In Francia è appena morto un uomo straordinario. Il suo nome era Bernard Tapie. Per decenni, ha segnato l’immaginario collettivo dei francesi; amato o odiato, ha incarnato per molti di loro il simbolo del ‘self-made man‘, l’esempio vivente dell’uomo d’affari che combatte, che ha la rabbia di vincere, e che riesce in alcune mosse molto belle.

Bernard Tapie è un po’ come il nostro Steve Jobs o Elon Musk: un “capo” che viene portato come esempio, quello attraverso cui arriva il successo. È l’incarnazione del “volere è potere“, l’esempio citato nei corsi di formazione alla leadership perché, secondo le teorie in voga, ha tutti i pregi di un leader: carisma, determinazione, mancanza di scrupoli quando si tratta di prendere decisioni importanti, ecc.

 

Lasciamo da parte l’uomo e guardiamo cosa rivela questa immagine di Bernard Tapie – come quella di Steve Jobs o Elon Musk – sul nostro immaginario collettivo:

 

  1. Che l’archetipo del leader rimane, soprattutto, maschile. Quando accompagniamo i nostri clienti, o quando formiamo i leader di domani alla ESSEC Business School, spesso introduciamo la seguente domanda all’inizio del workshop: chi sono le 3 persone che più incarnano il significato di leadership per te? Più del 90% delle risposte, date sia dalle donne che dagli uomini, sono nomi di uomini…
  2. Che questo leader è solo. Solo contro tutti nel suo successo, per superare le avversità. Solo nel guidare ciò che alla fine farà la differenza (un’idea per nuovi mercati, nuovi prodotti, nuove conquiste…). Nel nostro immaginario collettivo, Tapie, come Jobs e Musk, non hanno nessuna squadra, nessun partner
  3. Che ‘leader’ (un verbo derivato da un neologismo) significa conquistare
  4. E che è questo leader, un uomo, solo e conquistatore, che modellerà il nostro destino – nel bene e nel male

 

Ci sono molti modi per decostruire tutte queste fantasie su cosa sia un leader, ma proprio perché sono fantasie, e quindi profondamente radicate in un terreno emotivo, persino viscerale, non è con la ragione che ci riusciremo.

 

Permettetemi quindi di proporre un altro approccio, più adatto ai tempi che corrono. Un approccio basato su un’intuizione e una sorta di “salto della fede”: se vogliamo evitare che lo sconvolgimento della biosfera (cioè il clima e la biodiversità) metta fine alla vita della specie umana su questo pianeta, dovremo imparare a funzionare come la natura e non contro la natura.

 

E come funziona la Natura, in termini di leadership? Bene, immaginatevi in una foresta di 100 anni: ci sono alberi, cespugli, piante; un ruscello che alimenta non solo tutte queste piante, ma anche gli animali e gli insetti che sono venuti a vivere lì. Ogni elemento ha non solo una, ma diverse funzioni che sono benefiche per tutto l’ecosistema: l’albero cattura la CO2, regola la temperatura, struttura il suolo e trattiene l’acqua in esso, nutre il suolo quando perde foglie o rami o quando muore…

 

Dov’è il leader nella foresta? Non c’è nessuno.

 

Nella foresta non si è mai soli. Non si conquista nulla, tranne lo spazio in cui si può fiorire. Noi esistiamo a causa degli altri, che a loro volta esistono a causa nostra, impigliati come siamo in una rete complessa che tesse il nostro destino comune.

 

Se c’è una leadership nella foresta, è quella di avviare il mio contributo all’ecosistema, quello che permetterà agli altri di fare lo stesso, e quindi avviare una serie di circoli virtuosi che, come dice giustamente Janine Benyus, permetterà alla vita di creare le condizioni per altra vita.

 

Se vogliamo trasformare il nostro impatto su questa terra, se vogliamo passare da un’economia predatoria ed estrattiva ad una rigenerativa, allora il primo passo sarà quello di rigenerare i nostri modelli mentali sul tipo di leadership di cui abbiamo bisogno per arrivarci.