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Promuovere la leadership inclusiva fin dal recruitment

Molte organizzazioni sono impegnate, ormai da anni, nella promozione di una cultura dell’inclusività, che garantisca a tutte le persone equità di trattamento, di diritti, di possibilità di appartenere.  Ma come aumentare le possibilità che, fin dal loro ingresso in azienda, le nuove leve siano allineate e contributrici rispetto a questo impegno? È questa la domanda che ci è stata rivolta dall’HR di una multinazionale, nell’articolo vi raccontiamo come abbiamo risposto.

Da un po’ di anni abbiamo messo a punto un modello semplice ma efficace per la promozione e la gestione della leadership inclusiva. Il modello consiste di quattro aree di comportamento, suddivise in due fattori per ogni area, ciascun fattore descritto in profondità da degli indicatori specifici di comportamento, per aiutare l’osservazione pratica. Il modello è stato messo a punto in anni di lavoro sul terreno, sul tema della DE&I all’interno di organizzazioni molto diverse tra loro e di letture ed approfondimenti intorno a questo soggetto. È stato prevalentemente utilizzato per sensibilizzare collaboratori e collaboratrici ed accompagnare il ciclo di performance management; si presenta come uno standard che richiede poi, naturalmente, di essere adattato e contestualizzato attraverso alcuni indicatori specifici.

La domanda in questo caso però non riguardava la prestazione dei collaboratori e collaboratrici già presenti, ma la possibilità di aprire una finestra sul futuro di eventuali newcomer, in particolare attraverso sessioni di assesment center, aventi l’obiettivo di sondare, tra gli altri talenti, il potenziale di leadership inclusiva. Dopo una prima fase di chiarimento degli obiettivi insieme al cliente, abbiamo creato una batteria di esercizi e di griglie di osservazione con descrittori ad hoc, alla quale ha fatto seguito una giornata di formazione e sperimentazione del modello insieme agli assessors interni, seguita da una prova dei materiali su di un gruppo vero di otto ingegneri ed ingegnere durante l’assesment center, una delle fasi del processo di recruitment. Il modello è stato validato all’unanimità, con qualche aggiustamento. Abbiamo raccolto i feedback sulla sperimentazione, riadattato il modello (in particolare sul bisogno di avere un maggior numero di indicatori di comportamento sulle quattro aree della competenza per facilitare il lavoro di chi valuta) e riproposto una giornata di formazione sul tema ad un altro gruppo di assessors interni (che hanno sperimentato anche il modello in prima persona e che saranno i prossimi ad utilizzarlo) per una validazione finale.

È chiaro che per avere una validazione definitiva del modello occorrerà attendere la verifica sul campo. In particolare, dopo un numero di utilizzazioni in assesment che sia significativo, occorreranno osservazioni sull’attualizzazione del potenziale della competenza, una volta che i newcomer scelti anche in base questo parametro, saranno entrati in ruolo. E per andare più lontano ci sarebbe bisogno di un gruppo di controllo per avere una verifica rigorosa. Se siete in una posizione HR e interessati o interessate alla sperimentazione, parliamone 😉!

Il progetto ha portato, per ora, almeno due risultati “collaterali” molto interessanti:

  1. Il primo è che i e le manager coinvolte si sono ritrovate non nell’ormai classico corso di sensibilizzazione alla diversity o agli unconscious bias, ma in una situazione nella quale la sensibilizzazione aveva l’obiettivo di supportare un ruolo particolare per loro, quello di persone all’ingresso della frontiera organizzativa, decisori su chi entra e chi no. E’ stata l’occasione per dialogare insieme sui modelli culturali dell’azienda e su quanto questi possano agire in profondità poi rispetto alle scelte che vengono fatte, le quali, a loro volta, impattano le performance ed anche sulle proprie architetture decisionali, sulla decisione individuale ed in gruppo. Una occasione, insomma, per formarsi in maniera profonda senza averne l’aria, che le persone presenti hanno trovato appassionante.
  2. La reazione dei giovani coinvolti nell’assesment mi ha molto colpita. Nella parte di lavoro dedicata alla batteria d’esercizi sulla leadership inclusiva il clima nel gruppo è cambiato radicalmente. Sorprendentemente si è installata un’atmosfera più che da assessment center da dialogo intorno al caminetto. I e le partecipanti, più che ad una competizione sembravano piuttosto partecipare ad un gruppo collaborativo, nel quale l’obiettivo era aiutarsi reciprocamente, darsi feedback, creare legami. I ritorni che hanno dato sull’esperienza sono stati molto positivi. In un’epoca di grande difficoltà a trovare talenti, e rispetto alle richieste esplicite o implicite che la generazione Millennial rivolge ai luoghi di lavoro (coerenza, gestione delle diversità, equità, rispetto per l’equilibrio vita professionale/vita personale, possibilità di espressione il più possibile autentica del sé, calore nei legami etc), il messaggio che si riceve nel contatto con l’organizzazione è importante. Un’azienda attenta alla dimensione di cittadinanza organizzativa, di appartenenza, che mostra concretamente questa attenzione fin dalle prime fasi di contatto vedrà la sua reputazione accresciuta e, forse, diventerà un luogo al quale le giovani generazioni (e non solo) guardano come ad un luogo capace di (ri)accendere il desiderio e rigenerare una relazione al lavoro che da qualche anno sta perdendo, in generale, potere attrattivo.

Othering

Questa mattina leggendo il giornale sono stata colpita da una notizia. Una famiglia di Palermo aveva accettato di accogliere profughi provenienti dall’Ucraina, in particolare studenti di economia e medicina. Quando i profughi sono arrivati, la famiglia si è resa conto che i due giovani venivano sì dall’Ucraina ma erano due studenti nigeriani che studiavano a Kiev, che stavano scappando dalla guerra e si è rifiutata di occuparsene. Come è passata la famiglia da una intenzione caritatevole, generosa, compassionevole come quella di accogliere a quella di respingere? Nell’articolo si ipotizzava che due fattori fossero alla base di questo comportamento: il colore della pelle e la provenienza.

 

In connessione con questo episodio, nel post di questa settimana vorremmo esplorare un concetto molto interessante, che genera tutta una famiglia di stereotipi, quello che una bella parola inglese definisce “othering” - che potremmo tradurre con “altro da sé” - traduzione alla quale manca la dinamica della parola inglese che, per questo, continueremo ad utilizzare nel post.

 

La nostra relazione con il mondo esterno consiste in una serie di atti valutativi continui, che ci permettono di formare categorie che, riducendo la complessità dei segnali che riceviamo, ci fanno costruire rappresentazioni della realtà approssimative e riduttive, che però hanno il grande vantaggio di consentirci di prendere decisioni veloci. Le categorie hanno un ordine gerarchico per cui la macro categoria poi può contenere una serie di sotto informazioni che le sono collegate.

Questa modalità del conoscere è stata necessaria per la nostra evoluzione, ci ha permesso di prendere decisioni veloci anche se approssimative attivando i meccanismi basilari di attacco/fuga. Queste categorie funzionano sia per la percezione dell’ambiente più in generale che per la percezione delle nostre relazioni con gli altri, attivando dei confini tra chi appartiene al nostro gruppo e chi no.

Il termine “othering” ci aiuta ad esplorare questo processo quando esso avviene a livello sistemico sulla base di una caratteristica (orientamento sessuale, genere, colore della pelle, disabilità, età…) attribuita collettivamente culturalmente agli “altri” e che diventa poi fonte di discriminazione, di ingiustizie, di conflitti, di guerre, di grandi sofferenze umane. Da un punto di vista politico è importante notare che il processo di othering è attivato da chi controlla le risorse, il gruppo dominante, che attraverso esso esclude gli “othered” dal potere distributivo, in un circolo vizioso di esclusione e perdita di risorse/potere che generano ancora più esclusione e così via.

 

Negli anni ’60 Mrs Jane Elliot, una insegnante dell’Iowa ha ideato un interessante esperimento a questo proposito. In una classe omogenea per colore e status sociale ha indotto una discriminazione basata sul colore degli occhi, creando artificialmente un gruppo dominante e un gruppo dominato all’interno della classe (potete trovare numerosi video su questi esperimenti su Youtube). Molto velocemente (una giornata) i bimbi dominanti hanno incominciato una escalation di esclusione e di violenza verso il gruppo dominato.

Mrs. Elliot ha ripetuto lo stesso esperimento nel corso degli anni con adulti e con altre classi, ottenendo sempre lo stesso risultato. L’obiettivo iniziale era di sperimentare una dinamica di esclusione tra un gruppo di persone “in-group”, con caratteri di omogeneità molto marcati. Ciò che è interessante, a proposito del processo di othering è che il pregiudizio, creato ad hoc dalla leadership del gruppo, ha preso piede dove era completamente assente, generando una spirale di violenza.

 

La comunicazione politica delle destre estreme sembra, tra gli altri, avere proprio questo obiettivo. Fare leva sulle paure, cercando poi di organizzarle, di manipolarle e di trarne vantaggi. Una comunicazione che ha come obiettivo di creare forme di “othering” là dove non esistevano, o di aumentare l’othering là dove era già latente.

