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Quel momento per iniziare: gioie e dolori del check-in nei team

“Per il nostro check-in, vi propongo di rispondere, con una frase, a questa domanda: “come mi sento rispetto al nostro obiettivo?”

La prima volta che sono venuta in contatto con la pratica del check-in risale a una ventina di anni fa, nell’ambito di seminari aventi radice nel mondo anglosassone. Ai tempi mi era sembrato una pratica strana: normalmente nei seminari ci si aspettava di condividere aspettative e risultati attesi nel momento iniziale, non il proprio stato emotivo. Velocemente mi sono resa conto di quanto questo momento sia interessante per iniziare riunioni in gruppo, per tanti motivi che più sotto esploreremo, ma solo quando ci sono delle condizioni di base rispettate, altrimenti rischia di produrre effetti esattamente opposti a quelli sperati.

Cos’è il check-in?

E’ una pratica semplice e molto potente per iniziare una riunione, che apre uno spazio di dialogo sul “sentire”: le persone possono condividere quello che sentono in modo essenziale ed ascoltare le emozioni degli altri. In pratica consiste in una domanda da esplorare attraverso diverse metodologie, usando immagini o metafore, strumenti quali la “Ruota di Plutchik” che aiutano a nominare le emozioni, o anche un semplice semaforo come nella metodologia agile che aiuta a connettersi alle emozioni in profondità. Gli strumenti sono diversi, quello che importa è creare connessione, aprendo un dialogo con il resto del gruppo. Un embrione di questa pratica esisteva già negli anni ’40 con i primi T-Groups e le analisi del “qui ed ora”, ma è con la diffusione dei dispositivi di intelligenza collettiva a partire dagli anni ’90 che il check-in si diffonde in modo capillare.

Il check-in serve a:

  1. Permettere l’ascolto reciproco, riconoscere ed accogliere ciò che gli altri portano dentro la riunione per poter aprire dei circuiti di empatia tra i membri;
  2. Sottolineare una frontiera: la riunione comincia, il tempo è ora orientato sull’obiettivo previsto;
  3. Aiutare chi prende la leadership del gruppo a tenere in conto anche la parte emotiva, a non lasciare tutto lo spazio solo alla componente razionale legata all’obiettivo.
  4. Permettere, per ciascun membro del gruppo, un momento di ascolto di sé, una connessione rapida con il proprio stato emotivo ma anche con pensieri, stati d’animo etc.
  5. Invitare l’intero sé alla riunione, aprendo così l’accesso a una gamma più ampia di possibili combinazioni e risultati.

Il check-in permette al gruppo di rallentare, di sintonizzarsi e di “partire” insieme, anziché in modo frammentato e dispersivo. È un momento rigenerativo, sia per gli individui che per il gruppo intero, è come prendere un respiro collettivo prima di iniziare.

In termini di sicurezza psicologica, questa pratica segnala in modo simbolico che le persone contano non solo per ciò che producono, ma anche per come stanno. Ognuno è invitato a mostrarsi con autenticità, condividendo anche la sua vulnerabilità (questo obiettivo mi preoccupa, mi fa sentire incapace, mi fa dubitare, o mi sento piena di gioia quando penso a quello che stiamo facendo etc). Nel tempo, questo costruisce fiducia e normalizza l’idea che emozioni e vulnerabilità possono essere condivise nel gruppo senza paura del giudizio.

Il check-in è anche una misura preventiva per testare la salute mentale del gruppo e dei singoli: permette di intercettare segnali di stress, cali di energia, esclusioni, isolamento. Se qualcuno condivide che è stanco o preoccupato, il team può sostenerlo, modulando aspettative e ritmi. Questo riduce il rischio che difficoltà individuali si trasformino in crisi silenziose.

Insomma, il check-in è uno strumento di cura collettiva ma anche di performance. È un piccolo gesto che, praticato con costanza, diventa un grande investimento nella vitalità e nella salute delle persone e dei gruppi.

