Negoziazione di successo: al di là dell’idea di allargare la torta, la rigenerazione
Qualche settimana fa, ho trascorso una giornata molto piacevole e interessante in compagnia di un gruppo di studenti di relazioni internazionali della John Hopkins University, guidandoli alla scoperta del tema della negoziazione. L'introduzione all'argomento è avvenuta attraverso un gioco basato sul famoso "dilemma del prigioniero": come spesso accade, molte persone lo conoscono da un punto di vista teorico, ad esempio perché lo hanno incontrato durante i loro studi di economia o di scienza delle finanze, ma nella pratica questa conoscenza razionale è come se fosse diventata inaccessibile, come vi racconterò nel blogpost.
Il dilemma del prigioniero è un problema classico della teoria dei giochi ed esplora il processo decisionale razionale quando, tra due o più individui o gruppi, esiste una possibile negoziazione aperta. Per chi non lo conoscesse, si inizia immaginando che ci siano due criminali arrestati e detenuti in due celle separate, senza possibilità di comunicare tra loro. Chi li interroga propone a ciascun detenuto separatamente un patteggiamento: se uno confessa e l'altro no, il primo ottiene una pena ridotta, il secondo una pena più severa; se entrambi confessano, ottengono una pena moderata, se negano entrambi il massimo della pena. Il dilemma sta nel fatto che le scelte sono collegate e che se uno dei due confessa, l'altro rischia una pena più severa.
Uno dei giochi creati per sperimentare in prima persona il dilemma del prigioniero prevede la formazione di due gruppi e un meccanismo di conteggio dei punti illustrato nel riquadro. Il gioco viene poi ripetuto un certo numero di volte, per dare ai giocatori l'opportunità di sperimentare le conseguenze della loro strategia ed eventualmente giocare in modo diverso. Giocare e poi confrontarsi con la teoria sottostante è divertente e genera un apprendimento profondo: la forte esperienza emotiva che il gioco consente aiuta a fissare gli elementi teorici. La prima volta che mi è capitato di giocarci ero ancora all'università e, pur avendo una buona conoscenza della teoria dei giochi, sono caduta proprio nella trappola del “fixed pie mindset", insieme alla mia squadra: un'esperienza che non ho mai dimenticato.
Il “Fixed Pie Mindset" si ripete ancora, piuttosto puntualmente, con gli studenti o nelle aule di formazione a cui propongo l'esercizio. Esso consiste nell'incapacità di "allargare la torta", esplorando tutti i possibili fattori e strategie negoziali, trattando la controparte come un nemico da battere.
Razionalmente, i giocatori sanno come dovrebbero comportarsi, spesso conoscono, da un punto di vista teorico, le diverse possibili strategie di gioco, ma quando sono coinvolti nell'esperienza concreta, qualcosa di molto viscerale sembra guidare le scelte. Nel gioco, esattamente come nella formulazione dei due prigionieri, c'è una situazione iniziale di isolamento e di impossibilità di scambio di informazioni tra le due o più parti coinvolte che lavorano in stanze separate. Ogni gruppo, all'inizio, ha dieci minuti per decidere la propria strategia di gioco.
È in questo momento che iniziano le fantasie sulle intenzioni dell'altro gruppo e spesso nel gruppo nasce la certezza che, poiché gli altri hanno cattive intenzioni, bisogna difendersi. Da questo momento in poi, la strategia win-win è completamente nascosta.
Alcune osservazioni durante questa fase in cui i gruppi affrontano l'incertezza e lo stress dovuti alla pressione del tempo e alla situazione sconosciuta:
- Spesso i gruppi discutono partendo da una rappresentazione del sistema che non tiene conto degli altri, di come si costruiscono i punteggi, del fatto che la possibilità di ottenere punti positivi per il proprio gruppo è legata a come giocherà l'altro gruppo: la difficoltà di affrontare la complessità nella descrizione del sistema, di includere l'altro nella propria strategia, crea un'illusione di semplicità e linearità del gioco. Questa percezione semplificata impedisce poi di vedere, nella pratica, che esiste una strategia collaborativa che permette di raggiungere un risultato non ottimale certo - il miglior risultato possibile per un gruppo è quando, sistematicamente, si riesce a far giocare l'altro gruppo in modo "autolesionista", ma questo, a parte i casi patologici, non è realistico - che è quella che permette a entrambi i gruppi di non terminare la partita con un punteggio negativo. Paradossalmente, questa strategia, lose-lose, non è razionalmente preferita, ma di fatto finisce per essere scelta.
- Quando i gruppi discutono sul significato di "vincere", viene evocato il "fare più punti degli altri": si tratta di un fenomeno percettivo su cui torneremo più avanti nell'articolo.
- È difficile percepire che, essendo ridotta la comunicazione orale, il sistema di comunicazione nelle prime fasi del gioco consiste nelle mosse di gioco e che, in particolare, la prima mossa di gioco comunicherà chiaramente le intenzioni dei giocatori: la riduzione della possibilità di comunicare genera sfiducia, questa genera prime mosse di gioco generalmente ostili, e la diffidenza iniziale diventa una spirale dalla quale è poi difficile uscire.
- A volte uno dei gruppi si rende conto della corsa alla rovina quando si gioca con la strategia solo competitiva e cerca di cambiare il gioco, ma spesso è troppo tardi e il clima di sfiducia reciproca è ormai consolidato.
Ci sono due condizioni importanti che fanno sì che la torta venga percepita come fissa: la prima riguarda le aspettative, e in particolare la semplificazione della realtà che consiste nel descrivere il sistema come "win-lose". Perché questo accade? Le spiegazioni possono risalire alla nostra storia evolutiva, in particolare alle abitudini legate alla sopravvivenza e alla lotta per l'appropriazione delle risorse. Abitudini che vengono poi rafforzate culturalmente, ad esempio nelle organizzazioni, dalle metafore utilizzate, sulla leadership o sulle dinamiche di gruppo. L'uso massiccio, ad esempio, di metafore sportive favorisce l'attivazione di rappresentazioni "win-lose".
La seconda condizione, legata alla prima, riguarda la trasparenza delle informazioni. Numerose ricerche mostrano infatti come, nonostante sia ormai noto che uno scambio chiaro e onesto di informazioni sulle preferenze e sui fattori negoziali tra le diverse parti possa aprire a risultati più efficienti nelle trattative, l'interpretazione del setting come esclusivamente competitivo porti all'opacità informativa, generando vere e proprie commedie degli errori con risultati insoddisfacenti per tutti.
Questo è ciò che è successo in classe con i miei studenti. Quando ha cominciato a circolare l'idea di "fare più punti degli altri", l'altro gruppo è passato ad essere considerato da un gruppo di simpatici compagni e amici, con i quali si rimarrà in relazione per almeno un altro anno, al "nemico da battere". Nei momenti in cui ai due gruppi è stato permesso di dialogare, gli ambasciatori inviati non hanno esitato a mentire. Le aspettative di competizione hanno generato comportamenti competitivi e sleali, the winner takes it all, la torta è una sola e si cerca di accaparrarsene la fetta più grande possibile.
Questo modo di percepire la negoziazione è detto "distributivo" (la ricchezza può essere distribuita solo più o meno equamente tra le due parti e l'obiettivo diventa quello di appropriarsene il più possibile). Il gioco si è concluso con l'insoddisfazione di entrambe le squadre che si sono rese conto dei punti negativi accumulati. Le emozioni verbalizzate sono state di frustrazione, rabbia, rammarico per le decisioni prese, risentimento per l’altra squadra.
Esiste un'alternativa al "Fixed Pie Mindset" ed alla negoziazione distributiva: si tratta del modello "integrativo", che parte da aspettative aperte alla possibilità di cooperazione anche in un contesto competitivo, portando a una maggiore trasparenza nello scambio di informazioni e quindi alla possibilità che emergano interessi diversi e/o comuni, ampliando l'area di possibile accordo delle parti. Ma questo tipo di negoziazione, che è quella promossa tra gli altri dal modello dei ricercatori di Harvard, Ficher e Ury, e divulgata nel famoso testo "Getting to Yes", si verifica solo nel 40% dei casi, secondo una meta-analisi condotta da un altro gruppo di ricercatori.