 

Nel 2008 il gruppo di ricerca composto da Amy Cuddy,Susan Fiske e Peter Glick ha pubblicato una ricerca molto interessante intitolata “Competence as Universal Dimensions of Social Perception: The Stereotype Content Model and the BIAS Map”, nella quale era contenuto un modello di interazione tra individui e gruppi, basato su due dimensioni essenziali nella relazione umana: la percezione di calore – quanto l’altra persona mi è vicina, simile, simpatica etc, e la percezione di competenza. Incrociando le due dimensioni in una matrice si ottengono quattro categorie di relazione. Quella che ci interessa ora approfondire (per le altre rimandiamo alla ricerca) è quella dei gruppi percepiti come “basso calore, bassa competenza”.

 

In un’altra ricerca sui neuroni specchio che sono quelli che, lo ricordiamo, ci permettono l’empatia, si è dimostrato che nel cervello dei soggetti indagati la sofferenza di persone classificate nel gruppo “Disgust” non produceva alcun movimento di questi neuroni, dimostrando una totale assenza di empatia e compassione verso questi esseri umani. Quando nel processo di othering l’altro viene classificato come appartenente al primo quadrante in basso della matrice le sue sofferenze ci sono quindi completamente indifferenti.

 

E’ forse questo che è successo alla famiglia palermitana che ha rifiutato di accogliere i profughi? L’ipotesi può essere che, data la loro provenienza, i due giovani siano passati da “Simpatia e pietà” al quadrante sotto, generando il distacco emotivo della famiglia dalle loro sofferenze, se pur le stesse che avevano prodotto l’offerta di asilo quando portate dalla popolazione Ucraina immaginata bianca.

E’ questo processo che fa sì che i profughi di guerra siano distinti in categorie, e che per alcune di queste categorie, in particolare per coloro che muoiono quotidianamente cercando di attraversare il Mediterraneo, non ci sia compassione, ma anzi un dibattito sulla chiusura delle frontiere?

 

Nel bell’articolo “The problem of othering Towards inclusiveness and belonging” john a. powell e Stephen Menendian si chiedono quali risposte sistemiche dare all’othering (se il tema vi interessa non esitate a visitare il sito dell’università di Berkeley otheringandbelonging.org, ricchissimo di materiali).

 

I due autori analizzano le risposte sistemiche date fino ad ora, tutte creatrici di grande sofferenza umana oltre che di un insieme di altri problemi, in particolare

  • la segregazione – negazione dell’umanità dell’altro, che separa artificialmente i gruppi che rischiano di confliggere, impedendone i contatti e l’accesso alle stesse risorse, come accade ad esempio nelle banlieues parigine, con il risultato in questo caso di portare alla radicalizzazione di alcune di esse;
  • la secessione – destinare un territorio agli “altri”, arbitraria etichettatura sulla base di una sola dimensione che storicamente si è dimostrata funzionare raramente e che, dando per scontato l’omogeneizzazione sulla base di un criterio non considera che poi dentro i territori separati ci saranno altri “othering” all’opera;
  • l’assimilazione – con il suo corredo di obblighi, per la parte dominata, di adeguarsi alla parte dominante rinunciando in toto alla sua cultura, lingua, religione…nella quale chi si assimila rinuncia ad elementi chiave della sua identità per continuare ad essere considerato “other”

 

La conclusione è che l’unica dinamica possibile che si contrappone all’othering è l’appartenenza. Non l’appartenenza concessa a posteriori, dopo che le risorse sono state distribuite, ma prima. L’appartenenza nella quale non si chiede all’altro di “fit in”, adeguarsi, ma quella che ha alla sua base un’idea di equità condivisa, nella quale le regole del gioco sono discusse insieme, non stabilite unilateralmente dalla parte che ha potere.

L’appartenenza che va oltre il concetto di inclusione, nella quale non c’è una parte che decide chi è dentro e chi è fuori, ma nella quale, insieme, utilizzando il dialogo, si stabilisce come vivere insieme. La leadership che serve questo scopo, la leadership dell’appartenenza ha come obiettivo la rigenerazione delle relazioni e, con esse, dei sistemi, esattamente come avviene in Natura.

 

Photocredit ©Reuters


"Manterrupting" – ma davvero dobbiamo ancora parlarne?

Il Manterrupting è un fenomeno descritto e divulgato ormai da molti anni. Da tanti anni esplorato, ridicolizzato, caricaturato, sezionato, analizzato. Solo cercando l’hashtag sui social network vengono fuori centinaia di esempi, di ricerche, di articoli che lo illustrano…perché allora parlarne di nuovo?

Marianne è una giovane dirigente in una multinazionale, arrivata in ruolo dopo essere stata inserita in un programma di sviluppo per alti potenziali. Durante una delle sessioni di coaching individuali incluse nel programma, Marianne arriva molto arrabbiata. Mi racconta che spesso le capita di partecipare a riunioni, con colleghi e livelli manageriali più alti del suo. Prima di queste riunioni si prepara scrupolosamente sui temi all’ordine del giorno, ma le capita spesso di partecipare e non riuscire a dare il suo contributo. In coaching mi racconta dell’ultima riunione. Mi dice che era su un tema che conosce molto bene, che aveva preparato tutta una serie di dati per contribuire alle decisioni, che ha cercato più volte di condividerli ma che alla fine ha dovuto rinunciare: è stata infatti interrotta praticamente subito quando ha iniziato a parlare.

Dagli anni '80 in poi, numerose ricerche in ambito universitario hanno iniziato ad evidenziare questo fenomeno, mostrando che le ricercatrici venivano interrotte molto più spesso dai loro colleghi maschi, per i quali, inoltre, il tempo di parola misurato era molto maggiore che per loro.

Interrompere qualcuno in una conversazione, di tanto in tanto, è normale: serve ad aggiungere informazioni, per riportare l'altra persona all'argomento, per mostrare accordo, per limitare la verbosità... Ma durante gli anni '90 si è continuato ad approfondire il fenomeno ed un’ipotesi incomincia ad emergere: non tutte le interruzioni sono uguali, alcune sono del tutto invadenti e, dietro di esse, c'è il desiderio, conscio o inconscio, di mettere in dubbio la legittimità della parola della persona che sta comunicando.

Le teorie sistemiche sulle relazioni (Gregory Bateson, P. Watzlawick), in particolare la descrizione dei diversi livelli della comunicazione umana, ci forniscono spunti interessanti per analizzare ciò che accade nel "manterrupting": c’è un livello di contenuto, nella comunicazione, che possiamo chiamare livello 1, in cui l'interruzione serve effettivamente ad aggiungere informazioni, esprimere un'opinione, far circolare la parola tra i partecipanti alla riunione. In questo livello possiamo analizzare il “cosa” si scambia nella comunicazione e renderci conto, per esempio, che effettivamente i contenuti aggiunti contribuiscono all’obiettivo della stessa.

C’è anche un livello 2, che definisce la relazione tra i partecipanti alla conversazione, inclusa la distribuzione del potere tra loro. E’ un livello nel quale possiamo analizzare il processo della comunicazione, il “come”. Una ricerca dell'Università di Princeton ha dimostrato che il manterrupting è, per gli uomini che lo praticano, piuttosto un modo di ristabilire relazioni di potere che sentono minacciate dalle donne.  E’ come se, interrompendo, la comunicazione passata implicitamente all’altra parte fosse “guarda quello che tu dici non è importante, perché tu non sei importante”. Se interrompere avendo presente gli obiettivi della comunicazione (il perché) può rivelarsi utile, il manterrupting è disfunzionale perché il suo obiettivo inconsapevole non è arricchire la conversazione ma semplicemente esercitare il proprio potere, che si sente minacciato.

L’azienda di Marianne ha, come succede in molte aziende, programmi intorno alla DE&I ed agli unconscious bias di genere. Nelle dichiarazioni del top management riguardo la cultura ed i valori dell’azienda c’è quindi la volontà di andare verso una condizione di equità, nella quale il genere non debba influire sulle competenze o sulle relazioni professionali, ma il focus sia sulle performance. E’ la teoria “dichiarata” che dovrebbe definire ciò che le persone dovrebbero fare per produrre risultati.

Ma se analizziamo il caso di Marianne dentro lo schema relazionale descritto più sopra, ci rendiamo conto che, in maniera inconsapevole la “teoria in uso” (ciò che accade veramente, al di là delle dichiarazioni) è ben diversa. I colleghi di Marianne inconsciamente (o consciamente?) operano nel senso di ristabilire una relazione di potere su di lei, interrompendola durante le riunioni.

Negli intenti, si cerca di operare un cambiamento, stimolando le donne ad “osare”, a prendere i loro spazi: all’interno del programma talenti stesso, nel quale Marianne è inserita, ci sono moduli sulla leadership delle donne.  Ma dietro il manterrupting c’è una spinta viscerale, un’occupazione patriarcale del territorio che non tollera essere messa in discussione. Il silenzio di Marianne corrisponde ad una accettazione implicita delle regole del gioco. Il modello mentale culturale del potere maschile non deve essere messo in discussione.

Perché, dopo tanti anni e tante dichiarazioni, la parità di genere sembra ancora così lontana?

