Il modello dei 6 principi della rigenerazione: Principio #1
Il modello che vi presentiamo va inteso come una specie di "Sistema Operativo": consiste in un insieme di principi che dovrebbero guidare ogni azione, ogni iniziativa che si voglia intraprendere per portare la rigenerazione nella propria organizzazione e nella propria vita; fornisce un quadro coerente, una mappa, che può aiutare a navigare la strada da percorrere e a fare delle scelte che permettano un aumento della vitalità.
Il modello incorpora una verità fondamentale per tutti i sistemi viventi: la vita scorre attraverso cicli inseparabili di morte e nascita, l'una che alimenta l'altra. Rigenerare se stessi, la propria squadra, la propria organizzazione ed andare verso un'economia rigenerativa non significa solo far nascere innovazioni e generare vita, ma anche lasciare andare ciò che non può più continuare, ciò che deve morire, nel mondo che abbiamo rigenerato.
Il modello è costruito intorno a due diversi cicli. Entrambi alimentano e regolano il flusso della vita: uno opera per strutturare il processo di “morte” di lasciare andare; l'altro lavora sulla strutturazione del processo della vita nuova che chiede di emergere.
Di seguito i 6 principi del nostro modello, i primi tre relativi al processo di “lasciare andare”, o di morte e gli altri tre legati alla strutturazione del processo di vita emergente.
Ciclo 1
Strutturare il processo di morte: nominare e lasciare andare ciò che deve finire
Principio #1: Disinvestire dai processi che consumano la vitalità. Ciò che consuma davvero la vita non è tanto la morte ma il fatto di investire energia nel mantenere in vita di qualcosa che ha invece bisogno di morire, di finire, di essere abbandonato.
Di seguito alcuni esempi di processi che succhiano vita ed energie a livello individuale, di gruppo, organizzativo ed alcune idee su cosa fare di diverso.
A livello individuale
- Nutrire il proprio “falso sé” invece del sé autentico: disinvestire da questo tipo di processi significa lasciare andare relazioni disfunzionali, obiettivi irraggiungibili e non fondanti che rincorriamo, rispondendo ad aspettative che ci sono state inculcate dall’esterno ma che non corrispondono (o non corrispondono più) a ciò che vogliamo veramente e che non aiutano la costruzione di senso per l’organizzazione alla quale apparteniamo;
- Uno stile di management stereotipato, ad esempio ispirato al “bastone e carota”, attraverso il quale ci illudiamo di “motivare” i collaboratori e le collaboratrici, in un mondo nel quale è oramai noto che la motivazione nel medio e lungo periodo le persone la trovano in quello che fanno, nell’allineamento tra esterno ed interno e che non è il manager che potrà inculcarla in qualche modo, ma che al massimo potrà aiutare le persone a trovarla;
- Continuare ad investire in progetti e partecipare a riunioni che sappiamo essere mortifere (senza impegnarsi per ridare loro vita) invece di guardare la realtà e identificare progetti o attività che continuano solo perché nessuno ha il coraggio di dire che dovrebbero finire;
A livello di team ed organizzazione
- All’interno del proprio team ed organizzazione, invece di vivere nell’opacità e nell’ambiguità dei ruoli, portare una cultura della trasparenza, della responsabilità e dell’apprendimento, così da poter spendere l’energia per affrontare problemi reali, piuttosto che per coprire le mancanze;
- Liberarsi dalle dinamiche di compensazione che portano a prendere il ruolo di qualcun’altr* per compensare l’incapacità altrui di prendere il ruolo: imparare invece a dare feedback aperti e rispettosi, ad aiutare collegh*, collaboratori e collaboratrici, manager a responsabilizzarsi, ad esplorare coraggiosamente il perimetro del proprio ruolo, ad assumere le conseguenze delle proprie azioni;
- Smettere di sostenere progetti/prodotti/servizi oltre la fase iniziale di lancio, nonostante l'evidenza che non sono in grado di auto sostenersi e malgrado il mercato di riferimento abbia mandato segnali chiari rispetto al non allineamento con i bisogni;
- Nel passaggio ad un'economia rigenerativa, è importante verificare l'impatto delle varie catene del valore al cuore del proprio business e impegnarsi a un disinvestimento pianificato da tutte quelle attività che degradano gli ecosistemi piuttosto che rigenerarli..
Nel nostro modello, il disinvestimento da tutti quei processi che consumano la vita è il primo principio: fermarsi, rendersi conto di ciò che non deve più continuare, è il primo passo verso una vera trasformazione. Abbandonare permette di liberare tempo ed energie che diventano improvvisamente disponibili e che possono poi essere reinvestiti in processi che stimolano la vita. Disinvestire da attività degradanti apre spazi possibili di creatività che possono portare ad inventare nuove componenti nella vostra catena del valore, o addirittura intere nuove catene del valore.
ATTENZIONE! Arrivare un mattino al lavoro e dire al o alla propria manager, alle colleghe e colleghi, fornitori, clienti, “Basta, questo mi consuma la vitalità, smettetela!” è una reazione che rischia solo di aumentare il livello di tossicità del vostro ambiente di lavoro! E’ importante, quando si decide di apportare un cambiamento, esprimere la vostra intenzione chiaramente ma occorre usare un approccio che sia, di per se stesso, generatore di vita. Quindi, ad esempio, NO alla colpevolizzazione degli altri.
Astenetevi a tutti i costi da un approccio “quello che viviamo, come individui e come organizzazione, è colpa tua, della tal funzione, della tal persona!”- l’unico risultato rischia di essere una reazione di negazione dei problemi e di rabbia verso di voi, che attiverà solo delle resistenze al cambiamento. E’ importante partire da sé, riconoscere la propria responsabilità ed il ruolo che abbiamo giocato nel co-creare la realtà che abbiamo voglia di rigenerare, e poi condividre le intuizioni su ciò che sentite. Invitate, ad esempio, chi vi sta intorno a condividere i diversi punti di vista, in un'atmosfera non giudicante. L'uso dell'Ascolto Generativo, del Parlare Generativo e di altri strumenti di Comunicazione Non Violenta sarà la chiave per il successo della vostra impresa.
Questi articoli sono un po' il nostro "Calendario dell'Avvento". Appariranno due volte alla settimana, il martedì e il giovedì sul nostro blog, appuntamento per il prossimo il 9 dicembre.