Questo 40% è particolarmente preoccupante se pensiamo a negoziati importanti, come quelli di pace - e ciò che sta accadendo proprio ora nei negoziati di pace in Ucraina dovrebbe farci riflettere - e a un altro tipo di negoziato cruciale per il nostro futuro, i negoziati sul clima.
A questi, John Bazerman dell'Università di Harvard e Don Moore dell'Università di Berkeley hanno dedicato un interessante articolo in cui analizzano le cause del fallimento di molti processi negoziali legati al clima. Il “Fixed Pie Mindset”, con risultati perdenti per tutti, è dovuto, come descritto nell'articolo "The Human Mind as a Bareer to Wiser Environmental Agreements", a una serie di fattori, alcuni generalizzabili a tutti i negoziati, come il modello competitivo semplificatore della complessità, applicato indiscriminatamente, come abbiamo illustrato in precedenza e, ancora, altri bias cognitivi, in particolare il bias dell'incompatibilità degli interessi, il bias della disponibilità di informazioni, il bias dell'ancoraggio, l'effetto memoria e, ancora, “l'effetto dotazione” - che spinge ad attribuire un valore maggiore a ciò che si possiede, e quindi a fare meno concessioni.
Infine, gli autori parlano di "pseudo-sacralità", ovvero del fatto che il valore formatosi sul mercato non viene riconosciuto come rientrante nell'area di possibile accordo, perché il valore emotivo attribuito all'oggetto è molto diverso. Gli autori citano un esempio di questo fenomeno, verificatosi durante una negoziazione tra un'organizzazione che promuove l'ecoturismo, che evidenziava l’incapacità degli indigeni di prendersi cura della loro terra (secondo il loro punto di vista), e il gruppo messicano Lacandon Maya.
Il valore attribuito alla terra e agli alberi dagli indigeni era molto alto: essi ritenevano che, per ogni albero abbattuto, ci sarebbe stata una stella sottratta al cielo e quindi che la foresta dovesse essere assolutamente preservata. Un valore non misurabile e trascendente. Eppure questo gruppo ha raggiunto un accordo negoziato che ha permesso una parziale deforestazione a favore dello sviluppo di un turismo eco-responsabile. "Quando è stato chiesto loro (agli indigeni) come potessero accettare di far tagliare gli alberi, la risposta è stata che l'accordo era l'alternativa migliore per mantenere il maggior numero possibile di stelle nel cielo".
Certamente, l'esempio è adatto a illustrare il passaggio dalla contrattazione distributiva a quella integrativa e, di conseguenza, il superamento del “Fixed Pie Mindset”. Andando oltre, però, potremmo fare alcune ipotesi sul modello profondo e sistemico che guida questo accordo. Pur con tutte le buone intenzioni (ecoturismo, rispetto della terra, rigenerazione della foresta, ecc.) in questo esempio c'è l'idea di un sistema capitalistico paternalistico che "salva" dalla possibile autodistruzione – le popolazioni indigene sono accusate di non gestire la terra secondo criteri "eco-responsabili" decisi dagli acquirenti, in particolare per quanto riguarda la pesca e la caccia.
Ma in un'interessante analisi del caso, a cura dell'antropologa Valentine Lousseau, (seguite il link per maggiori informazioni https://journals.openedition.org/elohi/455?lang=en#tocto1n1) si precisa che "l'uso che viene fatto dell'area di Lacandon ha sempre suscitato l'interesse, se non la meraviglia, degli osservatori stranieri. Etnologi, biologi ed ecologisti hanno lodato l'efficienza di un sistema di produzione e di estrazione delle risorse che risulta perfettamente adattato all'ecosistema della foresta tropicale".
In questo esempio, come in molti negoziati sul clima e sullo sfruttamento, l'esproprio e la spoliazione della terra, c'è un sistema di riferimento, un “assunto di base”, il mercato, che non viene mai messo in discussione e che guida l'analisi (anche dei ricercatori di Harvard) e la decisione finale, compreso l'allargamento della torta. Abbiamo visto, però, come questo modello contenga in sé una grande ombra, una distorsione interpretativa che costringe gli attori dentro un sistema competitivo, che nei negoziati sul clima porta ai risultati che stiamo vivendo, uno dei quali è il mancato accordo sui limiti delle emissioni di CO2 che portano al disastroso effetto serra, che renderà questo pianeta inabitabile molto prima di quanto fosse prevedibile. La metafora della torta porta in sé qualcosa di profondamente legato ad un paradigma di mercato e consumeristico. La torta, sia essa fissa o variabile, fa comunque riferimento al consumo, al momento nel quale essa sarà mangiata e non esisterà più.
Una alternativa è forse in un pensiero diverso, che non è più quello di come allargare la torta all'interno dello stesso sistema di regole e modi di leggere e operare, che ci riportano agli stessi errori e routine di comportamento. Potremmo chiederci se il "fixed pie mindset" invece come ripensare, ad un livello più profondo, gli assunti di base dai quali si parte. Una torta che non è più, quindi, "dentro" il sistema, ma il sistema stesso e la sua indiscutibilità. Il paradigma della rigenerazione (del quale potete leggere i principi sul blog), legato al funzionamento ecosistemico e naturalmente complesso, ci porterebbe ad esempio a chiederci: piuttosto che ingrandire una torta che sarà comunque mangiata, quali sono le scelte portano a rigenerare la vita piuttosto che consumarla, in un sistema in cui noi, le altre parti, l’ambiente siamo costantemente in relazione?
E voi, cari lettori del nostro blog, cosa ne pensate?
Ma davvero parla di me? Storytelling e bias del sopravvissuto
Cominciamo questo post raccontandovi una storia, per parlare di un bias che riguarda proprio il fatto di raccontare storie, ma anche per parlare di come il rischio di una visione meccanica della realtà può farci andare fuori strada.
Durante la seconda guerra mondiale, in UK un gruppo di ricercatori si trovò di fronte al problema di come riprogettare gli aerei in modo da minimizzarne le perdite. L’idea di partenza era quella di analizzare gli aerei ritornati alla base, se pur colpiti da proiettili nemici. Analizzandoli i ricercatori scoprirono che i proiettili avevano colpito soprattutto le ali e la coda, traendone la conclusione che queste parti andavano rinforzate perché più esposte di altre.
Fortunatamente Abrham Wald, un matematico che partecipava al progetto, prima che il gruppo incominciasse ad intervenire sugli aerei, ebbe un’intuizione: al campione mancava la parte fondamentale, quella degli aerei abbattuti. Andando ad osservare gli aerei non ritornati si poteva infatti trovare una pista interessante per la riprogettazione: era il motore ad essere la parte debole, non la coda o le ali! Gli aerei caduti, cruciali per capire le vere ragioni della vulnerabilità, non erano presenti perché non ritornati.
Il bias del sopravvissuto è un tipo di bias che impatta la selezione del campione da considerare come significativo analizzando un fenomeno. Si verifica quando un individuo scambia un sottogruppo di successo visibile con l'intero gruppo. In altre parole, dimentichiamo di considerare tutti i dati su coloro che non ce l’hanno fatta.
Il bias del sopravvissuto, oltre che una grande lezione su quanto sia importante formare dei campioni consistenti, quando vogliamo davvero comprendere un fenomeno, è un buon punto di partenza per ascoltare in modo critico i vari storyteller e guru che ci raccontano storie di successo: «come ho fatto il mio primo milione di euro» «come ho fondato la start up che ha levato 20 milioni di fondi» «come ho inventato il prodotto rivoluzionario» etc. Ma questo storytelling non ci permette di ascoltare anche le storie di tutte le altre persone alle quali non è riuscito di lanciare la propria start up, di ottenere enormi finanziamenti, di arricchirsi, non dà elementi per riferirci anche alle “worst practices”.
Questo non è il solo limite dello storytelling, esiste anche un altro rischio che possiamo correre quando prendiamo le storie raccontate dai e dalle role-model partendo da una visione meccanicistica della realtà.