C'è un primo passo, molto importante, che è stato fatto. Quello di nominare il fenomeno e descriverlo per dare chiavi di lettura ad una realtà spesso inspiegabile, per donne e uomini, e non solo sul posto di lavoro. Dopo la consapevolezza, c'è l'azione che deve seguire.  E per questo ci sono diverse strade. Una strada possibile è rendersi conto, collettivamente, di quali sono i modelli di leadership premianti di come la leadership si manifesta, per donne e uomini, e poi immaginare una nuova leadership, diversa,  più piena, meno guidata da leggi che andavano bene (forse!) per uomini e donne in altre epoche ma che non sono più adatte alle sfide delle organizzazioni del XXI secolo.

Con Marianne, nel percorso di coaching, è stato molto importante partire da questa osservazione, che l'ha aiutata a capire che quello che sta succedendo non è colpa sua: non c’entrano il suo grado di preparazione, le sue competenze, la sua personalità.  E’ importante, per non aggravare ciò che sta succedendo attribuendosi colpe che non esistono, che i diversi fenomeni vengano letti all’interno dei contesti nei quali si producono.  Le chiavi che vengono dalle teorie delle relazioni di gruppo sono particolarmente utili, per non limitarsi ad una lettura personalistica. Quali modelli mentali inconsapevoli condizionano le azioni delle persone all’interno di questo sistema?   A questa domanda Marianne può rispondere, ma un interrogarsi collettivo potrà essere molto più efficace, per produrre davvero un cambiamento profondo. In coaching abbiamo poi aperto sulla domanda "cosa è concretamente in mio potere perché la situazione cambi?". Una esplorazione realistica è importante per accompagnare la persona ad operare ad un livello di responsabilità possibile e non su un’idea onnipotente rispetto alla trasformazione, che rischia di essere consolatoria sul breve periodo e molto frustrante sul medio lungo, una volta presa coscienza che non è solo l’azione di un individuo che può operare su un modello culturale ma quella di un collettivo.

Dal suo punto di vista Marianne può lavorare sulla sua assertività, sulla sua capacità di far notare immediatamente agli uomini che la interrompono la dinamica nella quale sono presi dicendo qualcosa del tipo "Mi hai appena interrotto, ma continuerò quello che stavo dicendo" o "Stavo parlando, adesso finisco quello che stavo dicendo". Sono alcuni dei temi che stiamo affrontando, insieme al gruppo di donne che sono coinvolte nei laboratori sulla leadership, nella stessa azienda. Questo tipo di intervento permette di interrompere il circuito vizioso. Non si interrompe l’altro parlando più forte ed aggiungendo contenuto (livello 1) ma ridefinendo la relazione (livello 2). Un altro tipo di intervento sull’assertività è quello di evitare qualunque frase che mini la legittimità di Marianne ad intervenire in quella riunione. Questo significa lasciare perdere tutte le aperture del tipo “Scusate ma vorrei aggiungere…”, “Forse sarebbe importante anche tenere conto di…” etc. sostituendole con, ad esempio “Vi esporrò ora alcuni dati di cui è importante tenere conto…” “L’argomento a favore di questa decisione è…” etc.

Un'altra pista di cambiamento è lavorare nel creare alleanze, sia con altre donne sensibilizzate al tema ed anche con uomini. E’ questo il tema della “allyship” e della sua importanza nei processi di trasformazione che toccano la DE&I. Insieme a Marianne abbiamo prodotto una “carta degli e delle alleate e sponsors” e di come lavorare su queste alleanze. Senza un’alleanza possibile con la parte “dominante” è molto più difficile che le agenti di cambiamento possano raggiungere i risultati sperati, nell’attesa che gli interventi sulla cultura organizzativa portino i loro frutti. Allearsi è diverso dal semplice “fare network”. Gli e le alleate possono, ad esempio in una situazione di manterrupting, interrompere a loro volta l’interruttore per ridare la parola alla donna interrotta, rompendo in questo modo la dinamica relazionale “a due”. Passare dal due al tre, nella relazione, significa, oltre che evitare il rischio di escalation “ti interrompo più io”, fare un passo verso il collettivo. Il gioco non è più tra gruppo dominante e gruppo dominato, la terza parte ha anche il ruolo di interrogare lo status quo e promuove il movimento.

 


Il legame tra risk aversion e il critico interno: l’auto sabotaggio nelle decisioni di trasformazione

Emma è dirigente di un’azienda multinazionale. Ha 40 anni e il suo percorso di carriera è costruito su una serie continua di successi, di risultati brillanti, una progressione molto veloce, fino alla promozione nel suo ultimo posto, come responsabile marketing di una Business Unit dell’azienda, avvenuta qualche mese fa, a coronare un obiettivo che aveva fin da giovane. Molto in fretta il nuovo ruolo comincia a pesarle, sia per il lavoro in sé, ma anche per l’équipe che è chiamata a guidare, per colleghi e colleghe, per l’ambito decisionale che si rivela essere inferiore rispetto alle sue aspettative. Iniziamo il coaching dopo alcune settimane nelle quali si è sentita vittima di una pressione, che giudica immotivata e non utile rispetto ai risultati che le vengono richiesti. È piena di dubbi sull’azienda stessa, che le sembra tradire il sistema di valori dichiarati, ma anche sulla continuazione della sua carriera nel settore privato. Si dice che forse dovrebbe sperimentare qualcosa di più allineato ai suoi valori con un impatto sociale più importante. Dopo qualche seduta, chiarito che non vuole restare nel suo ruolo attuale, incominciamo ad esplorare altre possibilità di ruoli anche molto lontani da quello che sta facendo, perché dice di avere voglia di un cambiamento radicale. Ed Emma comincia ad avere un comportamento particolare a questo proposito. Ogni volta che un’idea emerge e sembra piacerle comincia a trovare argomenti contro “No ma poi mi dovrei formare per anni per fare questo”, “Non ho le competenze” “Tutte le persone con cui ho studiato fanno lavori prestigiosi”, “Non riuscirò e dovrò ritornare in azienda occupando un posto meno importante”, “Mi piacerebbe ma non sono capace”…

Il bias di avversione al rischio è stato individuato da Tversky e Kahneman già nel 1973. Si tratta del processo di pensiero che collega il rischio alla possibilità di perdere e che produce decisioni distorte perché la possibilità di vincere viene sottovalutata, a fronte delle perdite possibili. Dal punto di vista del funzionamento neurologico, l’amigdala ci segnala una minaccia. Lo striatum, addetto a valutare perdite e guadagni possibili sbilancia la percezione sulle perdite, l’insula, insieme all’amigdala responsabile del disgusto, ci allontana dal comportamento ritenuto rischioso. L’avversione al rischio è collegata alle nostre decisioni di investimento, comprese, ad esempio, quelle relative alle assicurazioni. Ma oggi parleremo di questo bias in connessione con un fenomeno psicologico che si origina da esso, il cosiddetto “Critico Interno o interiore”. Il Critico Interno è quella voce continua ed insistente che ci ricorda quanto siamo incapaci, incompetenti, non adatte e adatti; che ci fa vergognare anche solo di aver pensato di fare una determinata cosa, di parlare in pubblico, di intervenire ad una riunione, di desiderare quel ruolo, di fare qualcosa che non abbiamo mai fatto. Sempre quella voce che ci fa adottare un “fixed mindset” piuttosto che un “growth mindset”, spingendoci a vedere, in modo inconsapevole, ogni apprendimento come un rischio, mettendo in luce le perdite che saranno causate dalle novità, attivando quel circuito ancestrale di pensiero difensivo, che abbiamo ricordato più sopra, che ci era tanto utile agli albori della nostra specie, che ora rischia solo di inchiodarci a situazioni dolorose e non desiderate per paura del rischio di percorrere strade nuove.

In sostanza possiamo immaginare il critico interno come una specie di piccolo personaggio cattivello seduto sulla nostra spalla in permanenza. Sull’altra spalla c’è seduto un personaggio molto più benevolo, quello che Doena Giardella in un articolo apparso sulla rivista del MIT Sloan chiama “inner champion” o in altra letteratura “inner mentor o coach” (Tara Mohr) e che ci suggerisce nuove idee, creatività e ci dice che tutto andrà bene. Ma la tendenza spontanea è piuttosto quella di non ascoltare questa voce e di lasciar dirigere la conversazione interna che abbiamo con noi stesse e noi stessi piuttosto dal personaggio che ci ama meno e di fargli guidare le nostre azioni.

Le voci che lo animano possono essere diverse e vengono dal nostro passato: chi ci ha educato, genitori, adulti di riferimento, educatori scolastici, sorelle e fratelli, ma anche degli ambienti non contenitivi, percepiti come minaccianti, nei quali non abbiamo potuto sviluppare relazioni in sicurezza, come succede, secondo la teoria dell’attaccamento, quando abbiamo vissuto relazioni dette “di evitamento” durante l’infanzia.

La voce del critico interno non ci parla gentilmente, come normalmente si parla a qualcuno che ci ama, ma ci etichetta “non sei quella o quello che fa questo tipo di cose”, può essere all’origine della famosa “sindrome dell’impostore”, ci ricorda tutte le nostre debolezze, ci paragona ad altri ed altre sempre più performanti di noi, ci fa immaginare risultati disastrosi nei quali proviamo un grande senso di colpa e vergogna per quello che abbiamo fatto. È la voce della (finta) saggezza che ci dice “non lasciare la strada vecchia per la nuova” “chi si loda s’imbroda” e che, al momento di agire per trasformare e rigenerare la nostra vita, il nostro ruolo, la nostra azienda, la nostra famiglia, ci paralizza e ci spinge a preferire lo status quo piuttosto che rischiare di perdere qualcosa, come in tutti i cambiamenti.