I Sei principi della Rigenerazione
“If we keep doing what we’ve always done, we’ll keep getting what we’ve always got”.
Questa frase non è mai stata così vera come in questo momento, nel quale la maggior parte di noi, in Europa e nel Mondo, sta tentando di uscire dalle misure di isolamento e affronta la sfida del riavvio delle nostre economie post COVID. Rimettere in moto la vecchia macchina industriale a pieno regime, nel tentativo di recuperare tutto il business scomparso negli ultimi mesi è un'idea allettante, che rischia di darci un (falso) senso di sicurezza, illudendoci che presto potremo riprenderci e che tutto tornerà come prima.
La frase di apertura contiene un saggio avvertimento: continuare a fare quello che stavamo facendo produrrà solo di più di quello che già c'era, ponendo le basi per una crisi ancora più grande: ambientale, sociale ed economica.
Dalla ri-presa alla ri-generazione
La "ripresa" potrebbe infatti non essere il termine più utile per aiutarci a pensare alla strada da percorrere. “Ripresa” implica il ritorno a uno stato precedente, che era, per molti versi, malsano e insostenibile. “Ripresa”, ancora, crea l’illusione che questi ultimi mesi siano stati una parentesi, e che il mondo possa ritornare, quando finalmente ne usciremo, esattamente là dove siamo stati interrotti.
I tempi ci chiedono di fare una scelta più audace: una scelta che ci mobiliterà ad agire con senso, a ritrovare fiducia in noi stessi e negli altri, a sfruttare la nostra energia e creatività per costruire economie fiorenti, che non solo proteggano gli ecosistemi, ma che li aiutino anche a prosperare. Una scelta che stimoli la nostra immaginazione a reinventare il modo in cui facciamo business, una scelta che possa contemplare il fatto che l'essere umano è parte della Natura e non separato dalla Natura: una scelta, quindi, che permetta alle nostre fiorenti attività economiche di arricchire gli ecosistemi che ci circondano, invece di impoverirli.
Questa scelta audace ha un nome: si chiama Rigenerazione: di noi stessi, dei nostri team e delle organizzazioni; significa poter costruire un mondo nuovo tenendo conto della Natura, per portare alla rigenerazione anche degli ecosistemi nei quali viviamo.
La Natura è il sistema più complesso; la Natura è il sistema più vitale.
La rigenerazione è una delle leggi alla base dei processi vitali. Da miliardi di anni ormai, la rigenerazione ha aiutato la vita a creare le condizioni per riprodursi e prosperare, consentendo la ricchezza e la diversificazione degli ecosistemi che ci circondano.
Se scegliamo, collettivamente, di cogliere l’opportunità storica di reinventare le modalità attraverso le quali creare e condividere valore, scambiare, collaborare e competere, privilegiando ciò che produce ricchezza e non ciò che causa il degrado degli ecosistemi, allora la Natura può diventare fonte di ispirazione per permetterci di produrre i cambiamenti che sono necessari. Osservandola possiamo imparare qual è il principio che permette agli ecosistemi di essere così naturalmente favorevoli alla vita e trasferire questi apprendimenti alle organizzazioni che abitiamo.
Un paio di anni fa, in un altro articolo, abbiamo descritto i 5 principi che avevamo individuato essere il centro dei processi vitali sulla Terra ed alcune idee su come, concretamente applicarli per la rigenerazione degli ecosistemi sociali, personali e organizzativi contribuendo così alla transizione verso un'economia rigenerativa.
Da allora, abbiamo testato questi cinque principi con le organizzazioni per le quali lavoriamo. Il nostro lavoro di consulenti, facilitatori e facilitatrici, a supporto di numerose organizzazioni, ci ha aiutato a scoprire un sesto principio e ci ha permesso di completare il modello per la rigenerazione individuale, di gruppo e organizzativa.
Questi articoli sono un po' il nostro "Calendario dell'Avvento". Appariranno due volte alla settimana, il martedì e il giovedì sul nostro blog, appuntamento per il prossimo il 7 dicembre.
Bernard Tapie, l'immaginario collettivo e la rigenerazione
In Francia è appena morto un uomo straordinario. Il suo nome era Bernard Tapie. Per decenni, ha segnato l'immaginario collettivo dei francesi; amato o odiato, ha incarnato per molti di loro il simbolo del 'self-made man', l'esempio vivente dell'uomo d'affari che combatte, che ha la rabbia di vincere, e che riesce in alcune mosse molto belle.
Bernard Tapie è un po' come il nostro Steve Jobs o Elon Musk: un "capo" che viene portato come esempio, quello attraverso cui arriva il successo. È l'incarnazione del "volere è potere", l'esempio citato nei corsi di formazione alla leadership perché, secondo le teorie in voga, ha tutti i pregi di un leader: carisma, determinazione, mancanza di scrupoli quando si tratta di prendere decisioni importanti, ecc.
Lasciamo da parte l'uomo e guardiamo cosa rivela questa immagine di Bernard Tapie - come quella di Steve Jobs o Elon Musk - sul nostro immaginario collettivo:
- Che l'archetipo del leader rimane, soprattutto, maschile. Quando accompagniamo i nostri clienti, o quando formiamo i leader di domani alla ESSEC Business School, spesso introduciamo la seguente domanda all'inizio del workshop: chi sono le 3 persone che più incarnano il significato di leadership per te? Più del 90% delle risposte, date sia dalle donne che dagli uomini, sono nomi di uomini...
- Che questo leader è solo. Solo contro tutti nel suo successo, per superare le avversità. Solo nel guidare ciò che alla fine farà la differenza (un'idea per nuovi mercati, nuovi prodotti, nuove conquiste...). Nel nostro immaginario collettivo, Tapie, come Jobs e Musk, non hanno nessuna squadra, nessun partner
- Che 'leader' (un verbo derivato da un neologismo) significa conquistare
- E che è questo leader, un uomo, solo e conquistatore, che modellerà il nostro destino - nel bene e nel male
Ci sono molti modi per decostruire tutte queste fantasie su cosa sia un leader, ma proprio perché sono fantasie, e quindi profondamente radicate in un terreno emotivo, persino viscerale, non è con la ragione che ci riusciremo.
Permettetemi quindi di proporre un altro approccio, più adatto ai tempi che corrono. Un approccio basato su un'intuizione e una sorta di "salto della fede": se vogliamo evitare che lo sconvolgimento della biosfera (cioè il clima e la biodiversità) metta fine alla vita della specie umana su questo pianeta, dovremo imparare a funzionare come la natura e non contro la natura.