Su un progetto di Diversity & Inclusion sul genere, potrebbe per esempio sembrare un’ottima idea quella di elezionare una donna e raccontarne la storia con l’intento di motivare altre a seguire il cammino tracciato. Ma questo esercizio rischia di farci perdere di vista che ci sono elementi specifici SOLO di questa storia che non si trovano nelle altre storie: quali condizioni specifiche nel contesto nel quale la persona agiva, quindi ad esempio quale cultura organizzativa, ma anche quali condizioni interne, quali schemi mentali ha dovuto superare. Nel role-modelling si rischia quindi di non tenere conto del fatto che gli investitori prestano meno alle donne, alle persone più povere etc.
Insomma l’esercizio rischia di essere ispirante sul momento ma, scollegato dal contesto e dal sistema nel quale la persona ha agito, di lasciare le persone che ascoltano con l'illusione di poter declinare acriticamente la storia nel proprio contesto. Per dirla in un altro modo, individuando le cause del successo nell'individuo, ci rendiamo conto delle cause contestuali e sistemiche, che spesso sono molto più strutturali per il risultato rispetto all'eroismo personale. Inoltre nel caso degli aerei la risoluzione del problema è relativamente semplice e meccanica: una volta che scoperto nel campione il bias del sopravvissuto poi si può facilmente intervenire sulle vere ragioni e rinforzare la parte del motore.
Ma se prendiamo il caso della riuscita personale o professionale, e ad esempio nella storia raccontata la persona ci dice che ha dovuto imparare ad avere fiducia in se stessa, a negoziare con investitori scettici etc, possiamo davvero pensare che una volta ascoltata poi si inneschi un cambiamento immediato? Questi fattori richiedono infatti molto tempo per evolvere, e non seguono un semplice schema insight -> risoluzione.
Al contrario, la trasformazione dei propri schemi psichici invalidanti richiede qualcosa di più che la semplice consapevolezza di averli; richiede un lavoro interiore che non si risolve con un semplice click. Nel caso degli aerei siamo in un sistema, se pur con tante variabili, semplice: l’intuizione che il campione è da rivedere ci basta per risolvere il problema. Quando applichiamo questo bais al caso, ad esempio, di una start-up agiamo invece in un sistema complesso e molto meno automatico, nel quale diventa più difficile, anche una volta ascoltata la storia mancante, quella dei e delle “non sopravvissute” innescare davvero un cambiamento complesso.
Dobbiamo quindi concludere che queste pratiche sono inutili? Assolutamente no! Anzi è importante dare visibilità a queste storie e continuare ad ascoltarle ed a raccontarle. Così come è importante raccontare anche le storie dei fallimenti, di coloro che non hanno avuto successo, non hanno ottenuto il finanziamento, non hanno lanciato la start up.
Raccontare le storie il più possibile intere, fornendo gli elementi di contesto ma anche facendone un’analisi razionale per capire ciò che è applicabile alla nostra, di storie, e cosa ci insegna rispetto al nostro contesto, alle nostre risorse, cosa la storia che abbiamo ascoltato mette in luce rispetto ai nostri modelli mentali, senza pensare di poterla riprodurre in maniera acritica. Chissà, potrebbe anche indicare altri punti di leva strutturali che devono essere attivati prima che i singoli individui possano davvero sbocciare, per quanto possano aspirare a essere eroici...
Modelli mentali, razzismo sottile e cioccolato: una rivelazione
Il contesto è una riunione internazionale e multietnica con una ventina di partecipanti di una organizzazione, con l’obiettivo di riconnettersi al suo purpose, per poter poi impostare le attività dei prossimi mesi e di nominare la leadership adatta ad accompagnare il futuro che emerge.
La lingua ufficiale dell’incontro è il francese: si è stimato che tutti i membri del gruppo lo parlino sufficientemente bene da poter seguire senza problemi. Viene offerta una traduzione sporadica e spontanea “a bisogno” dal portoghese al francese ma non viceversa, organizzata tra i partecipanti.
La modalità d’animazione prevede che al termine delle giornate di lavoro collettivo, vengano organizzate delle sessioni serali di debriefing di un’ora, un piccolo gruppo parte del grande, chiamato “Comitato di coordinamento”. Il gruppo ha l’obiettivo di rivedere i contenuti ed i temi emersi, ma soprattutto di essere luogo di analisi delle dinamiche di grande gruppo accadute durante la giornata per collegarle con le dinamiche del più ampio sistema, ed elaborare, per i giorni successivi, delle proposte di lavoro coerenti.
Il “Comitato di coordinamento” è composto di 4 membri fissi e due variabili, membri del grande gruppo che si offrono di partecipare, su base volontaria, all’inizio di ogni giornata. Un componente “fisso” del Comitato, scherzando sul fatto che la sera prima durante il Comitato di coordinamento” si era consumanto molto cioccolato, e con l’intenzione di incoraggiare la venuta dei due volontari dal grande gruppo scherza “E poi ci sarà un fattore di compensazione, consumeremo molto cioccolato”.
Uno dei membri del grande gruppo, una giovane ragazza proveniente da un paese africano, Louisa, dopo questa battuta appare evidentemente perturbata e resta in silenzio. Si trovano infine i due volontari e la giornata prosegue esplorando il tema “Quale leadership è necessaria per guidare i prossimi anni?”. Improvvisamente Louisa sbotta, in portoghese “non mi sono offerta di far parte del Comitato, stamattina perché ho capito che i membri volontari sarebbero stati trattati come il cioccolato e mangiati dai membri del gruppo come ricompensa”.
Parecchi anni fa, durante un lavoro allora pioniere, sull’emergere di modelli di leadership alternativi (allora era chiamato “Emergenza della leadership femminile” un titolo che oggi non userei più) che realizzavamo in una grande banca, avevamo utilizzato il termine “alterfagia” per descrivere una delle resistenze collettive al cambiamento, manifestate durante il progetto.
L’Alterfagia descrive il tentativo di trasformare l’altro manipolandolo, trasformandolo in un oggetto, assimilandolo a sé attraverso il fatto di “mangiarlo”, negandone in questo modo la differenza. Per la banca per la quale lavoravamo l’alterfagia si manifestava in diversi tentativi di assimilare le donne dentro il modello di leadership basato su stereotipi maschili che era al tempo dominante.
Nel caso del “cioccolato” un membro dello staff fa una battuta, non avente nessuna intenzione di esculdere o di insultare. Questa battuta pero’ viene fraintesa in un modo particolare, tra i tanti fraintendimenti possibili, che tocca una dinamica organizzativa presente da anni nell’organizzazione, che riguarda la leadership ed il sentimento, da parte delle persone in Africa in particolare, che ci sia una testa pensante europea (e bianca) ed un braccio operativo nel sud del mondo (nero) che subisce un processo di colonizzazione. Questa dinamica fa si’ che le persone in Africa non siano mai prese in considerazione nella rosa dei candidati a guidare il gruppo.
Il “fraintendimento del cioccolato” ha permesso al gruppo di esplicitare qualcosa di molto difficile da dire, in particolare il sentimento di inferiorità provato da una parte dei suoi membri, la percezione di esclusione da certi ruoli, e questo non in base a competenze più o meno possedute ma in base a caratteristiche personali, quali il colore della pelle ed la provenienza geografica.
Ha permesso anche alla parte europea, identificata come “colonizzatrice” del gruppo, di riflettere su quanto (inconsciamente) agito, riflessione che, a causa di un sentimento strisciante di vergogna che è emerso durante gli scambi generati dall’analisi della metafora, che non era ancora stata fatta fino in fondo.
Lo spazio che si è aperto quando abbiamo offerto la possibilità di fermarsi ad esplorare meglio quanto successo ha permesso un dialogo profondo, autentico, commovente su quanto sperimentato per anni da una parte del gruppo.
Dopo una prima reazione quasi violenta, minimizzatrice il gruppo si è aperto infatti alla possibilità di arricchire la metafora del “cioccolato”, di fare altre associazioni oltre quelle che erano state offerte dallo staff per andare più lontano.
Si è aperto un momento di profonda esplorazione dei modelli mentali, della loro funzione, dei loro limiti e delle conseguenze che questi possono avere sulle persone e sulle performance, che ha permesso una sana rigenerazione, in vista delle nomine del nuovo gruppo di leadership.