E’ questa voce che la manager Emma del nostro caso, ha sentito, forte e chiara,nel momento in cui ha iniziato a pensare di uscire dalla strada tracciata per trasformare la sua vita verso qualcosa di più coerente con la vocazione che sente in questo momento.  Quando abbiamo esplorato, durante il coaching, la voce del critico interno, alcuni episodi della sua infanzia che Emma ha ricordato, hanno permesso di dare una forma alla voce: in particolare Emma ha risentito le voci della sua famiglia, le critiche e i consigli, che le raccomandavano di andare verso un ciclo di studi adatto all’ambiente e posizione sociale e poi le scelte professionali e di carriera, l’approccio al lavoro caratterizzato da devozione e perfezionismo estremi. Voci che ha fatto sue, e che più volte l’hanno messa a rischio di burn out, non facendola mai sentire abbastanza competente, brava, brillante, performante, sia rispetto a sé che rispetto alle altre persone in azienda.

Il critico interiore rischia di minare profondamente la fiducia in se stessi e la fiducia negli altri quando produce proiezioni sugli altri generando una dinamica di attribuzione di cattive intenzioni nei nostri confronti “è colpa loro, mi fanno sentire male”, “non piaccio a colleghi e colleghe” etc.

Cosa possiamo fare, concretamente, a riguardo del critico interno?

  1. Tara Mohr, nel capitolo di “Playing Big” dedicato al tema suggerisce soprattutto di non respingerlo in toto. In fondo, se risaliamo all’utilità evolutiva del bias “avversione al rischio” che ne è all’origine ci possiamo ricollegare al fatto che uno degli obiettivi di questa voce critica è proprio quello di proteggerci dall’ostilità dell’ambiente. Il suggerimento, quindi, come avviene nella teoria Junghiana dell’ombra è quello di accoglierlo, di esserne consapevoli. Un buon modo è far uscire da sé la confabulazione e scrivere ciò che il critico interno ci dice per poterlo trasformare. Tara Mohr suggerisce di dividere un foglio in due colonne con, a sinistra per esempio, il critico interno, ed a destra il “pensatore razionale”. In quest’ultima colonna potremo cogliere la saggezza del messaggio che ci stiamo mandando, che ci permette di, ad esempio, calcolare rischi e profitti della scelta in modo razionale;
  2. Quando il critico interno è attivo parliamo a noi stesse e di noi stessi in modo cattivo, duro, senza empatia. Doena Giardella del MIT suggerisce di inserire proprio questa dimensione nella nostra conversazione interna. Essere gentili. In questo momento nel quale si parla molto di “kind leadership” diventa essenziale partire da sé, usando compassione e comprensione nella nostra conversazione interna, per non auto ferirci o auto sabotarci nei processi di trasformazione. L’idea è quella di usare “l’inner champion” o “inner mentor” (il personaggio buono che ci parla dalla nostra spalla) per aiutarci a riformulare le critiche.
  3. Nel momento in cui stiamo agendo, ad esempio in relazione con gli altri, e sentiamo che nella nostra conversazione interna ci stiamo criticando, decentrarsi da sé, ritornare in connessione relazionale con gli altri e chiederci di cosa hanno bisogno. Il critico interno ci toglie non solo dall’empatia verso di noi ma anche dall’empatia nella relazione, facendoci centrare solo sul nostro bisogno inconscio di preservare lo status quo.
  4. Nell’analisi ex post (di una riunione, di un cambiamento, ma anche di un fallimento) cercare il lato positivo, la lezione appresa, il germoglio di qualcosa di nuovo che è nato. Permettere la rigenerazione, diremmo in Nexus.
  5. In posizione di management potremmo inconsapevolmente riprodurre il copione familiare, creando ad esempio un ambiente di lavoro definibile come “di evitamento” secondo la teoria dell’Attaccamento. In questo tipo di ambiente il critico interno potrebbe corrispondere a una domanda, più o meno implicita, di perfezione non solo verso di noi ma anche verso gli altri membri del team. Nel caso, ad esempio, di un cambiamento che vogliamo promuovere o di un errore fatto sarà utile usare l’umiltà per approfondire le cause e le responsabilità, da quella che in inglese si chiama una posizione “inquiry”, di indagine benevolente e veramente aperta, invece di ricorrere all’advocacy, all’accusa, al sollecitare il sentimento di colpa e la vergogna nei membri del team.

“Illusion of transparency bias”: quando non prendiamo il rischio di incontrare veramente gli altri

L’illusione di trasparenza è stata per la prima volta definito nel 1998, in un articolo pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, dal gruppo di ricerca composto da Thomas Gilovich, Victoria H. Medvec, Kenneth Savistsy. Essa consiste nella “tendenza delle persone a sopravvalutare la misura in cui gli altri possono discernere i loro stati interni”. Il nome descrive bene il fenomeno che si ha quando pensiamo che gli altri possano, quasi magicamente, leggerci dentro, leggere le nostre emozioni, in nostri pensieri, i nostri desideri.

La lettura della ricerca mi ha riportata indietro, molto indietro e mi sono ritrovata quindicenne, nei corridoi della scuola, innamorata perdutamente della star del movimento degli studenti, mentre vagavo cercando di vedere il soggetto in questione, dicendomi che per forza di cose doveva avere visto l’arrossire, gli sguardi languidi, la paralisi che mi prendeva ogni volta che lo incrociavo e collegato ad essi tutto il tumulto di emozioni che la sua vista mi provocava. Ai tempi c’era un romanzo che aveva colpito enormemente la mia immaginazione, “La principessa di Clèves” ed il corridoio della scuola era  diventato per me come la corte nella quale, quasi come su un palcoscenico, tutti erano attenti a leggere i sentimenti degli altri sui loro volti, in una comunicazione fatta di sfumature,  di sguardi dati e non dati, di teste girate, di palpitazioni tutte chiaramente o quasi viste, decodificate, comprese.  Solo che questo funzionamento e questa attenzione sugli altri in realtà non esistono in quanto ciascuno è molto più concentrato e preso da ciò che succede dentro di sé, un effetto che si chiama spotlight, correlato all’illusione di trasparenza, che si manifesta nell’idea di avere un riflettore sociale puntato su di noi. Questo è tanto più vero quanto l’emozione che ci attraversa è forte. Certo, ci sono degli aggiustamenti che mettiamo in atto per moderare queste illusioni  e per disancorarci dalla nostra esperienza interna, ma essi non sono sufficienti. Quello che ci resta è la sensazione che ciò che ci succede dentro sia molto più visibile di quanto non lo sia in realtà.

Alcuni esempi di come questo bias si manifesta sono, ad esempio, quando siamo arrabbiate o arrabbiati con qualcuno e smettiamo di parlare o rispondiamo a monosillabi e ci stupiamo che la persona in questione non si renda conto, non ci chieda cosa abbiamo etc. É una situazione questa che mi è capitato spesso di sentire raccontare in coaching, ad esempio nelle relazioni tra manager e collaboratori e collaboratrici, ma che è molto comune anche nelle relazioni di coppia. Le forti emozioni che ci attraversano, che siano collera, paura, tristezza, disgusto e che per noi sono presenti ed in primo piano, sono invisibili o quasi per le relazioni che ci circondano, siano esse professionali o personali. Le illusioni di trasparenza e l’effetto spotlight sono da attribuire ai bias di ancoraggio e adattamento, secondo i tre ricercatori.  “Quando gli individui cercano di determinare quanto siano evidenti i loro stati interni per gli altri, iniziano il processo di giudizio dalla propria esperienza soggettiva. Gli aggiustamenti che fanno da questo ancoraggio - aggiustamenti che derivano dal riconoscimento che gli altri non sono al corrente dei loro stati interni come loro stessi tendono ad essere insufficienti. Il risultato netto, è un effetto residuo della propria fenomenologia e la sensazione che i propri stati interni siano più evidenti agli altri di quanto non lo siano in realtà.”

Ci sono delle situazioni nelle quali pensare a questo effetto può portarci dei vantaggi. Pensate, per esempio, durante un momento di public speaking, quando magari si sta sentendo il sudore colare, si ha l’impressione che la voce e le mani tremino e che tutti si stiano accorgendo della nostra agitazione. O durante un colloquio di lavoro, quando stiamo cercando di volgere in positivo un momento non proprio glorioso del nostro curriculum. O, ancora, quando stiamo dicendo una bugia, e pensiamo alla credenza popolare secondo la quale le bugie sono evidenti. In realtà l’agitazione, l’ansia, la paura sono molto più percepibili da noi. La persona o le persone che ci stanno di fronte, saranno prese dal loro riflettore e ci presteranno molta meno attenzione di quanto noi pensiamo.

L’illusione di trasparenza e l’effetto spotlight ci possono dare l’idea di quanto le relazioni con gli altri possano essere, in generale, distorte, illusorie, superficiali, distanti dalla realtà; ed alla difficoltà di incontrare l’altro per quello che è, al di là delle nostre proiezioni e del nostro ego.

Cosa possiamo fare allora per moderare questi effetti?