E come funziona la Natura, in termini di leadership? Bene, immaginatevi in una foresta di 100 anni: ci sono alberi, cespugli, piante; un ruscello che alimenta non solo tutte queste piante, ma anche gli animali e gli insetti che sono venuti a vivere lì. Ogni elemento ha non solo una, ma diverse funzioni che sono benefiche per tutto l'ecosistema: l'albero cattura la CO2, regola la temperatura, struttura il suolo e trattiene l'acqua in esso, nutre il suolo quando perde foglie o rami o quando muore...
Dov'è il leader nella foresta? Non c'è nessuno.
Nella foresta non si è mai soli. Non si conquista nulla, tranne lo spazio in cui si può fiorire. Noi esistiamo a causa degli altri, che a loro volta esistono a causa nostra, impigliati come siamo in una rete complessa che tesse il nostro destino comune.
Se c'è una leadership nella foresta, è quella di avviare il mio contributo all'ecosistema, quello che permetterà agli altri di fare lo stesso, e quindi avviare una serie di circoli virtuosi che, come dice giustamente Janine Benyus, permetterà alla vita di creare le condizioni per altra vita.
Se vogliamo trasformare il nostro impatto su questa terra, se vogliamo passare da un'economia predatoria ed estrattiva ad una rigenerativa, allora il primo passo sarà quello di rigenerare i nostri modelli mentali sul tipo di leadership di cui abbiamo bisogno per arrivarci.
Le 3D e le 3C della trasformazione
Negli ultimi 18 mesi, noi di Nexus abbiamo lavorato ad un progetto di trasformazione organizzativa su larga scala con un'organizzazione internazionale. Abbiamo basato il nostro progetto sul processo U di Otto Scharmer, che abbiamo adattato in anni di pratica.
Nel nostro approccio, abbiamo messo molta enfasi sulla fase di Sensing, per assicurarci, fin dall'inizio, che le persone escano davvero dalla loro realtà quotidiana, in modo che la loro mente e il loro cuore possano iniziare ad essere messi un po' alla prova. In altre parole, il Sensing, per noi, deve operare a due livelli contemporaneamente:
- Contenuti/dati: cosa sto imparando, cosa sto scoprendo, quali sono le nuove informazioni, le nuove tendenze che sto raccogliendo, le nuove intuizioni per me?
- Processo/emozioni: cosa mi sta succedendo mentre sto scoprendo tutto questo? Come vengo toccato, commosso, sfidato da tutto ciò? Quali dei miei presupposti, dei miei modelli mentali, vengono messi in discussione da questo apprendimento e da questa scoperta?
Quindi, con questo in mente, abbiamo progettato un processo di Sensing che invitava i membri della nostra organizzazione cliente, da ogni parte del mondo, ad uscire dalla loro bolla, e iniziare a percepire sia il loro contesto (il mondo intorno a loro), sia il loro sistema (la loro organizzazione, e ciò che, in essa, si sentiva vivo o piuttosto spento).
La partecipazione è stata buona. Più di 300 persone si sono impegnate in un dialogo autentico sulla loro percezione della realtà e sul mondo che le circonda. A intervalli regolari, abbiamo riunito una cinquantina di loro, per sentire il polso di quel Sensing, e misurare quanto erano andati avanti, e quanto il Sensing stesso stava già avendo un effetto trasformativo.
Al secondo di questi eventi di "presa del polso", è diventato chiaro che non molto stava effettivamente cambiando nella loro percezione di se stessi e di come operavano. O, per essere più precisi, qualsiasi intuizione sembrava "là fuori", scollegata da loro; come se le questioni che stavano discutendo durante quegli incontri di "Sensing" - per quanto pressanti e pertinenti - appartenessero solo a quelle discussioni, ed il "business as usual" potesse comunque continuare una volta terminati quegli incontri.
In altre parole, Sensing non stava avendo alcun impatto trasformativo. Sì, i dati e gli approfondimenti venivano generati, ma non c'era un ponte tra gli approfondimenti e l'azione, non c'era apprendimento. Le conversazioni di Sensing rimanevano esercizi intellettuali, accolti da alcuni come una boccata d'aria fresca (finalmente, stiamo parlando di qualcosa!), e percepiti da altri come una perdita di tempo (siamo occupati, perché sprecare il nostro tempo su queste conversazioni, le abbiamo già fatte prima e non cambia nulla).
L'organizzazione stava effettivamente facendo Sensing, e semplicemente questo momento non funzionava per loro? O la mancanza di impatto era di per sé un segno del fatto che non si stavano impegnando nel Sensing? E come potevamo valutare quale ipotesi era giusta?
Alle prese con queste domande insieme al cliente, abbiamo scoperto uno strumento che, da allora, si è dimostrato molto utile. Lo abbiamo chiamato le 3D - coniando così il termine 3D-Sensing. Queste 3D si riferiscono a 3 caratteristiche che ogni vero Sensing della realtà dovrebbe contentere. E per sapere se queste sono presenti, è molto semplice. Chiunque sia effettivamente impegnato nel Sensing si dovrebbe sentire:
- “Displaced”: come se foste stati sradicati in qualche modo, portati in una realtà diversa - o almeno, come direbbe il poeta inglese T.S. Eliott, come se vedeste la vostra realtà per la prima volta. Percepire è come viaggiare in qualche modo, e dovreste avere la sensazione di perdere l'orientamento; le cose si sentono e hanno un sapore un po' diverso; la luce che brilla sulla vostra realtà dovrebbe creare uno scenario che non avete mai visto prima. Dovreste dire cose come: "wow, questi siamo noi?" o "wow, questo è il mondo intorno a noi? Non mi ero mai reso conto che fosse così prima!".
