Principio di permacultura n°6: Non produrre rifiuti

produce no waste

In natura è normale…

Una delle tante meraviglie degli ecosistemi naturali è che non producono rifiuti. Solo i sistemi umani lo fanno.

In natura, ogni prodotto di un elemento è un input per un altro elemento. Gli ecosistemi crescono grazie a uno dei più importanti princìpi sistemici di cui sono un esempio lampante: la coevoluzione. Un elemento non può crescere se non crescono altri elementi che si nutrono di ció che produce. In altre parole, sono solo gli elementi interconnessi a svilupparsi, cosa che per il pensiero cartesiano è piuttosto difficile da comprendere.

Gli elementi di un ecosistema non produrranno più di quanto l’ambiente circostante sia in grado di assorbire, quindi non vedremo, in un ecosistema equilibrato, alcun accumulo di prodotti che a noi potrebbero sembrare rifiuti.

…ma nei sistemi umani è difficile!

In un certo senso, il principio #6 evidenzia quanto noi esseri umani NON operiamo secondo gli stessi schemi e princìpi degli ecosistemi naturali e della biosfera, perché sembriamo produrre rifiuti ovunque mettiamo piede e in qualsiasi attività siamo impegnati.

Si potrebbe obiettare che la Terra ha avuto più tempo di noi per entrare nei giusti schemi (3,5 miliardi di anni), mentre noi abbiamo appena iniziato (“solo” poche centinaia di migliaia di anni), eppure sono i nostri schemi a preoccupare, con i rifiuti che produciamo che crescono in modo esponenziale.

È quindi giunto il momento di fare sul serio e di operare un’inversione di rotta, guidata da questo potente principio #6. L’ulteriore complessità, per noi esseri umani, è che, pur essendo parte della Natura, operiamo sia a livello materiale che immateriale, quindi l’applicazione di questo principio richiede di affrontare entrambe le dimensioni.

Non produrre rifiuti materiali

In un certo senso questo è abbastanza semplice – voglio dire che è abbastanza semplice capire di cosa stiamo parlando! Applicarlo ci è sfuggito finora, poiché, come già detto, stiamo producendo rifiuti materiali a un ritmo esponenziale.

Come possiamo affrontare questo problema e operare un’inversione di tendenza? Ebbene, proprio come in natura, possiamo:

  1. Produrre output che l’ambiente circostante è in grado di utilizzare come input.
  2. Non produrre più output di quanto l’ambiente circostante sia in grado di assorbire.

Rispondere al secondo punto è ciò che cerchiamo di fare quando lanciamo programmi di “riduzione dei rifiuti”. Questi programmi sono incentrati sul miglioramento dell’efficienza dei nostri processi produttivi, in modo da utilizzare il minor numero possibile di input per un determinato obiettivo di produzione, ma assicurandoci di utilizzare il maggior numero possibile di elementi di questi input, in modo che dal processo produttivo non esca quasi nulla che non sia un componente del prodotto desiderato. Le aziende produttrici di abbigliamento, ad esempio, cercheranno di utilizzare la maggior parte possibile delle pezze di tessuto; le aziende produttrici di automobili faranno lo stesso con le lamine di metalli da cui tagliano parti della carrozzeria; i forni industriali cercheranno di aumentare l’efficienza del combustibile che utilizzano in modo che la maggior parte di esso venga trasformato in calore; ecc.

Questi sforzi vanno lodati, perché riducono gli sprechi. Ma purtroppo non sono sufficienti, principalmente per due motivi:

  1. Il paradigma economico all’interno del quale si svolgono le nostre attività ci incoraggia strutturalmente a produrre sempre di più di ciò che abbiamo iniziato a produrre. Quindi, anche se riduciamo gli sprechi nel nostro processo produttivo, molto probabilmente finiremo per produrre ancora più rifiuti.
  2. Ciò che la maggior parte dei nostri processi produttivi rilascia come output non finisce come input per altri componenti dei nostri sistemi umani.

Questo ci riporta alla soluzione n. 1: produrre output che l’ambiente circostante sia in grado di utilizzare come input. Ci sono già esempi di applicazione di questo principio: siti industriali impostati in modo “ecologico”, nel senso che il calore prodotto da una fabbrica dell’azienda A riscalderà un’altra fabbrica, appartenente all’azienda B; dove i rifiuti materiali dell’azienda B saranno utilizzati come materia prima per l’azienda C, ecc. Un altro esempio viene da San Francisco, dove la città, attraverso il suo programma di gestione dei rifiuti, sta trasformando l’immondizia in un ricco compost, che viene venduto ai viticoltori della Napa Valley.

Questi sono meravigliosi esempi pionieristici. Quindi, cerchiamo di incrementarli, in modo che diventino la norma e non l’eccezione! E applichiamo la creatività ad altri settori dell’economia, mappando tutti gli output che non diventano input e risolvendo queste equazioni una alla volta.

Prendiamo ad esempio la plastica: gran parte del cibo venduto nei supermercati arriva in scatole di plastica (ad esempio i gelati) che poi vengono buttate via, e gran parte dei take-away che ordiniamo tramite varie app arrivano anch’essi in contenitori di plastica che poi diventano rifiuti. Come possiamo collegarli in modo che l’output di una catena di valore diventi un input per l’altra? Quale sistema di ricompensa potrebbe spingerci a impegnarci liberamente e con entusiasmo in questo modello virtuoso?

Rifiuti immateriali nei sistemi umani

Come possiamo definire i rifiuti immateriali nei sistemi umani in modo non dispregiativo? Il mio suggerimento è di ispirarsi agli ecosistemi naturali: i rifiuti sono energia che si accumula senza la possibilità di alimentare un nuovo ciclo.

Quando, ad esempio, abbiamo idee per nuovi prodotti, mercati o modi di operare come organizzazione, che riteniamo possano essere vitali e/o più in linea con il nostro scopo, e la struttura/cultura dell’organizzazione ci impedisce di testarle, allora l’organizzazione crea rifiuti.

Quando il modo in cui operiamo crea rabbia e risentimento, e non c’è modo di trasformare quell’energia in qualcosa di produttivo e vivificante, portandoci a prendercela con noi stessi o con gli altri, allora l’organizzazione crea rifiuti tossici simili a quelli che troviamo in alcune delle nostre discariche.

Quando un’organizzazione ridimensiona o interrompe alcune delle sue attività, licenziando una parte delle persone senza trovare un’alternativa appropriata per loro, produce output che non possono diventare input altrove.

I modi per affrontare questi problemi sono gli stessi descritti sopra per i rifiuti materiali:

  1. Produrre output che l’ambiente circostante è in grado di utilizzare come input.
  2. Non produrre più output di quanto l’ambiente circostante sia in grado di assorbire.

La differenza sta nel concentrarsi sullo sviluppo di altri elementi in grado di utilizzare gli output prodotti come input per se stessi: creare, ad esempio, percorsi che consentano davvero alle persone di testare rapidamente idee innovative; rivedere i modelli di ricollocamento in modo che ci sia sempre qualcosa in cui il personale senta di potersi impegnare se/quando viene licenziato (un reddito di base universale, abbinato alla formazione per nuove carriere, o/e con ONG/lavoro di beneficenza, ecc. ); inserire nel funzionamento dei team alcune sessioni regolari di debriefing o di team coaching, che consentano al personale di sfogare il malcontento e di chiedersi come usarlo in modo creativo per trovare altri modi di affrontare situazioni simili che possono ripresentarsi.

 

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