Le differenze etniche, il caso di una conversazione spinosa
La conversazione sulle differenze etniche non è mai facile, all’interno di un gruppo. D’altra parte, dopo il movimento #blacklivesmatter, avere questo tipo di conversazioni ed agire di conseguenza è diventata una necessità ed un punto di partenza per creare ambienti organizzativi nei quali equità ed appartenenza possano acquisire un senso concreto, al di là delle dichiarazioni di intenti e degli hashtag sui social.
Mi capita spesso di osservare, nei gruppi per i quali lavoro, che quando si arriva a nominare il razzismo vissuto da una parte dei membri, dopo un primo momento nel quale si riesce a fare un passo di consapevolezza, diventa poi molto difficile proseguire davvero la conversazione e chiedersi cosa fare concretamente. E’ come se una specie di gelo imbarazzato arrivasse nella stanza.
Nella mia esperienza quello che è difficile è da un lato parlare delle proprie emozioni e dei propri vissuti sul tema e dall’altro non lasciare i sensi di colpa e la vergogna prendere tutto lo spazio nella relazione e rendere impossibile uno scambio che sia davvero trasformatore.
Questa settimana mi sono trovata più o meno in questa situazione, insieme al gruppo con il quale stavo lavorando. Dopo molti tentativi di evitare il tema, il gruppo finalmente era riuscito a nominare una grande fonte di conflitto che era restata latente fino a quel momento, “l’elefante nella stanza”: il fatto che una parte dei suoi membri, di etnia afro-americana, si sentisse sistematicamente esclusa dai luoghi di decisione, le loro voci dimenticate o comunque non ascoltate.
Ho cercato più volte di rilanciare il tema ma ogni volta il gruppo pur riconoscendo che era importante parlarne ed agire di conseguenza, trovava il modo di deviare verso altri temi.
Una delle cause possibili di questa dinamica è quella che che viene chiamata “white fragility”, descritta nel bel libro dallo stesso titolo di Robin DiAngelo: si tratta dello stress provato dai bianchi, nell’avere questo tipo di conversazioni, nell’atteggiamento difensivo che viene assunto quando si tratta di parlare di razzismo nell’incapacità di elaborare informazioni ricevute su questo tema.
La “fragilità bianca” può scatenare emozioni molto forti come rabbia, paura, vergogna. Ma anche “benaltrismo” tentativo di spostare l’attenzione su altre forme di discriminazione, minimizzazione, quando si cerca di togliere importanza al problema con accuse di esagerazione e di eccessiva suscettibilità fatte alla parte lesa, esattamente quello che stava succedendo nel gruppo col quale stavo lavorando.
Mi sono chiesta come arrivare ad avere una conversazione aperta, quali barriere la impedivano e mi sono detta che forse i diversi tentativi per parlare di questa dinamica così viscerale in modo razionale non toccavano le giuste corde e che la strada giusta per iniziare una conversazione profonda era quella del corpo.
Ho proposto al gruppo , al posto del rituale check in di inizio sessione, di comporre una statua vivente, usando alcuni spunti del Social Presencing Theater insieme ad alcune tecniche di psicodramma. Ho chiesto ad un sotto gruppo di volontari di interpretare, ciascuno, i seguenti personaggi: i clienti, la casa madre in Europa, le persone Europee del gruppo, i membri afro-americani, il gruppo di leadership, i membri europei, l’Europa, il Sud del Mondo. Il resto dei membri del gruppo facevano da spettatori.
I volontari hanno incominciato a muoversi nello spazio ed ho chiesto loro, una volta che si sentissero pronti, di formare una scultura vivente che rappresentasse la situazione attuale. Una volta formata la scultura “situazione attuale” ho poi chiesto loro di esprimere le loro emozioni ed i loro pensieri da questa posizione.
L’esercizio, che era cominciato con alcune risate, è continuato in un silenzio totale. Il gruppo sembrava profondamente coinvolto e la statua vivente che i membri hanno formato era una rappresentazione potente e chiara della dinamica di esclusione in corso.
Poi i volontari componenti della scultura hanno incominciato ad esprimersi. La frase “Mi sento soffocare, sento che non ho voce, vorrei poter parlare ed essere ascoltata, vorrei poter accedere a ruoli di potere, non solo ascoltare” con il suo rimando alla morte atroce di George Floyd, ha prodotto grande commozione nell’uditorio.
La persona che interpretava il gruppo di leadership ha rappresentato la situazione attuale con un braccio, messo affettuosamente (ma anche paternalisticamente) sulla spalla dei membri afro-americani.
Una volta che tutti i membri si sono espressi ho chiesto loro di far evolvere la scultura per rispondere al nuovo purpose che il gruppo si era dato per il futuro, sciogliendo i nodi e gli schemi mentali, in particolare la dinamica in-out group, che avrebbero impedito loro di creare un’alleanza autentica per raggiungere i loro obiettivi.
La conclusione dell’esercizio è stata una elaborazione collettiva, a partire dalla domanda “cosa è cambiato in me avendo assistito a questo esercizio?” che ha permesso a ciascuno di esprimere punti di vista e vissuti. Molti membri del gruppo hanno potuto esprimere la vergogna, il dolore, le ferite inferte da questa dinamica di esclusione.
Il risultato è stato un impatto radicale sui piani di azione che erano stati prodotti nei giorni precedenti, cha ha tenuto conto di questo momento collettivo di trasformazione, per riformularli con l’obiettivo di rigenerare le relazioni ed in questo modo rigenerare l’appartenenza per tutti. Il gruppo di leadership che si è formato in seguito ha potuto, finalmente, includere anche coloro che fino ad allora erano stati esclusi.
Di Overview Effect, dei livelli di Bateson e di apprendimenti per il futuro
Da piccola uno dei miei sogni era di andare nello spazio. Mi immaginavo dentro una capsula spaziale a guardare la Terra allontanarsi piano attraverso l’obló e la Luna e i pianeti via via diventare più visibili. La lettura di “Lucky Star e le Lune di Giove” contribuiva a rendere questo sogno ancora più dettagliato. Il mio sogno ormai è diventato sempre più realizzabile, i primi viaggi “turistici” nello spazio stanno incominciando (sull’opportunità e la diffusione di questi viaggi rispetto alla produzione di CO2 si potrebbe discutere) e da qualche tempo mi capitano sotto gli occhi sempre più spesso articoli sull’”Overview Effect”. Cosa vuole dire Overview Effect? Il nome è stato ideato da Frank White che lo ha usato per la prima volta nel 1987, nel suo libro che si intitola proprio “The Overview Effect”.
Si tratta di una raccolta di esperienze descritte dagli astronauti che sono andati nello spazio, e che si sono raccontati, non tanto sulla parte ingegneristica del loro viaggio ma sulle emozioni dalle quali sono stati attraversati. Gli astronauti partiti dopo l’uscita del libro hanno potuto cosí beneficiare di un concetto per descrivere le emozioni forti e confuse provate durante il viaggio, in particolare guardando il pianeta Terra da una prospettiva unica.
Un punto di vista molto particolare, che provoca un’esperienza che possiamo definire trascendente (un “salire al di là” molto tangibile), un movimento interiore profondo e duraturo cosí come descritto dagli astronauti che lo hanno sperimentato: un misto di compassione, tenerezza, vulnerabilità, consapevolezza di appartenere ad un tutto.
Un amore incondizionato ed universale che si prova per la Terra, vedendola cosí lontana e fragile, che fa sí che dopo questo tipo di esperienze la chiave di lettura di sé e del mondo passi attraverso questa lente. Dentro l’Overview Effect c’è il sentimento profondo di appartenenza, la fine della separazione dalla Terra, la consapevolezza di essere produttori dei contesti nei quali viviamo di cui parla Bateson in “Verso un’ecologia della mente”.
Se ne parlo in questo post è perché le fotografie che accompagnano la descrizione dell’Overview Effect sono una prima “madeleine” che mi rimanda ai miei sogni di bambina; la seconda “madeleine” è per me la connessione che ho fatto tra “Overview Effect” e la mia tesi di laurea sulla creatività e l’apprendimento ed è di questo che vorrei parlare nel blogpost dopo questa premessa un po’ lunghetta.