- Disturbante: creare un po' di disagio, perché in qualche modo ciò che avevate caro nel vostro cuore, le cose che pensavate di sapere, le certezze, vengono messe in discussione. Il Sensing dovrebbe generare ciò che alcuni, oggi, amano chiamare "disimparare", cioè il lasciar andare certe vostre credenze, le supposizioni, i modelli mentali sul mondo, e su cio' che è il vostro posto e ruolo in esso - affinché ne emergano di nuovi, più in sintonia con ciò che il Sensing vi ha aiutato a fare emergere. E, a sua volta, questo può generare ciò che lo psicoanalista britannico Wilfred Bion chiamava "la paura del cambiamento catastrofico": questa sensazione che il solido e rassicurante terreno di conoscenza su cui era basato il funzionamento attuale, stia per scomparire da sotto i nostri piedi - il che, come potete immaginare, è una sensazione piuttosto inquietante
- “Disrupted”: ci sono alcune scoperte, alcune intuizioni che creano un effetto del tipo "prima/dopo"; "nulla sarà più come prima": rimuovere una cannuccia di plastica dal naso di una tartaruga, o mangiare per la prima volta una carota coltivata biologicamente dopo aver mangiato solo carote avvolte dalla plastica, possono esserne esempi. In qualche modo, il Sensing, di per sé, dovrebbe avere un impatto sul vostro comportamento, perché il disturbo creato dall'esperienza vi ha offerto dati non mediati che vi toccano proprio nel cuore del vostro essere - non solo intellettualmente, ma anche emotivamente e spiritualmente. In modo tale che non vorrete - semplicemente non sarete più capaci - di tornare al vostro comportamento precedente per un po' di tempo (questo effetto svanisce con il tempo, è anche per questo che il Sensing non deve essere un'esperienza una tantum, ma piuttosto una disposizione continua nella nostra relazione con il mondo). Questo riecheggia uno dei 12 punti di leva di Donella Meadows (una brillante pensatrice di sistemi) nella trasformazione organizzativa: accesso diretto e non mediato ai dati, e in particolare a quelli che evidenziano le conseguenze del proprio comportamento
Come ricordato prima, questo strumento è diventato molto utile per questo gruppo - e per altri - aiutandoli a valutare se si stavano effettivamente impegnando nel Sensing o se stavano solo fingendo, in modo che fossero, se necessario, in grado di regolare i tipi di conversazioni che stavano avendo, usando la matrice del Parlare Generativo per sfidarsi a vicenda in un modo utile e costruttivo.
Da allora, abbiamo ancora riflettuto, cercando di rivelare ciò che potrebbe trattenerci dal vivere pienamente le 3D, e la nostra ipotesi in questa fase, è che sono le 3C che ci trattengono dall'essere in 3D:
- Comfort: rispondendo ad una tendenza individuale e collettiva a cercare la stabilità, la prevedibilità e, di conseguenza, ad evitare tutto ciò che potrebbe spostare, disturbare o interrrompere. Ci sono potenti dinamiche omeostatiche in ogni sistema vivente, molte delle quali sono al servizio della sua sopravvivenza, quindi chi preferisce privilegiare il comfort alla trasformazione non è da guardare dall'alto al basso. È solo che dobbiamo essere consapevoli che il Sensing non è fatto per aumentare il nostro livello di comfort e che, per andare davvero a fondo dobbiamo essere preparati ad allentare un po' il nostro desiderio di comodità.
- Collusione: molte delle scoperte sui malfunzionamenti dei sistemi ai quali apparteniamo riguardano cose sulle quali abbiamo una certa responsabilità. Non qualcun altro; no, noi. Quindi, immergersi in profondità nel nostro funzionamento significa far luce su cose che facciamo noi, problemi con cui effettivamente colludiamo. E questo, di per sé, è particolarmente scomodo. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se a volte ci fermiamo prima di impegnarci in un vero e proprio Sensing, per paura di dover riconoscere la nostra parte nel problema che sembravamo, poco prima, così desiderosi di risolvere. Ma come dice Adam Kahane, il "padre" del processo di Transformative Planning, nel suo libro sugli scenari, descrivendo le difficoltà o le resistenze innescate nei partecipanti da un'imminente intuizione della loro propria collusione con le difficoltà che stavano affrontando: "se non sei parte del problema, non puoi essere parte della soluzione". Quindi cerchiamo non solo di riconoscere, ma forse anche di celebrare, come stiamo contribuendo a, o colludendo con, le situazioni disfunzionali che vorremmo trasformare - perché questa è una chiave per trasformarle che abbiamo nelle nostre mani, ora.
- Compensazione: una particolare dinamica collusiva che troviamo nei sistemi disfunzionali è quella in cui alcune persone finiscono per fare ciò che altri dovrebbero fare, spesso per paura che questi ultimi non riescano a realizzare effettivamente ciò che devono fare. Piuttosto che chiamarli a rispondere, e aiutarli a crescere nella responsabilità di assicurare che facciano ciò che il loro ruolo richiede loro di fare, rischiamo di farlo per loro - un comportamento che si chiama "compensazione". Il processo di Sensing tende a far luce su queste dinamiche, che sono particolarmente scomode perché tendiamo a sentirci impotenti nel trasformarle, perché ci richiederebbe di allentare il desiderio di controllo e di iniettare più responsabilità nel sistema. In termini kleiniani, ci si potrebbe sentire meglio ad essere percepiti come un oggetto buono, una buona madre ipercompensante che fa tutto per i suoi piccoli, piuttosto che come un oggetto cattivo, una figura paterna severa ed esigente.
In conclusione, forse possiamo guardare a questi problemi attraverso la lente della Rigenerazione: se vogliamo impegnarci nel tipo di Trasformazione che porta nuova vita ed energia nel nostro sistema organizzativo, il Sensing è sicuramente un passo chiave in quel viaggio, in quanto abbiamo bisogno di far entrare il mondo - così come abbiamo bisogno di aprire la porta e uscire nel mondo - e sfidare le nostre abitudini, assunti e modelli mentali. Quel viaggio dovrà essere un viaggio in 3D, in cui accettiamo che essere spostati, disturbati e sconvolti è un segno di nuova vita che scorre nelle nostre vene, e per ottenere ciò, dovremo lasciar andare e addolorarci delle 3C.
Dobbiamo fare la guerra al clima?
I segni sono lì, difficilmente evitabili; sta arrivando da noi. Il cambiamento climatico sta diventando evidente, i suoi effetti si fanno già sentire, e la scienza che già alcuni decenni fa ci aveva parlato del fenomeno che stiamo vivendo ora ci dice che abbiamo solo pochi anni per agire (20 per i più ottimisti, 2 per i più pessimisti). Mentre scrivo queste poche righe, l'IPCC ha appena pubblicato un altro rapporto, in cui si dice ancora più chiaramente che il tempo sta finendo - e velocemente.
