano, ma permangono “un senso di disconnessione dai colleghi uomini, dei consigli di dirigersi verso ruoli di staff una volta creata una famiglia, un sentimento di esclusione dalle posizioni chiave” (H. Ibarra, 2013 “Women Rising: the Unseen Bareers” HBR).
Cosa fare concretamente per rompere le barriere invisibili? Ecco alcune idee che possono contribuirvi
- Chiarire il “business case”. Quali sono le conseguenze sulle performance se le cose restano uguali
- Lavorare ad ampio raggio su bias, fallacie, routines nei processi che riproducono errori evitabili, non limitandosi a un “one shot” né ad un lavoro solo individuale
- Cercare le competenze veramente richieste in un ruolo e non le competenze ideali ed irrealistiche (sapendo che secondo molte ricerche gli uomini si autonominano per un posto anche in assenza delle competenze richieste, mentre le donne tendono a non proporsi quando mancano anche solo poche delle caratteristiche)
- Creare spazi “sicuri” dove le donne possano apprendere anche quando si trovano in situazioni sfidanti. La sicurezza può venire, ad esempio, da un accompagnamento collettivo (e non solo dal coaching individuale) in situazioni quali, per esempio, le donne si trovano sole in un gruppo e in ruoli definiti come “maschili”. E in questo tipo di contesti che rischiano di giocare modelli mentali che generano proiezione di incompetenza che poi, se introiettati, generano incompetenza effettiva.
- Andare alla ricerca di bias di genere nei sistemi di valutazione, di 360° multirater feedback, di assegnazione degli obiettivi…
- Creare comunità nelle quali le donne possano confrontarsi tra loro e oggettivare ed elaborare risposte collettive a ritorni quali “non ti rendi abbastanza visibile”, “devi lavorare sulla tua empatia” (quando si manifesta assertività), “devi dire di no più spesso” e tutta una serie di segnali di un modello di leadership che implicitamente non le invita ad occupare lo spazio
- Ripensare i modelli di leadership, uscire dai modelli binari, dotarsi di modelli inclusivi che permettano di accogliere, al loro interno, la complessità