Una parte importante della mia tesi era infatti dedicata a definire cosa significa “apprendere” un tema che mi affascinava allora come ora, al punto di averne fatto il centro del mio lavoro. Una delle pietre miliari sul tema è senza dubbio la teoria dei “livelli di apprendimento” di Gregory Bateson. In sostanza Bateson, partendo dalle teorie dei Tipi Logici di Whitehead e Russel e da modelli cibernetici, ha formulato una teoria dell’apprendimento che permette di definirlo su 4 livelli logici (molto interessante in relazione all’apprendimento in Bateson, tutto il tema dei paradossi ma non è oggetto del nostro blogpost).
Di seguito i livelli di apprendimento di Bateson descritti in estrema sintesi, con un’esempio che ci servirà per chiarire il legame tra la teoria di Bateson e l’Overview Effect.
- Livello 0 – prevede solo una semplice risposta ad uno stimolo (apprendimento automatico, nessuna riflessività). E’, ad esempio, il caso di quando agiscono stereotipi molto forti che generano routines di pensiero rigide che permettono solo risposte obbligatorie agli stimoli, senza possibilità di alternative. Ad esempio prendiamo il caso di un’azienda che ha prodotto rifiuti e che li getta sempre nello stesso punto nel mare. Non abbiamo nessun altro tipo di risposta a disposizione, gettare in quel punto è automatico, la routine di pensiero (o lo schema mentale della priorità assoluta del profitto) non permette di vedere alcuna alternativa.
- Livello 1 – prevede che possiamo scegliere la nostra risposta allo stimolo tra diverse alternative, presenti in uno stesso insieme. In questo tipo di apprendimento è quindi possibile il cambiamento, nella specificità della risposta, mediante correzione degli errori di scelta, all'interno di un insieme di alternative date: la risposta appresa resta adeguata solo in quel particolare contesto, che deve perciò ripresentarsi uguale. Il condizionamento pavloviano classico è un esempio di questo tipo di apprendimento. Nel nostro esempio dei rifiuti, posso decidere di gettarli in un punto del mare ma anche gettarli in un altro punto, perché ci rendiamo conto, ad esempio, che è più economico del primo. I diversi sbocchi sul mare costituscono le diverse alternative nell’insieme delle scelte.
- Livello 2 – Nell’apprendimento di questo livello abbiamo la consapevolezza che le alternative possono trovarsi anche in altri insiemi: l’apprendimento è quindi sul cambiamento del processo di apprendimento 1, una correzione dell'insieme di alternative entro il quale si effettua la scelta. Si è quindi consapevoli che le scelte avvengono in un sistema di alternative dato e si è capaci di vedere e cambiare insiemi di alternative. Quindi, per ritornare alla nostra produzione di rifiuti, possiamo decidere di gettarli in mare, ma sappiamo che ci sono altri insiemi di alternative, tipo quello di bruciarli, di sotterrarli etc. Ancora è solo il principio del profitto a guidarci.
- Livello 3 – Questo apprendimento è molto raro. E’ l’apprendimento che si realizza attraverso la percezione del sistema di sottoinsiemi di alternative e nel quale si percepisce la possibilità di cambiarlo. Avviene quindi riuscendo a vedere insiemi di contesti diversi nei quali le alternative esistono. In questo tipo di apprendimento “l’io diventa quasi irrilevante e non è più essenziale alla descrizione dell’esperienza”. L’insight avviene quando facciamo un’esperienza che ci mette in contatto profondo con la nostra interconnessione con il contesto, con il Cosmo, con la Natura, con la consapevolezza che non ne siamo separati ma integrati e che le nostre scelte cambiano le nostre possibilità future.
L’apprendimento 3 è raro perché si realizza quando il sistema cognitivo è profondamente scosso (ad esempio in una situazione terapeutica o in un’esperienza mistica) e, Bateson dice, al confine con la patologia. Una strada possibile, patologica, dell’apprendimento 3 è proprio la psicosi. In questo tipo di apprendimento la logica del profitto (e dell’ego) non è più prioritaria.
Nel nostro caso dei rifiuti, l’apprendimento di tipo 3 potrebbe avvenire in un momento di consapevolezza profonda del fatto che producendo rifiuti e scaricandoli nella Natura in realtà stiamo intervenendo sul nostro contesto e modificandolo, minacciando in questo modo le nostre possibilità di sopravvivenza future. Questo tipo di apprendimento parte da una premessa importante, che è quella di riuscire a percepirci non più come distaccati ma in connessione e comunione con la Natura. Possiamo scegliere di smettere di produrre rifiuti, ripensando il nostro processo di produzione ad esempio in forma circolare, perché i rifiuti diventino input di un altro processo di produzione.
Due scienziati, James Lovelock e Lynn Margulis sono gli autori di una teoria affascinante (ma anche controversa), la famosa “ipotesi Gaia” secondo la quale la Terra è un unico essere vivente, che respira e vive, composto da diversi esseri viventi. Secondo questa ipotesi l’interconnessione non è solo un modo di percepire, di apprendere i nostri contesti ma qualcosa di più. Ridurre la complessità e sentirci separati da essa ci rende impermeabili all’empatia ed alla sofferenza per come trattiamo Gaia, il nostro pianeta-essere vivente.
L’Overview Effect è una prospettiva interessante per chiederci: come possiamo rigenerare il nostro sguardo sul mondo? Come generare lo stesso movimento personale che permette agli astronauti di non essere più gli stessi, una volta provato questo effetto? Come accedere all’apprendimento 3 sulla nostra condizione umana in questo pianeta? Come, collettivamente, ottenere un insight che ci porti a ripensare radicalmente i nostri sistemi di produzione e la nostra relazione con la Terra?
L’apprendimento 3 ha una componente spirituale molto forte. Gli astronauti che sono stati intervistati da Frank White hanno parlato di allineamento spirituale, di trascendenza dell’esperienza. Forse una strada da percorrere, per sentire questa ondata di amore e tenerezza verso la nostra casa comune, è proprio quella di aprirsi collettivamente e davvero a questa dimensione.
Che la tua intenzione sia semplice
In questi giorni ho il grande privilegio di co-facilitare un gruppo insieme ad un formidabile prete Gesuita. Scherzando ci diciamo che io sono addetta alla parte psicosociale e lui si occupa di spiritualità, ma in realtà formiamo un binomio integrato!
La parola intenzione viene dal latino in tendere, tendere verso, volgere verso un determinato termine. Tra i diversi significati della parola “intenzione”che potete trovare in qualunque vocabolario, ce n’è uno che è particolarmente interessante: in medicina l’intenzione è infatti l’atto di avvicinare i lembi di una ferita per permettere la cicatrizzazione. Questo significato rimanda alla rigenerazione della pelle, alla possibilità di guarire riunendo quello che era separato perché era stato ferito.
Durante il nostro lavoro insieme al padre gesuita, ad un certo punto per il gruppo si è posta la necessità, di avere conversazioni difficili tra alcuni dei membri per poter veramente agire come un collettivo intorno ad un purpose comune. Ed è su questo che siamo arrivati al tema dell’intenzione ed al suo chiarimento.
Quando decido, ad esempio, di incominciare una conversazione difficile, di che tipo è la mia intenzione? E’ una intenzione che vuole davvero rigenerare? Ed è questo punto che il contributo del padre gesuita (e di Ignazio di Loyola) è stato illuminante. Prima di affrontare queste conversazioni difficili infatti una domanda che ci puó aiutare ad esplorare l’intenzione profondamente è “La mia intenzione nell’avere questa conversazione è diritta?” e diritta significa semplice, non mescolata ad altre. Una bella metafora è quella del biliardo, nel quale si colpisce una palla mentre in realtà se ne vuole colpire un’altra e la palla che si colpisce serve solo a mandare l’altra in buca.
A volte le intenzioni possono invece essere confuse, ripiegate (proprio il contrario di semplici, simplex, sem-plectere, piegato una sola volta). Se davvero la nostra intenzione è guarire, riparare una ferita è importante quindi togliere quello che si mescola ad essa (desideri narcisistici, manipolatori, non benevoli nei confronti dell’altro...) e restare con l’intenzione “diritta”, sana, pura, alla quale non si mescolano altre intenzioni che la rendono, machiavellica e che alimentano la sfiducia ed il sospetto, facendoci ottenere, invece del risultato di guarigione, ricucire la ferita, esattamente il risultato opposto: delle ferite che non si rigenerano più.