Così le voci che chiedono una guerra al clima sono sempre più forti, e hanno senso a diversi livelli. Eppure vale la pena di fare un passo indietro e chiedersi: fare la guerra al clima sarebbe il catalizzatore che abbiamo desiderato così a lungo, o sarebbe, nel migliore dei casi, uno spreco di energie e, nel peggiore, potrebbe peggiorare la situazione?
Ebbene, una delle ragioni per l'inazione ricorrente finora è la mancanza di minaccia immediata percepita; quindi introdurre il linguaggio della guerra aumenterebbe quel senso di minaccia, che possiamo sperare sia un maggiore innesco per l'azione. In relazione a Covid-19, questa è la strategia che il presidente francese Emmanuel Macron ha scelto per introdurre il primo blocco della nostra storia recente, con il suo famoso "siamo in guerra!".
Entrare in una guerra sul clima può anche rivelarsi un'opzione unificante per i leader mondiali che hanno dimostrato finora di essere così divisi, riecheggia storie archetipiche di umanità che si unisce contro gli invasori extra-terrestri. E forse il più recente rapporto dell'IPCC può sentirsi come questa minaccia globale che saremmo sciocchi a non unirci per combattere. Anche se la breve copertura mediatica può suggerire che la minaccia non è stata sentita con l'intensità richiesta...
Infine, la seconda guerra mondiale è un buon esempio di ciò che si può ottenere quando, in nome dello "sforzo bellico", si dirotta un'intera economia verso un unico scopo eccezionale. Se lo "sforzo climatico" non lo farà, forse lo farà lo "sforzo bellico"? Un esempio molto recente è stato, infatti, l'enorme mobilitazione per l'economia in questa pandemia, e l'inquadramento di Macron con il suo "siamo in guerra!" ha certamente posto le basi per le misure appropriate da prendere senza alcuna obiezione dal resto dello spettro politico.
La retorica della guerra, tuttavia, porta con sé i suoi problemi. Sì, alimenta la nostra motivazione mobilitando il nostro senso di onnipotenza, ma il nostro senso di onnipotenza, sulla natura in particolare, non è forse parte del problema stesso che stiamo cercando di risolvere? Abbiamo visto cosa fa un senso di onnipotenza in passato, come ci ricorda la vecchia barzelletta: la "guerra alla droga" sembra essere stata seguita da più droga, la "guerra al terrorismo" da più terrorismo; la "guerra alla disoccupazione" da più disoccupazione... e se la "guerra al cambiamento climatico" generasse più cambiamento climatico?
Il linguaggio della guerra, e quel senso di onnipotenza indotta, portano con sé anche la necessità di "armi". Lungi dal cercare di ridurre, o "sottrarre", come spiega Leidy Klotz nel suo meraviglioso libro , le stesse fonti di squilibrio che le nostre attività industriali hanno prodotto, la creatività intorno alle armi in questa guerra al clima tende ad essere, purtroppo, generata dalla stessa mentalità che ha prodotto i problemi che stiamo cercando di affrontare: più tecnologia, più invenzioni industriali, più interferenze con la Natura. Alcuni esempi sono: spruzzare massicciamente zolfo nell'atmosfera, per filtrare parte del Sole; catturare il CO² e seppellirlo nel terreno; l'idrogeno come prossima generazione di energia ...
Queste idee non solo sono sbagliate e pericolose, ma mancano anche il punto: infatti, dicendo che il clima (il cambiamento) è il nemico, stiamo facendo credere che sia qualcosa di esterno a noi, che viene verso di noi come farebbe un leone affamato verso un gruppo di turisti persi nella savana. Eppure il cambiamento climatico è tutt'altro che scollegato da noi; è il risultato del nostro comportamento come specie umana, proprio come la musica che sentite è il risultato del comportamento dell'orchestra, o il disordine nel vostro salotto il risultato della vostra mancanza di disciplina nel riordinare. Acclamandolo come il nemico là fuori si perde la fonte del fenomeno, e si tende a trattare i sintomi piuttosto che le cause. E le cause sono ora molto chiare: le nostre economie che sono cresciute fino a diventare altamente degradanti e degenerative, basate sul pensiero lineare "Prendi-Prendi-Usa-Lascia", che hanno esaurito i sistemi di supporto vitale della Terra per decenni, ignari dell'impatto sia della nostra ingordigia di risorse della Terra, sia della tossicità dei nostri output.
Se la guerra è la risposta, e una guerra di successo è quella che mira alle vere cause, allora dovremmo fare la guerra a noi stessi? Certo che no, questo sarebbe autodistruttivo. Eppure, paradossalmente, i nostri comportamenti attuali sono, in modi sempre più chiari, essenzialmente autodistruttivi.
Come possiamo risolvere queste psicodinamiche disfunzionali?
Bene, la psicologia potrebbe essere d'aiuto qui, e, in particolare, i recenti sviluppi della psicologia integrale, che ci stanno mostrando che piuttosto che spingere fuori i nostri sintomi indesiderati (ansia, rabbia, vergogna, ecc.), possiamo essere molto più potenti nel trasformare la nostra esperienza quando iniziamo ad accoglierli come parte di noi, senza giudicarli. Accogliere quelle parti immature della nostra personalità che stanno alla base di quei sintomi e tenerle nell'amore è molto più probabile che porti alla maturazione psicologica che stiamo cercando, piuttosto che mettere la nostra energia nel giudicare, condannare e cercare di bandirle.
Anche alcuni malati di cancro riferiscono che la loro esperienza della loro malattia è cambiata quando hanno smesso di rapportarsi al loro tumore come un qualche invasore esterno che colonizza il loro corpo, che poi deve essere attaccato con potenti sostanze chimiche; ma piuttosto si sono collegati al fatto che è una parte di loro stessi che si sta comportando in un modo che è diventato disallineato con il loro essere intenzionale.
Quindi la domanda rimane: dobbiamo fare la guerra al clima?
Ebbene, ciò che è certo è che dobbiamo agire: completamente, con tutto il cuore e con una portata senza precedenti, dove l'insieme delle nostre economie e dei nostri comportamenti su questo pianeta devono essere trasformati. Se la guerra è ciò che vi mobiliterà ad agire, così sia.
Ma ricordate due cose: 1) la guerra deve essere l'ultima cosa da fare, quando tutto il resto ha fallito; e 2) la sfida più grande non è fare la guerra, ma fare la pace (duratura). Pace con la natura, pace con il fatto che siamo parte della natura e non separati da essa, e pace con noi stessi.