Gli strumenti del dialogo generativo ci offrono una possibile via perché questo incontro possa realizzarsi. L’ascolto generativo ci permette di mettere temporaneamente a tacere il nostro ego per aprirci all’esperienza dell’incontro, a partire da una connessione profonda, che non si fa (solo) attraverso la razionalità e la parola ma attraverso l’osservazione dell’altro, delle metafore che usa, dei segnali emotivi che manda, del suo percorso di vita. Una connessione in uno spazio liberato dalla nostra presenza, dai bisogni di rassicurazione, di controllo, di certezza...La parola generativa poi ci aiuta a proseguire l’ascolto profondo, permettendo di dare nomi a ciò che è presente ma anche a ciò che è implicito, nuovo, sorprendente per poter creare un terreno comune di incontro. E’ nel dialogo che l’illusione di trasparenza e l’effetto spotlight possono essere superati. Ma per entrare in questo processo occorre una disponibilità interiore ad essere Disturbed, Displaced & Disrupted , cioè accettare che i miei modelli mentali, o certezze, possano essere seriamente messi in discussione da questo 'incontro reale' con l'altra persona, in particolare nel momento in cui scopro che le mie spiegazioni del perché certe dinamiche stavano accadendo nella nostra relazione non sono più appropriate, ora che mi rendo conto che l'altro non disponeva delle informazioni su di me che, a causa di questa 'illusione di trasparenza', ero così convinto che avesse.


Unconscious Bias e processo di gestione e sviluppo delle performance

Questa settimana per la nostra rubrica sui bias non parleremo di un bias singolo ma, come abbiamo già fatto sul cambiamento climatico, prenderemo un cluster di bias, in particolare alcuni di quelli che impattano la gestione delle performance.

Le innovazioni su questo tema si sono succedute regolarmente in questi anni, nel tentativo di creare sistemi il più possibile tendenti all’equità e adatti ad accogliere i percorsi di apprendimento e sviluppo dei soggetti coinvolti: sistemi a 360°, autovalutazione incrociata alla valutazione del o della manager, sistemi di competenze raffinati, consistency check per focalizzare la dimensione collettiva della valutazione e moderarne la soggettività, KPI sempre più precisi, fino ad arrivare ai recenti sistemi di formulazione degli obiettivi OKR introdotti da Google come evoluzione dell’MBO ed al feed back continuo...solo per citarne alcuni. In realtà, anche sistemi di gestione della performance ben costuiti ed atti a cogliere bene la complessità dell’azione organizzativa restano pur sempre ancorati ad un’attività umana di base e spontanea: quella dell’osservare e del processo di attribuzione di significato e di interpretazione basati su queste osservazioni.

E’ in quest’ottica che l’attenzione crescente per le distorsioni e trappole insite in questi processi diventa una interessante riflessione sia per i soggetti valutati che per chi valuta. La consapevolezza e la trasformazione degli unconscious bias individuali, ma anche provenienti dalla cultura organizzativa, diventa cruciale perché questi sistemi possano davvero servire a generare un senso equità e l’apprendimento individuale e collettivo necessari a rispondere alle sfide del contesto organizzativo.

Cerchiamo, nel seguito, di categorizzare alcuni di questi bias anche se, come vedremo, formare categorie precise diventa difficile e un po’ artificiale in quanto spesso i bias si riaggregano nel singolo atto valutativo.

Bias legati a fattori di identità del o della manager valutante

  • Bias di identità (o Similar to me bias). Deriva dalla tendenza ancestrale a formare dei sottoinsiemi relazionali, “in-out group”, a seconda di caratteristiche possedute realmente o proiettate sugli altri, che ce li fanno sentire simili o distanti da noi. L’appartenenza ad un gruppo o ad un altro è un fattore fortemente identitario. Il soggetto percepito come simile a noi viene quindi meglio valutato e gestito del soggetto percepito come “diverso”. Numerose ricerche dimostrano che tra i fattori “in-out group” che impattano fortemente la valutazione ci sono il genere, l’etnia, il percorso di studi, la religione, l’età. Questo bias si manifesta, in una valutazione favorevole per chi sentiamo simile, anche nella comunicazione della valutazione della performance, attraverso, ad esempio un uso del pronome “tu” per distinguire chi è percepito out-group e “noi” per chi è “in-group”, con impatti sul senso di “belonging” organizzativo, di sentimento di essere riconosciuti, di motivazione. E’ anche per mitigare questo bias, che è importante che la diversità sia rappresentata in tutti i livelli gerarchici.
  • Bias di attribuzione (o bias di opportunità). E’ la tendenza ad attribuire i successi a noi ed alle nostre capacità e gli insuccessi alla sfortuna o a cause esterne a noi. Tendenza rovesciata nel caso dei soggetti valutati per i quali accade il contrario: una buona prestazione quando questo bias è in azione, viene attribuita alla fortuna o alle condizioni favorevoli del contesto e, per una cattiva prestazione, vengono invece evidenziate solo le incapacità della persona. Questo bias, unito al bias di identità, può generare una sistematica buona o cattiva percezione rispetto alla valutazione, attribuendo a certuni solo meriti e ad altri solo intervento del destino e viceversa.

Bias legati all’uso delle scale di valutazione

  • Bias di indulgenza. Il o la manager utilizza la scala di valutazione in maniera sistematicamente generosa. L’indulgenza puo’ essere più alta per alcuni ed alcune collaboratrici (vedi bias più sopra) ma anche essere generalizzata. Dietro questo bias ci sono essere dei meta-modelli di descrizione della realtà in chi valuta, quali ad esempio “ho bisogno di essere amato o amata e se valuto in modo realistico non lo sarò più” oppure “valuto in modo generoso per segnalare un incoraggiamento così la persona farà meglio” o, ancora “se valuto negativamente una prestazione poi dovrò affrontare un conflitto e mi fa paura” ed un’idea di “gentilezza” distorta, che non tiene in conto che l’obiettivo della gestione e della valutazione non è punire ma generare apprendimento in chi valuta ed in chi è valutato o valutata.
  • Bias di severità. Il o la manager valuta sistematicamente in maniera più severa. I modelli mentali dietro questo errore sistematico possono essere, ad esempio “ho fatto la gavetta, ora deve farla anche la persona valutata”, oppure “se uso dei valori alti poi la persona non si impegnerà più a fondo”, etc. Numerose ricerche sono state fatte per collegare tratti della personalità (ad esempio rilevati con il test BigFive) ed errori sistematici nelle scale, collegando ad esempio tratti di stabilità emotiva e estroversione ad un uso indulgente e viceversa. Interessanti risultati sono emersi da recenti ricerche sul legame tra uso generoso o severo delle scale e, ancora una volta, caratteristiche identitarie della persona valutata, che hanno messo in evidenza il rischio di una maggiore severità di valutazione verso i gruppi dominati (donne, persone di colore, LGBT+, diversità cognitiva etc). Un altro aspetto interessante su questo tema l’uso delle scale nell’autovalutazione legato alla famosa “sindrome dell’impostore” che consiste (anche) in un errore sistematico di severità nell’autovalutazione che produce un sentimento di inadeguatezza e di illeggitimità nella persona.
  • Tendenza centrale. Soprattutto su scale dispari, tendenza ad utilizzare solo i valori centrali e non l’intera scala, per evitare di prendere piena responsabilità usando i valori estremi.

Bias legati alla focalizzazione parziale della prestazione dei valutati

  • Effetto alone positivo e negativo. L’effetto alone, uno dei primi bias ad essere studiati, si ha quando una parte positiva o negativa della prestazione viene focalizzata e messa in risalto, in modo che tutta la valutazione ne viene influenzata. Ad esempio Giovanni ha competenze molto alte sulla negoziazione con il cliente, sulla chiusura dei contratti, sulla gestione del gruppo, ma in riunione prende raramente la parola. Il o la sua manager potrebbe, basandosi su quest’ultima caratteristica, valutarlo negativamente su tutta la prestazione. Ho preso l’esempio del “prendere la parola in riunione” anche perché, secondo alcune ricerche, c’è un effetto alone positivo che investe coloro che sono abili nel prendere la parola in pubblico. L’effetto alone può essere ancora più ampio e riguardare non tanto una parte della prestazione ma caratteristiche della persona, in particolare l’attrattività, l’entusiasmo, la positività che sono associate a prestazioni efficaci, arrivando a nascondere risultati non positivi.
  • Bias di memoria recente (o bias di disponibilità). Consiste nella convinzione che un evento che è accaduto da poco abbia maggiore probabilità di ripetersi. Quindi, rispetto alla gestione delle performance, nella tendenza a richiamare alla memoria sopratutto gli ultimi tre quattro mesi di prestazione e lasciare nell’ombra il resto dell’anno. Un effetto curioso di questo bias è la cosiddetta “hot hand”, metafora presa dallo sport dove si è studiata una tendenza a passare più di frequente la palla alle persone che hanno segnato un punto, secondo la credenza che ad un successo ne possa facilmente seguire un altro (e riconfermando questa credenza perché il maggiore possesso di palla crea più occasioni di marcare punti). In ambito aziendale questo effetto produce l’assegnazione di progetti interessanti e sfidanti uno dietro l’altro a persone che hanno avuto successo in un progetto, ricreando le condizioni per un altro successo. Un buon modo di contrastare questo bias è dato dai sistemi di feedback continuo o dalla metodologia OKR nel suo complesso.
  • Effetto prima impressione. Contrariamente a quanto avviene per il bias di memoria recente questo effetto ci àncora alla prima impressione generale che abbiamo avuto della persona e ci fa ritornare al giudizio che ci siamo formati nei primi pochi secondi della relazione, indipendentemente dai risultati che la persona ha poi concretamente ottenuto. Così una buona prima impressione può nascondere performance negative e una cattiva prima impressione produce risultati contrari. In un prossimo post sui bias vi parleremo, a questo proposito, delle famose ricerche di Harward su “calore & competenza”.