Feedback? No grazie!
Antonio, direttore marketing di una multinazionale, è un convinto sostenitore della prassi di “feedback continuo” che è stata recentemente introdotta nel ciclo del performance management. Antonio pensa che, proprio attraverso il feedback, sia possibile far crescere le soft skills delle sue collaboratrici e collaboratori, non solo le loro capacità tecniche. Per questo non perde occasione di avere colloqui individuali per restituire il suo sguardo sulla loro assertività, sull’empatia dimostrata nelle relazioni, sulle loro capacità di leggere i bisogni di clienti interni ed esterni. Questi colloqui, settimanali, cominciano con una serie di feedback detti “di miglioramento”, dati sulle parti di prestazione che non hanno soddisfatto Antonio, finendo con una serie di feedback di rinforzo, sulle parti di prestazione che si sono rivelate efficaci. Antonio è sicuramente un manager capace ed esemplare, e la pratica del feedback va sicuramente incoraggiata - penso a quante persone mi è capitato di incontrare, nelle organizzazioni, che non hanno alcuna idea di ciò che le e i loro manager vedono della loro prestazione. Alla luce di un interessante articolo, apparso nel 2019 su HBR, firmato dai ricercatori Marcus Buckingham e Ashley Goodall di ADP possiamo chiederci se questa pratica continua è davvero benefica per l’apprendimento delle persone.
Questo blogpost esplorerà alcune domande, a partire dalle pratiche osservate e dalla letteratura sul tema ed in particolare: il feedback continuo aumenta sempre la nostra consapevolezza? Ci fa sempre crescere? E’ sempre generatore di apprendimento? Fornendo, nella parte finale, alcuni spunti pratici di gestione.
Queste domande richiamano alcune convinzioni ed abitudini di pensiero rispetto al feedback, derivanti in gran parte da modelli ereditati da un passato nel quale il livello di conoscenze scientifiche non aveva ancora permesso la comprensione interdisciplinare dei suoi effetti che incominciamo ad avere oggi, anche grazie alla IRM. Penso, ad esempio, ad un modello che amo molto, la famosa Finestra di Jo-Hari, creata da Joseph Luft e Harrison Ingham, che prende il nome proprio dalle iniziali dei suoi creatori. E a quanto mi è sempre piaciuto condividere con allievi e partecipanti di corsi di formazione una storia quasi magica sul fatto “johari” in sanscrito vuole dire “colui che possiede tesori e gioielli” (credo letto in una nota del saggio “Soggettività” di Enzo Spaltro). Questo significato nascosto e misterioso mi è sempre sembrato una magica metafora di quanto sia preziosa l’attività di dare e ricevere feedback per aggiungere pezzi preziosi alla nostra identità, che altrimenti non avremmo modo di integrare.
Ma alcune recenti scoperte, in particolare sul feedback negativo, ci mostrano come pensare di raggiungere sempre un obiettivo di crescita personale e professionale attraverso il feedback possa rivelarsi ingannevole. È la “feedback fallacy” esplorata attraverso diverse ricerche da Buckingam e Goodall. Ad esempio, secondo una ricerca del loro istituto ADP sui bisogni della generazione Millenial, si confonde la richiesta di più attenzione, con quella di “più feedback”. In realtà il bisogno sottostante sarebbe piuttosto quello di un pubblico che sia attento a loro, come succede quando nei social network quando si ricevono stelline, cuoricini, like. Quindi, quando si adottano processi di “trasparenza radicale” o “feedback duro” che consistono a mettere le persone al centro di un flusso continuo di feedback, negativi o positivi, si risponde in maniera discutibile ad un bisogno presente. Infatti, se il feedback negativo “procedurale”, quello di correzione di errori operativi, ci aiuta a correggerci ed è sempre utile, il feedback totale che descrive la prestazione attraverso punti di forza e di debolezza anche su aree comportamentali quali assertività, propensione al rischio, visione d’insieme, empatia etc. presenta il rischio di essere addirittura dannoso e vedremo come.
Buckingam e Goodall nella loro ricerca hanno individuato tre modelli mentali, tre bias, che guidano il nostro uso del feedback senza essere messi in discussione:
- Il modello “fonte della verità” secondo il quale l’altro che ci osserva, ha la verità più o meno oggettiva sulla nostra prestazione. In realtà l’altro ha solo una percezione parziale, fallace e soggettiva ben lontana dalla verità assoluta. Se prendiamo ad esempio una competenza comportamentale tipica, “Visione d’insieme”, anche se essa viene declinata e descritta dai comportamenti correlati, è evidente che arrivare ad una percezione precisa e misurabile è praticamente impossibile. Questa fallacia diventa evidente nei sistemi di feedback a 360°, che mettendo insieme numerose percezioni, ci danno l’illusione di arrivare ad una buona approssimazione media. L’errore di fondo però resta quello di pensare che facendo la media tra percezioni distorte da un insieme di bias, possiamo arrivare a qualcosa di preciso.
- Il modello “colmare i gap attraverso l’apprendimento”. Secondo questo modello ci sono competenze target per ogni ruolo e quelle non possedute vanno apprese. Si è tuttavia più recentemente scoperto che le connessioni neuronali si generano soprattutto dove sono presenti già altre connessioni, più difficile diventa crearne di nuove. Quando il cervello riceve un feedback positivo il segnale ricevuto è che qualcuno apprezza ciò che stiamo facendo e questo crea la possibilità di generare nuove connessioni e di apprendere. Il feedback negativo produce invece l’attivazione della modalità di sopravvivenza “fight or flight” e lo stress generato non solo non produce apprendimento ma lo riduce. Questo risultato è contro intuitivo rispetto a tanti slogan sulla necessità di “abbandonare la propria area di comfort”: al contrario, l’apprendimento, la creatività, la produttività si generano al suo interno o con un accompagnamento attento ad attraversare la zona “modalità di sopravvivenza”, non giusto lasciando la persona con il feedback negativo.
- Il terzo modello mentale è la “teoria dell’eccellenza” secondo la quale c’è un modo eccellente per raggiungere obiettivi. Ed anche questo assunto è facilmente smontabile. C’è un modo eccellente quando i compiti sono ripetitivi e meccanici ma in contesti complessi diventa difficile arrivare a selezionare una via unica all’eccellenza. Ancor più vano, secondo i ricercatori, pensare di arrivare all’eccellenza attraverso la correzione dei fallimenti, che porta, forse, allo sviluppo di una prestazione adeguata, dato che l’eccellenza per le diverse persone assume diverse forme. Togliere la soggettività alla prestazione non porta dunque ad una presunta “eccellenza oggettiva”.
Cosa fare dei risultati di queste ricerche? Smettere di dare feedback correttivo?
La risposta, confortata dalle ricerche sugli effetti del feedback “informativo” che si dà per correggere l’operatività, è sicuramente “no”: essendo un feedback che viene dato per correggere azioni concrete, immediatamente comprensibile dal ricevente, possiamo continuare a darlo – con tutte le precauzioni del caso. Un feedback circostanziato, focalizzato sull’azione specifica, il più possibile vicino al momento nel quale l’errore è stato percepito. Questo tipo di feedback non viene percepito minacciante, spostando l’attenzione dalle emozioni negative dovute all’errore commesso, al compito ed al bisogno di svolgerlo correttamente. E’ quindi utile a fornire informazione che permette di correggere l’errore.
Il feedback che mira invece a correggere comportamenti più complessi, quali quelli legati alle skills relazionali, deve invece essere maneggiato con più attenzione.