Quindi, forse dovremmo dimenticare la guerra e dichiarare invece la pace con la Natura?
La Parola Generativa: L’altro potente comportamento trasformativo
Come si può " dire la verità " e allo stesso tempo preservare le condizioni per un dialogo e un impegno costruttivo sul lavoro? Come riuscire a rimanere fedeli a se stessi - a ciò che si pensa e si sente - e trovare un modo di presentarsi che migliori la collaborazione piuttosto che correre il rischio di distruggerla? Come dire cio' che si pensa senza autocensura, in un modo che coinvolga gli altri piuttosto che farli allontanare?
Anche quando i 7 principi dell'Ascolto Generativo vengono applicati diligentemente, queste domande pervadono molte relazioni sul lavoro, ma raramente vengono affrontate in modo soddisfacente. Il più delle volte, pensiamo che se dicessimo davvero ciò che sentiamo o pensiamo, danneggeremmo, o distruggeremmo, l'attuale status quo nelle relazioni; creeremmo conflitti insanabili rischiando di estromettere alcune delle parti interessate - compresi noi stessi. La paura di auto-alienarsi, o di creare frammentazione, impedisce a molti di dire ciò che realmente accade dentro di loro; di condividere la loro vera prospettiva sulla situazione in gioco.
Altri, al contrario, si limitano a "dire le cose come stanno", cercando la frammentazione e la polarizzazione come un modo per funzionare o addirittura per governare.
Come trasformare il nostro modello mentale di conversazione, dal dibattito al dialogo
Ciò che entrambi gli approcci condividono è un modello mentale secondo cui dire la verità genera divisione, e che questa non può essere evitata. Ciò si basa su un altro modello mentale, quello che vede il dibattito come l'unica forma di conversazione produttiva.
I miei molti anni come consulente organizzativo mi hanno mostrato che c'è un altro modo. Lontano dalle tecniche di manipolazione, c'è un modo per essere pienamente presenti nella conversazione, invitando e permettendo anche agli altri di essere presenti, in un modo che fa sentire tutti parte dello stesso tutto - la stessa esplorazione di un fenomeno condiviso: questo è ciò che io chiamo Parola Generativa.
Il Parola Generativa inizia con l'essere presente a se stessi in primo luogo, inizia quindi dal 7° principio dell'Ascolto Generativo. Se voglio dire la mia verità, devo conoscere la mia verità. Quindi ho bisogno di verificare costantemente e con sincerità come mi sento, in questa fase della conversazione e perché.
Su questa base, la Parola Generativa consiste nel rispondere realmente a ciò che gli altri hanno appena detto, non nell'aspettare il proprio turno di parlare per poter dire qualcosa che è venuto in mente a me 10 o 15 minuti fa. La conversazione generativa avviene nel qui e ora, dove il passato (i miei pensieri/idee/punti di vista, prima che gli altri parlassero) incontra il presente (ciò che è stato appena detto) per costruire il futuro attraverso la conversazione.
La Parola distruttiva e sterile
Anche se ero consapevole da un po' dell'importanza della qualità della conversazione nel produrre risultati eccellenti in situazioni di lavoro, la centralità della Parola Generativa mi è apparsa come un lampo d'intuizione alcuni anni fa, in una riunione ad alto rischio, proprio a causa della sua assenza.
Immaginate: l'amministratore delegato di una piattaforma di investimento appena accorpata, ci ha incaricato di facilitare la fusione di queste due piattaforme nazionali separate in un'unica piattaforma europea. Abbiamo accettato di accompagnare team di progetto misti al fine di facilitarli nello sviluppare la visione del vantaggio competitivo che questa nuova piattaforma può portare, e prototipare nuovi prodotti e iniziative di business per renderla effettiva.
In una riunione specifica convocata per ascoltare i risultati dei team di progetto, il CEO ascolta le proposte che gli vengono presentate, e risponde in un modo che semplicemente chiude la conversazione e manda in frantumi la motivazione di coloro che si erano offerti di impegnarsi nei team di progetto. I suoi errori principali?
- Restare per lo più con "mi piace", "non mi piace": la faccenda, in questa fase della conversazione che è incentrata sulla ricezione del lavoro prodotto, non riguarda il gradimento di un'idea, ma piuttosto a) assicurarsi di averla capita e b) verificare se ha senso per il business. Rispondendo solo con mi piace o non mi piace, il CEO non apre la strada necessaria per raffinare il prototipo proposto ed esplorare come integrarlo nel portafoglio attuale
- Lavorare con presupposti non testati: da molti dei suoi commenti, è diventato chiaro per noi (che abbiamo lavorato con i team del progetto) che il CEO non ha effettivamente compreso appieno ciò che stavano proponendo, e stava piuttosto reagendo sulla base di molte ipotesi non testate. Di conseguenza, una buona parte della conversazione era costruita su fondamenta traballanti. Un po' di umiltà lo avrebbe spinto a chiedere chiarimenti, garantendosi così che le fondamenta fossero sane.
- "Non funzionerà": un'altra risposta comune da parte sua è stata quella di dichiarare platealmente che le soluzioni proposte non avrebbero funzionato. Nessun impegno su ciò che sembrava mancare, su ciò che gli suscitava domande, su come avevano pensato di affrontare questa o quella questione - no, solo, anche in questo caso, un giudizio che chiudeva ogni ulteriore esplorazione reciproca, lasciando appena uno spazio per sostenere e convincere, due processi comunemente usati nel dibattito.
Così, a questo punto della riunione, eravamo in presenza di un gruppo di progetto sgonfio, sempre più convinto che l'approccio co-creativo fosse solo una facciata, dietro la quale si nascondeva un patriarca dominante e irascibile; e non eravamo più avanzati nello sviluppo di iniziative motivanti e a valore aggiunto volte a rendere questa fusione un successo.
Fortunatamente, abbiamo rilevato rapidamente questo modello disfunzionale di interazioni, e siamo stati in grado di fare rapidi cambiamenti nella facilitazione del resto della riunione, in modo che alla fine essa ha prodotto i risultati attesi.