Bias legati al confronto

  • Effetto contrasto. Uno dei nostri modi di apprendere, in quanto esseri umani, viene dalla comparazione di informazioni per analizzarne le differenze e le similitudini. Questa routine di pensiero, quando applicata alla gestione della performance, distrae dall’oggetto della nostra osservazione – il rapporto ed i risultati di un singolo individuo, rispetto ai suoi obiettivi – per spostarci sulla comparazione con altri membri dell’organizzazione, o tra membri dello stesso team. La performance viene così valutata non per il valore aggiunto sugli obiettivi dato dalla persona, ma in quanto migliore o peggiore rispetto ad altri membri del team.
  • Bias dell’importanza del ruolo. Nella maggior parte delle organizzazioni eistono modelli mentali che inducono a mettere al centro dell’attenzione alcuni ruoli, percepiti come più contributivi rispetto alla produzione dei risultati, rispetto ad altri. Penso per esempio ai ruoli di ricerca nelle aziende hi-tech o ai ruoli commerciali e marketing in aziende consumer (dove ci è capitato di sentire queste due funzioni indicate come “la voie royale”). Questo bias consiste nel privilegiare, nella gestione della performance, quei ruoli che intervengono sulle funzioni percepite a più alto valore aggiunto in azienda, impattando negativamente il senso di equità, valutando in modo peggiore ruoli considerati minori.

Alla fine di questa carrellata chi valuta potrebbe sentirsi un po’ in difficoltà 😊. Vi proponiamo alcune idee per cercare di contenere questi bias.

  1. Non lo diremo mai abbastanza ma quanto più è alta la consapevolezza su come pensiamo e sui processi che ci fanno arrivare ai quadri per l’azione, quanto più abbiamo la possibilità di trovarne i bias e gli errori. Questo significa aiutare il più possibile la nostra parte razionale a partecipare al processo. Gli strumenti della gestione della performance sono anche fatti per questo, per togliere l’attività valutativa dalla spontaneità. Prendersi il tempo è un altro fattore chiave. Le valutazioni fatte in fretta, all’ultimo minuto, in maniera rituale giusto per riempire “la pagella” (in quante realtà organizzative abbiamo sentito ancora questo termine!!) sono il terreno fertile per valutazioni sbagliate. Una buona valutazione permette di creare le condizioni perché il periodo successivo porti delle migliori prestazioni, quindi non è un costo in termini di tempo ma un investimento sul futuro e sulla creazione di un buon clima nel team.
  2. Avere un sistema di gestione e sviluppo della performance quanto più possibile articolato, con obiettivi correttamente scritti, indicatori di misura veramente rilevanti, competenze descritte in modo chiaro e fattuale, feedback multicanale è una parte importante. Ma, come ricordato sopra, nessun sistema è completamente libero dai bias, almeno da quelli delle persone che lo hanno progettato.
  3. Un dispositivo interessante è il consistency check. Al termine delle valutazioni i e le manager di pari livello si ritrovano per raccontare come sono arrivati ed arrivate a posizionare le persone sulla scala. Gli e le altre partecipanti alla riunione sfidano la valutazione attraverso contro-esempi, domande su comportamenti specifici osservati etc. E’ una soluzione interessante ed i consistency check ai quali ci è capitato di assistere sono stati dei grandi momenti di apprendimento. A condizione che le persone stiano al gioco e siano disposte a vedere non solo i bias degli altri ma anche i propri e a lavorare sul livello organizzativo, chiedendosi per esempio “cosa non stiamo vedendo, a causa delle abitudini, delle routines, dei ‘da noi si fa così’?”
  4. Quando avete tanti collaboratori è bene non fare le valutazioni tutte insieme. Se rileggete la lista degli errori sopra è chiaro che se a questi aggiungiamo un numero imprecisato di valutazioni fatte tutte in un pomeriggio, avere chiaro chi ha fatto cosa diventa molto difficile.
  5. Il feed back continuo diventa un ottimo strumento, in particolare quando è possibile che chi valuta e chi è valutato possano mettersi d’accordo sul suo contenuto e tenerne traccia comune. Il vantaggio, oltre che sulla valutazione, è soprattutto sul ciclo di apprendimento della persona che viene in questo modo potenziato.
  6. Una cultura di accettazione e di crescita attraverso l’errore aiuta chi è valutato e chi valuta ad aprire un dialogo, nel quale proteggere la relazione dal rischio della “storia unica”. L’occhio (ed il cervello) di chi valuta e gestisce non sono infallibili. Esistono (almeno) due versioni della storia e, attraverso una esposizione chiara e circostanziata dei fatti, entrambi potranno forse arricchire la ricostruzione che ne è stata fatta.

 

 

Phote credit Rob Gonsalves


Feste, regali & stereotipi di genere

“The only gift is a portion of thyself.” Ralph Waldo Emerson

Per il bias di questa settimana abbiamo scelto di restare nella leggerezza e giocosità delle feste appena passate e su un tema che ci appassiona: il bias di genere ed in particolare i comportamenti che rischiano di rinforzarlo fin dall’infanzia.

Poco prima di Natale stavo lavorando in un percorso webinar con un gruppo di donne manager, di età e provenienze diverse, intorno agli stereotipi di genere. Dialogando sul tema insieme già da un po’ di tempo, abbiamo avuto modo di esplorarne origini, impatti sulla vita professionale e sulla carriera, rischi, strumenti per neutralizzarli etc., non si trattava quindi di un gruppo nuovo alla riflessione su questi argomenti. Avevo appena terminato un libro molto interessante, in realtà letto per prepararmi su un altro progetto, per un gruppo di insegnanti “Le manuel qui dezyngue les stereotypes” di Nathalie Anton, uscito alla fine dell’anno in Francia presso Eyrolles. Verso la metà del libro l’autrice propone uno strumento divertente, che lei stessa definisce caricaturale, ed ho avuto l’intuizione che potesse servire per giocare con il tema insieme al mio gruppo. Così, in piena atmosfera pre-natalizia, l’ho usato come esercizio di warming up, l’ho chiamato usando l’espressione francese “Cadeau empoisonné?” (che si potrebbe tradurre con “Regalo avvelenato?”)

Ve lo riporto integralmente:

Avete già regalato o state per regalare uno di questi articoli A una bambina A un bambino
Vascello spaziale
Bambola
Veicolo di costruzione tipo scavatrice o trattore
Tegamini
Camion dei pompieri o macchina della polizia
Pista per automobiline
Travestimento da principessa
Spada/pistola
Maquillage
Diario intimo
Elicottero, nave

Vi invito a riempire la tabella, come hanno fatto le mie partecipanti all’inizio del webinar e poi a rispondere alle domande dell’ultima parte del post.

Di stereotipi di genere abbiamo parlato spesso nel ciclo dei post sui bias sul blog di Nexus. Essi possono essere definiti come “una serie di credenze che le persone hanno, su cosa significa essere donne o uomini”. Il loro contenuto evolve nel tempo e varia a seconda delle diverse culture. Gli stereotipi generano delle aspettative sui ruoli sociali e professionali, legate al sesso della persona. Nel corso degli anni una serie di ricerche “pop” molto divulgate lasciava intendere che questi ruoli, per ragioni biologiche fossero divisi, semplificando, in ruoli di azione per gli uomini e di cura per le donne. L’evolvere degli studi ha permesso di mettere in discussione una serie di miti e di stabilire che le similitudini tra i cervelli di uomini e donne sono molte di più delle differenze (vedere, tra in tanti, il bellissimo e rigoroso libro di Gina Rippon “Gendered Brain”). I miti, con il loro fascino semplificatorio, sono molto difficili da decostruire ed abbandonare. Come sottolinea Gina Rippon, ad esempio, se oramai nessuno potrebbe seriamente sostenere scientificamente l’inferiorità delle donne, un’altra prigione di genere diventa quella della supposta “complementarietà” tra uomini e donne e del suo elogio, anche dietro buone intenzioni di fare in modo che le caratteristiche femminili come capacità di empatia, ascolto, di entrare in relazione con gli altri possano emergere. Buone intenzioni che son comunque generatrici di stereotipi se pur positivi, ugualmente imprigionanti: la complementarietà diventa un altro modo per definire uomini e donne in modo statico, limitato, e far rientrare la complessità con tutte le sue sfaccettature nella dicotomia del paradigma “azione/cura”.

I bambini cominciano molto presto, fin dall’età di 2/3 anni, a categorizzare il mondo ed a fare inferenze sul suo funzionamento. Sul genere questo significa che molto presto cominciano ad associare azioni, attività, professioni, ruoli ad un genere piuttosto che ad un altro. I genitori, insegnanti, i libri, la televisione, i giochi video possono rinforzare queste inferenze o metterle in discussione, proporne di alternative.