In particolare, pensando ai tre modelli mentali messi in evidenza dalle ricerche, che producono la “feedback fallacy” chi dà feedback potrà:
- Adottare un atteggiamento “umile” e di apertura ad una storia diversa che emerge: si tratta di una percezione, non della verità, potremmo non aver colto tutta la complessità dell’azione;
- Sottolineare i punti di forza. Questo contribuisce a consolidare gli apprendimenti all’interno dell’area di comfort delle persone ed a rinforzare quello che sanno fare bene, in particolare se fatto nel momento nel quale vediamo il talento delle persone esprimersi. “Si’ è esattamente questo!!” detto nel momento nel quale l’eccellenza accade funziona molto meglio di una descrizione oggettiva ed impersonale di quello che dovrebbe essere;
- Partire da sé e non dall’altro o dall’altra. A cosa quello che stiamo vedendo ci fa pensare, come lo riceviamo, quali emozioni ed interpretazioni diamo rispetto a quanto succede e anche cosa avremmo fatto di diverso; su questo la matrice della parola generativa, (andate al link che trovate all’interno di questo blog), può fornire utili spunti pratici per questa conversazione;
- Aiutare la persona a connettere il passato, il presente, il futuro. La Teoria U, che ha alla base proprio questa capacità, dal presente, di essere in connessione ed in continuità con passato e futuro, può rivelarsi un frame davvero utile per evitare il “downloading” e invece orientare il feedback al futuro che desideriamo costruire insieme.
- Infine, una possibilità, più nell’ordine del management della diversità e oltre, della cittadinanza organizzativa, consiste nel comporre le squadre con persone che portano differenza: persone diverse per competenze, stili cognitivi, provenienza, genere, età, etc. in modo da poter rinforzare i punti di forza di ciascuna e ciascuno e fare leva sulla complementarità delle competenze piuttosto che fare immani sforzi per crearle là dove è più difficile.
E se sottrarre ci aiutasse ad essere in contatto con il purpose? Pensare ed agire per sottrazione - Seconda parte
La soluzione non è eliminare completamente l’aggiunta, non è nel pensiero binario e polarizzato…quello che possiamo fare è, ogni volta che riflettiamo ad un problema, ricordarci che c’è la possibilità anche di togliere. Non si tratta quindi di smettere di aggiungere, abbiamo visto come questo modo di pensare, di risolvere i problemi, di interpretare il mondo sia essenziale. Si tratta piuttosto, quando stiamo riflettendo, ad esempio, ad una soluzione possibile, di avere le due alternative ugualmente presenti, di darsi la possibilità di utilizzare anche la sottrazione. Quanto più siamo connessi al purpose quanto più questa alternativa prenderà tutto il suo senso.
Questa conferenza è un modo per aiutarvi ad essere più consapevoli, speriamo che a partire da ora qualcosa vi aiuti, quando state pensando in termini additivi, a togliere.
Vedremo nella prossima sessione i collegamenti tra la connessione profonda al purpose e la possibilità di togliere.
Sul purpose state lavorando da tanto tempo e ormai vi è noto che è la “ragione di esistere”dell’azienda, il suo perché, lo scopo collettivo che vi tiene insieme, ma anche il collegamento tra il ruolo di ciascuna e ciascuno di voi ed il sistema. Provate ora a pensare al vostro ruolo non in termini di una serie di cose da fare ma di “perché esiste?” e “quale contributo dà al purpose aziendale”. È interessante pensare al proprio ruolo in questi termini, prima di tutto centrandosi sul “perché” e poi sul “come” ed il “cosa”, seguendo il modello del Golden Circle di Simon Sinek e una volta chiarito questo, legandoci alla “sottrazione” chiederci se il come ed il cosa rispondono solo ad una logica aggiuntiva, che rischia di allontanarci invece che aiutarci a focalizzare l’essenziale. So che molte persona magari ora stanno pensando “ok bene, facile a dirsi ma come si fa a farlo?”…vi propongo quindi di aprire alcune piste su come mettere tutto ciò in pratica nella vita aziendale ma anche nella vita privata, partendo da alcuni assi di riflessione.
- I meeting. Ci sono alcune trappole che possono spingerci a moltiplicare i meeting. Tra queste: pensare che le riunioni operative servano come leve motivazionali, quando le équipes sono in una fase di perdita di senso (il meeting che serve, in questi casi, è proprio sul “perché”, eventualmente, sicuramente non sul “cosa” né sul “come”) o ancora peggio, per testare il commitment del gruppo. Oppure i meeting usati in modo autoreferenziale, per colmare la solitudine…penso a quante volte ultimamente mi è capitato di sentire “il personale deve ritornare in ufficio” senza una ragione particolare ma solo perché le gerarchie non si sentano troppo sole 😉e a questo proposito sono molto nell’”air du temps” i meeting convocati per ovviare alla cosiddetta “amnesia da video call” che ci colpisce quando ci illudiamo delle nostre capacità multitasking per poi renderci conto che se durante la video call abbiamo fatto altro poi non sappiamo bene cosa è stato deciso e perché…C’è un acronimo che rende bene un’altra dinamica contemporanea che è FOMO, Fear Of Missing Out, la paura di essere dimenticati e dimenticate se non partecipiamo e presenziamo a tutto quello che succede, che ci puo’ spingere ad addizionare meeting, eventi, colazioni di lavoro etc. Infine, ancora un bias, quello del conformismo sociale che ci può spingere a partecipare solo perché gli altri ci vanno…Sulla decisione di sottrarre o addizionare meeting, oltre a mettere in evidenza il valore aggiunto sul purpose, c’è un semplice strumento che ci può aiutare a restare ancorati ed ancorate alla realtà, lo strumento che vi invito a scoprire “Quanto costa il mio meeting?” andando a questo link https://hbr.org/2016/01/estimate-the-cost-of-a-meeting-with-this-calculator e che ci può aiutare a decidere
- Sulle decisioni di sottrazione o addizione nelle “to do list”, l’idea, che non è nuova, è quella di gestire meglio il proprio tempo. Per coloro che hanno bisogno di idee e strumenti sofisticati consiglio la lettura del famoso “Getting the Things Done”, altrimenti c’è questa semplice matrice che ci puo’ aiutare ad eliminare qualcosa…non è nuovissima, è un po’ vintage anzi, ma usata bene puo’ essere l’inizio per liberare spazi:
Attenzione! Una volta liberato il 20/30% delle vostre giornate a non riempirlo di nuovo!!
- Un ruolo nuovo nei gruppi di progetto, il/la responsabile della sottrazione. Perché non esplicitare la sottrazione, renderla incarnata, per aiutarsi reciprocamente a ricordarsene, uscendo dalla routine additiva? Nei gruppi di progetto si puo’ quindi Identificare il ruolo di “subtractor in chef” che avrà, tra i suoi obiettivi, quello di ricordare l’importanza di sottrarre ai membri del gruppo, chiedersi cosa sottrarre per raggiungere meglio gli obiettivi, un ruolo creativo e sfidante che potrà evitare al gruppo di progetto di impantanarsi in una marea di attività che non servono il purpose.
- Altri ambiti di sottrazione lavorativa: sottrarre priorità (no, non è tutto prioritario!), sottrarre le persone in copia di una mail, sottrarre le mail inviate, sottrarre i punti chiave e le slides da una presentazione, sottrarre il numero degli obiettivi, lasciare solo quello che genera veramente valore sul purpose, la metodologia OKR offre spunti interessanti…
- Qualche idea di sottrazione anche al di fuori del lavoro… Sottrarre cose portate in viaggio (con la crisi degli aeroporti in questo modo si porterà solo il bagaglio a mano e leggero!!), sottrarre viaggi come siamo stati obbligati ad imparare a fare in questi due anni, svuotare i nostri social dalle relazioni che fanno “rumore”, sottrarre le cose che abbiamo in casa…Marie Kondo insegna come svuotare gli armadi, sottrare spazio dai nostri luoghi di abitazione: più la casa è grande più tenderemo a riempirla, sottrarre i consumi inutili e mai come in questo momento l’attenzione alla sottrazione dei consumi energetici è allineata con le condizioni di contesto…oltre a liberarci individualmente, potremo dare un contributo collettivo alla rigenerazione del pianeta.
Ci avviamo verso la conclusione di questo momento insieme…riassumendo in pochi punti:
- Non si tratta non usare più l’addizione ma di avere presente anche la possibilità di sottrarre
- Essere connessi e connesse al purpose profondamente ci aiuta a fare delle scelte in un verso o nell’altro
- Ma il nostro cervello non ci aiuta…è cablato per aggiungere; quindi, occorre avere dei trucchi che ci aiutano a sottrarre
- Vi viene in mente qualcosa che avete voglia di sottrarre? Cosa potete fare come piccolo passo in questo senso ?