Alla base di tutto ciò però ci deve essere una intenzione chiara di chi lo usa: un desiderio autentico di condividere ed ascoltare, la disponibilità ad accogliere fino in fondo, anche ciò che non necessariamente piace o fa comodo. Il check-in non può quindi essere utilizzato in modo manipolatorio.

Nel corso degli anni, mi è capitato di osservare almeno due derive.

  1. Il check in come abitudine, diventa un momento solo formale: stessi turni di parola, stesse frasi, stessi schemi di risposta. Il gruppo lo fa solo perché “si deve fare così”, non perché avverte l’importanza di quell’atto per connettersi nel presente. In questi casi, le parole scorrono, i gesti si ripetono, ma il cuore del gruppo resta altrove. Si crea un effetto “pilota automatico”: si compie il rituale, ma nessuno entra davvero in contatto con il proprio stato interno o con quello degli altri. Mi è capitato, durante una serie di riunioni di lavoro, di sentire questo straniamento: in un contesto di riunioni on line la persona che animava, senza che si sentisse nessuna intenzione, proponeva ogni volta un check-in ma il meta messaggio era “ok visto che lo dobbiamo fare facciamolo”. Questo produceva risposte automatiche « tutto bene grazie», silenzi imbarazzati seguiti da turni obbligati, nessun legame tra il check-in e l’obiettivo del gruppo, check-in sempre uguali, lasciando i membri del gruppo, me compresa, in un’area grigia tra la voglia di ridere e la frustrazione. Un dispositivo che dovrebbe creare fiducia, sicurezza e inclusione in questo modo si trasforma in un boomerang.
  2. Il check-in come difesa dal compito. In un gruppo di lavoro particolarmente conflittuale ma nel quale il conflitto non era mai stato esplicitato, capitava che si passasse il tempo delle riunioni a “fare check in”. Nel dichiarato c’era un bisogno prima di tutto di riconnettersi, ma poi finiva che, per il lavoro sull’obiettivo non c’era più tempo e le decisioni venivano prese in modo univoco e fuori dallo spazio e dal tempo nel quale potevano essere prese in modo partecipato. In realtà i check-in diventavano dei lunghi monologhi, senza nessun senso di connessione al gruppo o all’obiettivo; la regola del dialogo “si parla al centro, non si risponde ad un check-in perché è una dimensione soggettiva” veniva anch’essa utilizzata per evitare l’espressione del conflitto. Il check-in era un modo per difendersi e restare, secondo il modello di Bion, in “assunto di base” (attacco e fuga, per esempio) per evitare l’ansia derivante dal compito: un modo per essere presenti senza sentire la presenza, in una condizione di sicurezza psicologica apparente, ma in realtà implicitamente era impedita l’esplorazione delle differenze, sotto copertura di una finta benevolenza.

 

Avere delle buone pratiche di check-in richiede una grande capacità di ascoltare, di restare connessi, di aprirci ai nostri bisogni ed ai bisogni del gruppo.

 

Rigenerare il check-in

Cosa fare se ci rendiamo conto che rischiamo che il check in che sia inefficace?

Ecco alcuni suggerimenti pratici:

  1. Avere un’intenzione chiara, preparare bene le domande ed adattarle al contesto, in poche parole concentrarsi sull’intenzione e poi adattare lo strumento;
  2. Cambiare le modalità per evitare la ripetizione del rituale;
  3. Fissare frontiere di tempo per ogni partecipante, per evitare di colludere con l’evitamento del task
  4. Se il check-in si allunga troppo, aiutare il gruppo a riflettere sul processo, fermarsi e chiedere: “Come ci serve questo momento? Sta funzionando per il nostro lavoro?”
  5. Fare un ponte chiaro con il compito, evitando che il check-in resti isolato, senza legame con ciò che il gruppo deve fare.
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