L’esercizio sulla tabella ha scatenato molte risate tra le partecipanti al webinar, ma anche scambi e riflessioni. Inutile forse dirvi che per la maggior parte del gruppo i risultati sono stati abbastanza prevedibili. Navi, scavatrici, piste, camion etc. regalati a bimbi, maquillage, bambole, tegamini etc. regalati a bimbe, con qualche rara eccezione.

Questo esercizio è stato un momento allegro, non colpevolizzante, per riflettere su uno dei tanti micro comportamenti che, quando ne siamo conapevoli, sono rivelatori dei nostri modelli mentali, in questo caso riguardo al genere. Se prendiamo un tempo di respiro e di analisi, se rallentiamo, possono fornirci insights sul nostro funzionamento ed alternative possibili. Ad esempio, dopo aver fatto l’esercizio senza troppo pensare possiamo fermarci e chiederci: quali sono gli schemi che hanno guidato le mie scelte? Cosa vuol dire per me essere donna? Uomo? Cosa associo ai generi? Quali attività caratterizzano una donna e un uomo? Cosa può fare una donna? Un uomo? Cosa significa il regalo che sto facendo per questa bimba o bimbo? Quali messaggi impliciti sto trasmettendo? Quali gli effetti di questi messaggi? Sono messaggi di incoraggiamento, di apertura? Quali impatti produrranno sulle sue scelte? Cosa nutrono e cosa scoraggiano per lei o lui?

Riprendendo la citazione in apertura, se è vero che “Ogni regalo è una parte di noi”, scegliendolo per le giovani generazioni stiamo anche trasmettendo un modello, un’idea di futuro, una possibilità/impossibilità di abbandonare vecchi modelli e di lasciare spazio a qualcosa di diverso. E su questa trasmissione e le sue implicazioni possiamo scegliere di essere consapevoli delle conseguenze che produciamo.


“C’è crisi, nominiamo una donna”: dinamiche e trappole del Glass cliff

Suzanne è dirigente di una grande impresa francese nel settore dell’energia. Le viene comunicato che guiderà  il progetto trasformazione digitale, un progetto trasversale chiave, che coinvolgerà tutta l’azienda nei prossimi mesi, ruolo per il quale riporterà direttamente al CEO. Il progetto era guidato fino ad ora da Jean-André. Era iniziato nel 2019  ma, vuoi per la crisi del COVID, vuoi per altri fattori, stava stagnando e non stava riportando i risultati sperati.  Nel proporle il ruolo le viene detto che una delle cause del malfunzionamento passato è stata l’incapacità di Jean-André di parlare del progetto alle persone coinvolte, in maniera convincente e di non saper manifestare sufficiente empatia nel comunicare i cambiamenti che avrebbero coinvolto il personale e quindi la discesa in picchiata di tutti gli indicatori di clima, dato il malcontento generalizzato che sta provocando la trasformazione. Il progetto è iniziato anche a causa della perdita di quote di mercato che  stava registrando l’azienda, perdita che è stata amplificata durante il primo anno di vita del progetto.  Suzanne accetta il posto con entusiasmo, dicendosi che la sua nomina, in una cultura aziendale che storicamente preferisce gli uomini in ruoli visibili e con alta componente politica come quello che le è stato proposto, deve essere frutto di un vento nuovo, portato anche dalla creazione della funzione Diversity, Equity & Inclusion, un vento che sta soffiando nella società intera e che sta portando forse finalmente dei cambiamenti concreti.

Fin dalla metà degli anni 70, in particolare grazie a Marylin Loden che per prima ha utilizzato l’espressione durante una conferenza, il concetto di Glass Ceiling (soffitto di vetro) ha fatto la sua apparizione negli studi organizzativi e di genere. Si tratta in sostanza di quella serie di barriere strutturali (bassa paga, basso status dei ruoli affidati etc) e culturali, in particolare gli stereotipi di genere, che fanno si’ che la carriera delle donne si fermi spesso a ruoli di middle management. Più recente è invece l’emergere del fenomeno Glass Cliff (scogliera di vetro). Si tratta di un concetto creato nel 2005 da due ricercatori, Michelle Ryan & Alexander Haslam. Colpiti da un articolo del Times ispirato da una ricerca che sembrava mostrare che le donne e le minoranze, in particolare le minoranze etniche, in ruoli di leadership, generano performance sotto la media, i ricercatori hanno esaminato più in dettaglio i contesti nei quali le donne sono state nominate in posti di alta responsabilità.  Ne è emersa una caratteristica comune, che rimette completamente in discussione i risultati della ricerca precedente, spostando il focus dalle capacità individuali al terreno nel quale queste possono/non possono essere espresse. I contesti nei quali quelle nomine venivano realizzate, infatti, erano definibili come “di profonda crisi”. E quindi, esattamente come su una scogliera pericolosa, le donne nominate in posizioni di leadership in questi contesti moltiplicavano il rischio di fallire, di essere additate come incapaci anche pubblicamente e lo stress derivante da condizioni particolarmente faticose, che alimenta il circolo vizioso del glass cliff. Si potrebbe obiettare che il successo o l’insuccesso in posizioni ad alto livello di complessità, è influenzato da molte variabili oltre al genere ed alle condizioni di crisi. In numerose altre ricerche si sono esaminate le scelte su degli scenari fittizi che permettevano l’isolamento di alcune variabili, confermando il fenomeno del Glass cliff: donne e minoranze venivano preferite a uomini bianchi di preferenza durante situazioni di crisi.

Potremmo a questo punto chiederci:  perché,  durante una crisi è più facile che il Glass Ceiling nelle organizzazioni (ma anche, come è stato dimostrato, in politica e nello sport) venga superato, mettendo pero’ le categorie fino ad allora escluse dal potere in condizioni di alto rischio di fallimento? Una spiegazione possibile è che in questi contesti particolarmente delicati e difficili, le competenze ricercate, da parte di chi ricopre ruoli di leadership, siano diverse. Se in tempi “normali” viene preferita una leadership agentica con caratteri di rapidità, assertività, determinazione, una leadership che viene riconosciuta soprattutto negli uomini, corrispondendo allo stereotipo “Think manager, think male” (V.E.. Schein, 1973), in tempi difficili invece “Think Crisis, Think Female”. Le competenze ricercate cambiano e diventano di preferenza quelle appartenenti alla sfera della gestione delle emozioni, del creare contenitori per gestire le resistenze al cambiamento, l’empatia, l’attenzione ai problemi degli altri. E’  quella che Burns ha definito come la leadership transazionale  e le competenze “communality”, considerate (consciamente o inconsciamente) un “nice to have” in tempi normali, vengono riconosciute come centrali e permettono alle donne di essere più viste come possibili occupanti posizioni di potere, perché queste competenze corrispondono allo stereotipo femminile nutritivo, materno, relazionale.

Potremmo ipotizzare che questo bias sia una delle componenti che hanno influenzato la nomina nel caso di Suzanne, che è stato presentato in apertura. L’offerta del ruolo di responsabile di un progetto chiave, visibile, importante e “politico” avviene dopo un fallimento. Suzanne arriva in un contesto di perdita di quote di mercato, di risultati disastrosi dal progetto, di indicatori di clima in caduta libera, di scontento generalizzato e di grande rischio di insuccesso. E’ questa un’altra caratteristica del fenomeno Glass Cliff. Sulla donna prescelta arrivano eccessive proiezioni positive. Un’ipotesi possibile per spiegare la dinamica fallimentare del Glass Cliff puo’ essere fatta a partire dall’assunto di base “dipendenza” dal leader, di Wilfred Bion. I membri dell’organizzazione, messi davanti alla loro incompetenza a lavorare sul compito, proiettano tutto il potere di uscita da questa situazione fallimentare, sulla donna designata. Se la designata introietta la proiezione organizzativa, lo stress generato dal rischio di non riuscire e la constatazione che le condizioni per la riuscita non sono riunite puo’ generare, a livello personale, un’incapacità effettiva ad agire al meglio.  Questa dinamica personale è accompagnata anche da una dinamica del sistema. Gli attori ed attrici dell’organizzazione proiettando tutto il potere sulla persona della leader, sono deresponsabilizzati rispetto alla trasformazione, l’aspettativa, consapevole ed inconsapevole, è che il lavoro sia fatto da qualcun altro.

Un’altro bias ancora puo’ essere causa della nomina di una donna in questo tipo di situazioni. E’ un desiderio inconsapevole, da parte di una cultura organizzativa fondata su stereotipi maschili del successo, di mantenere lo status quo e quindi di veder fallire la donna nominata, in maniera tale da poter confermare l’idea che il potere è una cosa da uomini.

Nel nostro lavoro di accompagnamento sia individuale che collettivo, ci è capitato di incontrare il Glass Cliff non solo sul genere ma anche su ruoli specifici – forse perché percepite come più sfidanti per lo status quo rispetto a funzioni più tradizionali come marketing, vendite, produzione etc. – in particolare quelli che accompagnano, a vario titolo, la Responsabilità Sociale d’Impresa, o l’Investimento Responsabile. Ci sono casi nei quali le organizzazioni sembrano aver creato il ruolo per mostrare che il cambiamento non è possibile, o che è solo sulle spalle della persona o della funzione che se ne occupa, liberando dalla responsabilità il resto dei membri dell’azienda. La persona che prende il ruolo, in questi casi, che sia uomo o donna, si trova ad agire su una china molto pericolosa, dalla quale è più facile cadere che essere efficaci.