Un framework per la Parola Generativa
Le linee guida che abbiamo elaborato in quel particolare giorno si sono evolute, attraverso la nostra pratica di centinaia di conversazioni organizzative (alcune di esse un vero successo, altre meravigliosi fallimenti), in quello che abbiamo definito essere un framework fondamentale per la Parola Generativa:
Questa griglia è concepita per permettere a chiunque sia coinvolto in una riunione, un workshop, una valutazione delle prestazioni o una trattativa di vendita, di fare la sua parte per la qualità della conversazione che sta avendo, reagendo da una delle quattro posizioni, indipendentemente dal suo ruolo nell'organizzazione. È organizzato in forma di matrice, differenziando ciò che è presente in ciò che ho ascoltato da ciò che non lo è e quello che arricchisce il quadro emergente da ciò che lo oscura:
Posizione I: ciò che capisco che dici, ciò che è più chiaro per me ora. Questa è la posizione tradizionale di riformulazione, finalizzata sia a verificare la propria comprensione sia a trasmettere agli altri che si è ascoltato attentamente ciò che stavano dicendo. Oltre a questo, è un modo di definire continuamente un terreno comune basato sul significato condiviso. Non significa che dovete essere d'accordo con loro, ma almeno questi sono i punti su cui siete tutti chiari. Piuttosto che condividere il suo personale giudizio di valore su ciò che gli piaceva o non gli piaceva, è da qui che il CEO nella vignetta di cui sopra avrebbe dovuto iniziare a rispondere.
Posizione II: Ciò che non capisco, ciò che ha ancora bisogno di essere chiarito. Direttamente collegato al principio 6 dell'Ascolto Generativo, si tratta di un momento per consolidare il terreno su cui si sta camminando nella conversazione in modo che ciò che ne consegue non poggi su fondamenta vacillanti. Ancora una volta questo è un modo di mostrare che avete veramente ascoltato, ma non siete stati in grado di cogliere il significato che veniva trasmesso. Esplicitarlo, può effettivamente aiutare gli altri a raffinare il proprio pensiero attraverso la ricerca di altre parole per esprimere il proprio punto di vista. Può richiedere un po' di umiltà se si preferisce non presentarsi come incapaci di capire, ma l'esperienza mi ha dimostrato che l'umiltà genuina in questa fase rafforza la relazione. La posizione II è quella che il CEO della storia, purtroppo, non ha osato visitare inizialmente; ha avuto bisogno di tempo per arrivarci.
Posizione III: Nuove idee suscitate da ciò che hai detto - ma non presenti in ciò che hai detto. Spesso ascoltando le persone (o leggendo un articolo!), e lasciando vagare la mente, emerge un pensiero nuovo e creativo. Questo è prezioso e non deve essere lasciato semplicemente disperdersi, anche se allo stesso tempo è fondamentale riconoscere che chi ha parlato non ha espresso queste idee - e quindi non è necessariamente in accordo con esse. Quando non lo si riconosce si rischia di introdurre supposizioni nella conversazione che possono tornare a galla più tardi, minacciando di far deragliare l'alleanza che stava emergendo fino a quel momento. Allo stesso tempo, se avete avuto queste idee quando gli altri hanno parlato, forse è perché c'erano, nel loro discorso, parti delle idee che vi sono venute in mente.
Posizione IV: Quello che a me sembra cruciale ma che non ho sentito menzionare. La posizione IV è probabilmente la più importante, quella che può avvicinare le persone piuttosto che allontanarle. All'inizio della riunione, questa posizione mancava nel comportamento del CEO di cui sopra, che di conseguenza allontanava i suoi team di progetto. Tuttavia, i suoi "non mi piace", o "non può funzionare" lasciavano intendere qualcosa di più, se solo si guardava abbastanza da vicino. Infatti, una semplice domanda era in grado di svelarlo - la domanda "Perché? Perché non ti piace, o perché pensi che non funzionerà? Quando la domanda è stata espressa egli è stato in grado di esprimere importanti preoccupazioni su alcuni parametri chiave della "big picture" che sembravano essere assenti dalle proposte, e sulla fattibilità finanziaria per la quale sentiva che altri elementi non erano stati presi in considerazione. Una volta espresse, queste preoccupazioni hanno aperto la porta, per i team di progetto, alla ricerca di risposte; la conversazione è potuta finalmente entrare in uno spazio veramente generativo. Quando ci si sente costretti a reagire con "non mi piace, non funzionerà, non ha senso", possiamo chiederci, prima: perché penso/sento questo? Cosa mi sembra cruciale, che non ho sentito dire ? E rispondere a partire da questo spazio...
Trasformazione: dalla frammentazione alla wholeness
I 7 principi per l'Ascolto Generativo e questa matrice della Parola Generativa, sono, nella mia esperienza, i due comportamenti di trasformazione più potenti: operano per portare l'integrazione, la pienezza, quindi in definitiva non solo l'intelligenza collettiva, ma anche la potenza collettiva - cioè la capacità del tutto di agire con la sua potente forza collettiva.
Trasformano il contenuto su cui basiamo le nostre analisi e le nostre decisioni, sviluppando un quadro più completo, più integrato, più pertinente dell'insieme della situazione. Ed oltre al contenuto, trasformano anche il processo da discussione, argomentazione e antagonismo a spazio di curiosità, esplorazione, collaborazione, integrazione, che permette di vivere un'esperienza di wholeness, di interezza, di pienezza nella relazione. E questa esperienza vissuta libera la potenza del collettivo. d è proprio quell'esperienza vissuta di Totalità che libera la potenza collettiva.Se all'inizio può sembrare complicato dover applicare i 7 principi e la matrice, ricordatevi del processo con cui avete imparato ad andare in bicicletta. All'inizio sembrava qualcosa di alieno e poi, dopo ore e ore di pratica, improvvisamente succede: non si cerca più di muovere la macchina, ma è la macchina che muove noi...
Ascolto generativo: il comportamento più potente per la trasformazione
L'ascolto
Il vero ascolto non viene naturale, sebbene sia cruciale per un dialogo autentico. É un'arte che richiede pratica e una disposizione specifica, in modo che chi parla e chi ascolta si connettano affinché il significato possa veramente fluire attraverso di loro (come suggerisce la radice greca della parola, dia-logos, "significato che fluisce attraverso").
E la danza della costruzione del significato nel cuore dell'autentico Dialogo inizia con un primo passo: L'ascolto.
In tema di ascolto, è l'Ascolto Generativo che ha il più grande potenziale. Ancora di più dell'ascolto profondo o attivo, l'Ascolto Generativo permette un livello di connessione tra chi parla e chi ascolta che è veramente creativo, cioè produce nuove possibilità di azione che nessuna delle parti aveva pensato o si aspettava prima di iniziare la conversazione.