Grazie della vostra attenzione!!
E se sottrarre ci aiutasse ad essere in contatto con il "purpose"? - Prima parte
Il post che segue è l’estratto di un intervento che Nexus ha realizzato durante una delle due conferenze, tenute presso una grande multinazionale, nella giornata che annualmente viene dedicata ad una riflessione collettiva sul purpose. Verrà pubblicato in due parti, una parte introduttiva e una parte dedicata alla riflessione pratica.
Qualche tempo fa in Nexus ci è capitato di leggere il libro Subtract, scritto da un ricercatore americano, Leidy Klotz e frutto di una serie di osservazioni e ricerche; il libro ha generato in noi molte riflessioni, è come se ci fosse stato un prima e un dopo, e queste riflessioni sono diventate trasformazioni sia nel nostro lavoro che nelle nostre vite personali.
Ve ne parliamo legandole al tema del purpose perché, come vedremo, abbiamo trovato l’idea di sottrarre particolarmente adatta a celebrare questa giornata ed a proseguire nelle riflessioni che avevamo iniziato l’anno scorso intorno a “purpose e rigenerazione” e “purpose e felicità”.
Per riscaldarci vi propongo un piccolo esercizio…provate a pensare al miglioramento di un viaggio, visto che siamo in periodo pre-vacanze pensate al vostro prossimo viaggio e a come potreste migliorarlo…se non dovete viaggiare pensate a come migliorereste la vostra casa e scriveteci i risultati in chat…alcuni hanno detto che vorrebbero una casa più grande, una piscina, un viaggio con più tempo, più tappe…altri invece, e sono più o meno la metà hanno ragionato diversamente, hanno detto “vorrei una casa con meno cose” o “vorrei liberarmi di tanti oggetti”…forse il titolo della conferenza vi ha un po’ influenzati, ma questo è un bene perché, come vedremo, visto che l’idea di sottrarre non è intuitiva, è bene che ci sia qualcosa, come un titolo, che quando prendiamo una decisione ci aiuta a ricordarcene.
Vi faccio ora vedere questa figura e vi chiedo come, con il numero minimo di mosse, renderla simmetrica:
Anche qui vedo che ormai siete attenti e nel risolvere molti e molte si sono dati la possibilità di pensare di sottrarre il quadratino in alto, piuttosto che aggiungere quadratini. Forse vi sorprenderà sapere che degli adulti che sono stati coinvolti nello stesso gioco, solo una piccola parte, il 12% ha invece trovato la soluzione “per sottrazione”. Gli altri hanno pensato soluzioni additive quali ad esempio questa:
Questo gioco fa parte di una serie di attività che sono state utilizzate per sperimentare l’intuizione iniziale cioè la preferenza sistematica per l’addizione, l’automatismo che ci spinge a pensare che la soluzione di un problema stia nell’aggiunta.
In questa conferenza esploreremo insieme tre punti:
- Perché continuiamo ad aggiungere?
- Cosa c’entra il purpose con la sottrazione?
- Come fare concretamente a sottrarre?
Racconta Leidy Klotz, il ricercatore e professore della Virginia University che ha divulgato l’importanza del concetto di “sottrazione” attraverso il suo libro “Subtract”, che un giorno stava giocando con i mattoncini Lego insieme a suo figlio Ezra e che, posto di fronte al problema di “come migliorare una costruzione” il bimbo ha cominciato spontaneamente a togliere mattoncini, mentre per lui, il padre, la risposta naturale era piuttosto di aggiungere pezzetti di Lego. Dalla sorpresa, provata dal ricercatore in questa situazione, è nata l’intuizione che poi ha dato vita a numerose ricerche, ripetizioni dell’esperimento, consolidamento della teoria.
Ma da dove viene, perché questa coazione ad aggiungere? Perché per dimostrare di essere competenti aggiungiamo? Perché continuiamo a produrre delle check list infinite per il gusto di spuntarle e produrne delle nuove ? Perché continuiamo ad aggiungere amici sui social network? Perché la sottrazione non viene presa in considerazione?
Ci sono diverse spiegazioni che i ricercatori hanno ipotizzato, in parte biologiche ed in parte culturali, ne vediamo insieme alcune. Una ipotesi è che la coazione ad aggiungere sia collegata ad altri bias, routine di ragionamento fisse e spesso inconsapevoli, del nostro cervello. Ad esempio, i sunk cost, cioè il bias che fa sì che una volta che abbiamo investito è difficile disinvestire perché si percepiscono le perdite e non i possibili guadagni (quel bias per il quale una volta pagato il biglietto del cinema restiamo anche se il film non ci piace, per dirla in termini semplici).
Più in generale l’avversione per le perdite potrebbe essere un’altra spiegazione, insieme al privilegiare lo status quo piuttosto che l’incertezza dovuta al cambiamento. Un’altra spiegazione, molto affascinante, potrebbe venire da lontano, dall’evoluzione della specie umana da nomade a stanziale e, con la conquista della stanzialità e dell’agricoltura, dalla possibilità acquisita/bisogno di cominciare ad accumulare oggetti, cibo etc. nelle abitazioni diventate fisse e nelle agglomerazioni urbane. Ed in questa evoluzione la ricerca e l’accumulazione di cibo diventa cruciale per la sopravvivenza e continua a guidarci malgrado le condizioni moderne di relativa abbondanza.
Non va dimenticato però che l’evoluzione è un bilanciamento tra aggiungere e sottrarre, pensate ad esempio alla capacità di lavorare il legno; ma anche ad fenomeno molto interessante che avviene nel nostro cervello, che potremmo familiarmente chiamare “potatura delle sinapsi” che ci permette di rigenerare il nostro cervello durante il riposo notturno, eliminando ciò che non viene utilizzato per non sprecare energia nel suo mantenimento. E la natura ci insegna la stessa cosa. In un ecosistema sano la natura seleziona e favorisce la vita da un lato (quindi aggiunge) e nello stesso tempo favorisce la morte, aiutando a morire ciò che non serve più. È il processo che si chiama rigenerazione del quale abbiamo parlato lo scorso anno in relazione al purpose aziendale.
Quindi forse possiamo riconnetterci con la sottrazione, ma dobbiamo fare un piccolo sforzo.
La coazione ad aggiungere può infatti costarci molto cara: aggiungere lavoro in continuazione, aggiungere riunioni su riunioni ad un progetto, aggiungere attività alla “to do list”, aggiungere oggetti in casa, cibo, sigarette, impegni sociali, amici sui social network…I costi che genera l’abitudine ad aggiungere sono altissimi.
A livello individuale lo stress, la sensazione di non avere mai finito, di essere fuori controllo, il “carico mentale” che ci fa svegliare di notte perché ci ricordiamo di qualcosa che non abbiamo fatto, l’ingombro delle nostre case da parte di oggetti inutili…e a livello collettivo i consumi eccessivi che stanno rendendo il nostro pianeta inabitabile.
Donne in un mondo di uomini: La trasformazione delle dinamiche di genere attraverso il recupero delle identità
Qualche settimana fa qualcuno ci ha scritto su Linkedin dicendo che aveva molto apprezzato un nostro articolo, pubblicato nel 2008 su Organizational & Social Dynamics.
Siamo andati a riprenderlo e abbiamo deciso di ripubblicarlo sul blog. Certo ha preso un po' di anni e ci sono state molte evoluzioni. Alcune parti oggi, penso, tra tutte, la sfumatura che avevamo tenuto intorno a "natura o cultura" che oggi scriveremmo sicuramente in modo più deciso e consistente da un punto di vista teorico.
Ma c'è qualcosa che resta per noi molto presente nel lavoro sulla diversità nelle organizzazioni ed è intorno al tema del riconoscimento delle identità, del tentativo inconscio di appiattirle, di lisciarle, l'alter-phagia di cui parliamo nell'articolo e della vergogna che rischia, quando non riconosciuta, nominata, gestita, di bloccare completamente la trasformazione.
Leggi l'articolo su Organizational & Social Dynamics