Come avviene per tutti i bias, anche per il Glass Cliff le dinamiche inconsce sottostanti possono essere molto mobilizzatrici e restano implicite se individualmente e collettivamente non si riesce a trovare la buona distanza per nominarle e la volontà di trasformarle.

Quali possono essere alcune piste concrete per poterlo fare? Di seguito alcune piste di lavoro che abbiamo esplorato con Suzanne in coaching, prima della sua entrata in ruolo:

  1. Prima di prendere il ruolo Suzanne deve negoziare attentamente le risorse che le saranno messe a disposizione, commisurate con l’importanza del progetto, i risultati attesi, gli impatti. Definire, insieme alla direzione, indicatori di successo realistici e misurabili, per ancorare la propria azione alla realtà. Una delle risorse importanti per la riuscita è proprio da ricercare in un committment visibile della Direzione e del CEO dell’azienda, che dovrà essere chiaro e ben definito fin dall’inizio, ed eventualmente da rivedere in seguito ai feed back che verranno durante l’azione.
  2. Un secondo passo è costituire una mappa degli alleati possibili, crearsi un network forte che possa sostenerla e fornirle risorse per raggiungere i suoi obiettivi.
  3. Un altro elemento importante è costituito da un lavoro di fondo sulla cultura organizzativa, da un lato per far emergere i modelli mentali ed per trasformarli, d’altro lato per chiarire bene le aspettative e le responsabilità di tutti rispetto al progetto trasformazione digitale. La scogliera di vetro diventa meno pericolosa se non si è sole a percorrerla.
  4. Un lavoro ancora più profondo riguarda il chiarimento dei modelli di leadership organizzativi, dichiarati e agiti e l’interrogazione collettiva su questi modelli. Suzanne avrà bisogno non solo delle competenze della leadership trasformazionale, per permetterle di gestire la parte emotiva e le resistenze alla trasformazione, ma anche di competenze “agentic leadership”, quando ad esempio dovrà decidere quali pratiche abbandonare perché non sono più portatrici di vitalità organizzativa e quanto il cambiamento dovrà essere distruptive per l’organizzazione. Queste competenze sono proprio quelle che, in contesti nei quali gli stereotipi di genere sono presenti e guidano inconsapevolmente lo sguardo, l’apprezzamento, il giudizio delle persone, fanno fatica ad essere viste ed accettate quando sono espresse dalle donne, dalle quali collettivamente non ci si aspetta determinazione, assertività, rapidità, assunzione di rischio. Il modello della leadership rigenerativa si rivela essere molto più utile ed inclusivo, per uscire da modelli duali che rischiano di rinforzare questi stereotipi.

Sunk cost bias: quando perseverare oltre ogni ragionevole dubbio si rivela una pessima idea

Stiamo leggendo un libro che non ci piace per nulla. Però lo abbiamo pagato 20 euro quindi decidiamo di finirlo, malgrado Pennac ed il terzo della sua lista dei diritti del lettore che recita “Non è necessario finire un libro”. Il nostro lavoro non ci soddisfa, da qualche anno, l’energia è calata e non troviamo più molto senso, vorremmo fare altro, magari ricominciare in un altro settore, in un altro ruolo, o semplicemente darci alla cucina. Abbiamo un’offerta per una posizione inferiore alla nostra per un lavoro che ci piacerebbe molto. Ma abbiamo speso anni a formarci, a prendere lauree e Master per fare esattamente questo, non si può buttare via tutto quello che abbiamo imparato, meglio restare. Il progetto cominciato due anni fa in azienda, che sembrava promettere risultati eccezionali, non sta dando gli esiti sperati, malgrado tutte le azioni correttive che abbiamo cercato di intraprendere, malgrado l’aumento del budget dedicato, malgrado il fatto che i migliori ingegneri e ingegnere dell’azienda ci stiano lavorando...non possiamo lasciarlo ora, abbiamo investito già troppo, prima o poi darà i suoi frutti.

Forse vi siete riconosciuti e riconosciute nei tre esempi sopra, o magari vi sono venute in mente altre situazioni nelle quali continuare ha prevalso sul cambiare, fermarsi, fare altro. Ciò che hanno in comune è che, nonostante tutti i segnali che ci dicono che la decisione che abbiamo preso va rivista è come se ci fosse qualcosa che agisce a livello individuale e collettivo: non si riesce a cambiarla. A volte si tratta giusto di smettere di fare ciò che stiamo facendo, altre, come nel caso del cambiamento di lavoro, di scegliere tra due alternative, di cui una, quella che non scegliamo, appare, se analizzata razionalmente, migliore. La radice di questo blocco è una tendenza inconsapevole evoluzionistica. Messi di fronte alla possibilità di interrompere un investimento a vuoto e quindi ad un guadagno futuro di risorse da investire altrove, tendiamo invece ad evitare le perdite, ancorandoci al passato: è il bias (fallacia) dei costi irrecuperabili, nella letteratura anglo sassone “sunk cost” o Concorde effect, dall’esempio eclatante di testardaggine anglo-francese nel perseguire un investimento fallimentare.

Questo bias non è va confuso con la perseveranza, la capacità di attendere i risultati di progetti, azioni, attività dall’esito incerto ma con possibile lieto fine. Il bias dei costi irrecuperabili riguarda quelle situazioni nelle quali non c’è razionalmente possibilità di successo, tutti i dati ce lo confermano  e nonostante questo restiamo tenacemente attaccati. Chiaramente non si tratta solo di perdita di un investimento economico, i costi sono anche emotivi e più alto è il coinvolgimento che sentiamo più sarà difficile lasciare andare l’oggetto che ha catturato le nostre energie. Quando però la perseveranza diventa un ideale, un diktat, un assoluto,  quando viene decontestualizzata e promossa come caratteristica sempre e solo positiva, usando un paradigma maschile di lettura del successo,  la pressione a continuare anche ciò che non ha più senso può diventare talmente forte da far perdere di vista la razionalità del persistere.

I ricercatori dell’Università del Minnesota hanno scoperto che questa tendenza non è propria solo degli esseri umani, chiarendo anche perché è cosi’ difficile abbandonare. In un articolo pubblicato nel 2018 sulla rivista Science vengono esposti i risultati di un esperimento, che stabiliscono che anche topi e ratti sono soggetti a questa fallacia, aprendo, secondo i ricercatori, molte nuove strade sullo studio, ad esempio, di cosa succede al cervello nel caso delle dipendenze da droghe o altro. I “sunk cost” ci accompagnano nelle torri di vetro e acciaio nelle quali viviamo la nostra vita organizzativa, un altro dei legami prossimi della specie umana con il resto del mondo animale. Inoltre, in un’altra interessante ricerca dell’American Psychological Association, il bias dei costi irrecuperabili è stato studiato in individui di culture diverse. La ricerca dimostra che è un bias trasversale che tocca individui di culture anche molto lontane.

Il bias dei costi irrecuperabili non si limita a danneggiare le scelte razionali di individui, gruppi, organizzazioni. Esso agisce, e produce danni ben maggiori, anche a livello di macrosistemi economici e politici, rendendo difficile la lotta contro il cambiamento climatico, soprattutto in quei settori, quali ad esempio l’energia, o le costruzioni,  che sono caratterizzati da investimenti di lunga durata, iniziati in anni di supposta/immaginata continuità di basso costo delle energie fossili, di non regolazione delle emissioni, di consumo senza preoccupazione per il futuro del pianeta. E’ in questi settori, nei quali gli investimenti sono recuperabili solo dopo decenni di utilizzo, che diventa più difficile smettere di guardare al passato ed integrare nella decisione elementi razionali quali ad esempio l’accordo oramai generalizzato della comunità scientifica sugli impatti climatici del business as usual.

Cosa possiamo fare, a livello individuale, organizzativo, di società, per non cadere nel tranello dei costi irrecuperabili?

Abbiamo visto più sopra che il bias dei sunk cost trova terreno fertile in una lettura implicita del mondo nella quale il fatto di lasciare andare ciò che non riesce, l’abbandono di un progetto, di un lavoro, di un sistema di produzione, viene letta come una sconfitta, una vergogna, una debolezza, qualcosa da rifuggire. Questo tipo di lettura del mondo non contempla il valore del riconoscimento dell’errore, della vulnerabilità e rischia quindi di ancorarci al passato, ad un’illusione di coerenza, di equazione tra impegno fornito e risultato sperato, impedendo cosi’ di vedere che perseverare sarà solo fonte di altre scelte irrazionali, altri costi, altre perdite.  In Nexus siamo particolarmente sensibili a questo tipo di bias perché è uno di quelli che rendono impossibile la rigenerazione, impedendo a ciò che deve morire di essere lasciato andare ed all’energia di poter andare là dove c’è la vita, dove il futuro ci chiede di essere.

A livello individuale e collettivo, è importante invece rallentare e portare ciò che è inconsapevole ad essere esplicitato. Quali sono i costi della continuità, quali gli impatti negativi sul futuro? L’abbandono di un passato nel quale si è investito molto, parte da un processo  di rivisitazione, reinterpretazione, che permetta di vedere i modelli mentali che influenzano l’azione per poterli trasformare. E’ un processo analogo a quello della Natura, che porta alla rigenerazione dell’intenzione per allinearla alle evoluzioni del contesto.