I 7 principi che seguono sono stati sviluppati attraverso la nostra pratica di consulenti organizzativi, nell'accompagnare l'ascolto di individui, gruppi, collettivi:
- Rallentare e notare di più ciò che è presente: spesso quando entriamo in una conversazione (specialmente in un contesto organizzativo), arriviamo pieni di pensieri, idee o preoccupazioni relative a ciò che è appena successo oggi, o a ciò che abbiamo programmato e che deve accadere subito dopo questa conversazione. Questo primo principio ci invita invece ad restare nel momento presente, a sospendere l'attività mentale che ci porta nel passato o nel futuro
- Ascoltare con tutti i sensi: l'ascolto non coinvolge solo l'udito, quindi l'orecchio ma anche tutti gli altri sensi. La vista naturalmente, perché ci aiuta a leggere il linguaggio del corpo - un altro vettore cruciale di significato. Espressioni come "quello che ho sentito mi ha lasciato l'amaro in bocca", o "ho sentito il calore che ha espresso in quello che ha detto", o anche "mmmh in questa situazione sento odore di bruciato" mostrano quanto tutti i nostri sensi siano coinvolti nel connettersi a una realtà quando ascoltiamo. Potenziando i nostri 5 sensi, abbiamo l'occasione di ridurre l'attività cerebrale, riuscendo così ad ascoltare non solo con la testa, ma anche con il cuore
- Ascoltare le parole/immagini scelte: parlare è come dipingere con le parole; mentre parliamo, scegliamo (anche se a volte inconsciamente) parole specifiche - e non altre - per dipingere un quadro della realtà che stiamo cercando di descrivere. Quando ascoltiamo, è cruciale notare quelle parole, le immagini che trasmettono, il potere (o l'opacità) che contengono, in modo che cerchiamo davvero di abitare quel mondo che ci viene descritto. Significa prestare attenzione alle parole insolite, o ai lapsus, perché anch'essi trasmettono un significato importante sul mondo interiore dell'oratore, e sui modelli mentali che possono strutturare il suo pensiero e le sue azioni.
- Ascoltare le emozioni trasmesse dalla persona che sta parlando: le emozioni sono il fondamento della presenza di una persona nel mondo, le radici dei modelli mentali, dei pensieri e delle azioni di qualcuno. Per ascoltare davvero chi ho di fronte è necessario ascoltarne anche le emozioni. Questo può avvenire attraverso il linguaggio del corpo e la scelta delle parole e delle immagini (vedi sopra), ma anche attraverso il tono della voce, il suo tempo, il suo volume; attraverso i silenzi e le esitazioni.
- Sospendere il giudizio: questo è probabilmente uno dei più difficili di questi 7 principi, ma probabilmente uno dei più cruciali. Significa sospendere il giudizio morale e cognitivo. Per giudizio morale, intendiamo il dividere in buono o cattivo, accettabile o inaccettabile, maturo o immaturo, ecc. Per un dialogo vero, autentico, questo giudizio morale deve essere sospeso mentre ascolto, in modo che io possa veramente entrare nell'esperienza vissuta dalla persona che sta parlando. Non significa che devo essere d'accordo o accettare ma che lascio che ciò che ascolto possa coesistere con la mia prospettiva. Se non siete ancora convinti, provate a immaginare di essere giudicati mentre parlate e che la vostra prospettiva, e chi siete, non è ammessa in questo spazio di Dialogo ... Allo stesso modo, è importante sospendere il mio giudizio cognitivo, cioè la mia tendenza a classificare o liquidare ciò che sento in vero e falso, nuovo pensiero o vecchio pensiero, destra o sinistra, ecc. Così come la mia tendenza a finire la frase di qualcuno al posto suo, come se sapessi, già prima che apra la bocca, quello che sta per dire.
- Notare ciò che non capisco o ciò che mi fa sorgere domande, piuttosto che ciò che non mi piace di ciò che sto ascoltando. Spesso capita di sottovalutare ciò che non capiamo, rispetto a quanto l'altro ci sta dicendo. Lavorando spesso in un contesto internazionale, osserviamo spesso che le maggiori incomprensioni avvengono tra persone che parlano la stessa lingua, e non tra coloro che stanno cercando di esprimersi attraverso una lingua straniera. Verificare la mia comprensione piuttosto che lavorare su supposizioni e scorciatoie di significato è fondamentale. Se sento che non mi piace quello che sto ascoltando, piuttosto che rifiutarlo, è forse il momento di verificare che ho capito correttamente - senza saltare alle conclusioni. Se la sensazione continua, posso usarla per chiarire quali domande suscita in me, piuttosto che continuare a giudicare.
- Cosa provo mentre ascolto - e perché? Infine, proprio come era cruciale sintonizzarsi con le emozioni dell'altro mentre ci sta parlando, è fondamentale connettersi anche alle nostre emozioni mentre stiamo ascoltando. Da un lato, può fornire informazioni utili sulla realtà che viene presentata. Dall'altro, è uno dei prerequisiti alla seconda parte del Dialogo: la Parola Generativa, di cui vi parleremo in un prossimo post. Se non prestiamo attenzione alle emozioni che sono state evocate da ciò che abbiamo ascoltato, non saremo in grado di rispondere in modo costruttivo a ciò che ho sentito. Il rischio sarà quello di limitarsi a recitare il proprio stato interiore, mettendo in questo modo a rischio il Dialogo.
Per alcuni dei nostri clienti, e a volte anche per noi, l'Ascolto Generativo è stato lo strumento più potente per consentire la trasformazione organizzativa. Trasformazioni profonde nelle relazioni hanno permesso di generare un enorme produzione di significato, energia, creatività e, a volte, guarigione. Quando chi è in posizione di leadership inizia ad incarnare il suo ruolo principalmente attraverso l'ascolto piuttosto che attraverso il controllo e/o il consiglio, la dinamica diventa collaborativa e generatrice di nuovi modi di lavorare insieme, nuove attività e nuove fonti di performance.
In altri casi l'Ascolto Generativo ha dimostrato di essere un primo passo cruciale nella danza, ma poi è nato il bisogno di altri strumenti o processi per aiutarli a liberare la parola in modo autentico, per poter trattare questioni difficili senza rompere la qualità del Dialogo.
É così che abbiamo cominciato a creare il modello della Parola Generativa...